Il real social tagging: quando il virtuale si innesta nel territorio

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Carlo Infante – Libero docente di Performing Media

Il real social tagging e le mappe emozionali, il geoblog e i matrix code, la partecipazione nel web 2.0 e il tentativo di fare della rete un "reale" spazio pubblico, di confronto attivo e autorganizzato. Dal geoblog di Torino ai confini dell’immaginazione "ludica":  ne parliamo con Carlo Infante.

23 Gennaio 2008

Articolo FPA

Carlo Infante – Libero docente di Performing Media

Il real social tagging e le mappe emozionali, il geoblog e i matrix code, la partecipazione nel web 2.0 e il tentativo di fare della rete un "reale" spazio pubblico, di confronto attivo e autorganizzato. Dal geoblog di Torino ai confini dell’immaginazione "ludica":  ne parliamo con Carlo Infante.

Alla base del geoblog del museo diffuso di Torino c’è il concetto di "real social tagging". Di che cosa si tratta?
Quella esperienza del geoblog ideato e realizzato dal Performing Media Lab del Piemonte e poi sviluppato come Mappa Emozionale del luoghi della memoria antifascista a Torino è un esempio emblematico. Ma è opportuno una riflessione di contesto. Il social tagging è uno dei fenomeni più interessanti del web 2.0, per intendere una dimensione informativa che va oltre la dinamica partecipativa. Si parte da una prima istanza qualificante che è proprio la partecipazione, una condizione attiva che favorisce il feedback, ma bisogna anche capire come dare forma a questa partecipazione. E’ importante, cioè, riuscire a referenziare le informazioni per condividerle attraverso la migliore pertinenza possibile. Allora l’innesto è proprio su questo punto: con il social tagging la partecipazione nel web 2.0 compie un salto di qualità perché si tende a condividere la pertinenza delle parole chiave: le tag. Per tornare al neologismo del "real social tagging" bisogna però fare un salto di qualità ulteriore, quello che riguarda ciò che connette la rete al territorio. Il cosiddetto real social tagging nasce per definire la dimensione territoriale senza contrapporla a quella virtuale. Sia chiaro: il virtuale è qualcosa in più e non qualcosa in meno della realtà. Questo aspetto è legato alla simulazione e a come questa condizione possa elavare il grado di consapevolezza di uno scenario in cui agire. Se si agisce nella simulazione si può acquisire una maggiore esperienza per agire poi nella realtà. In questo senso ritengo che le prove teatrali siano la metafora più appropriata per definire il concetto di simulazione, è il far finta per davvero, ciò che permette di essere meglio preparati alla "realtà".

E’ in questo senso che si definisce la possibilità di un uso cognitivo della rete?
Real social tagging significa proprio connettere le dinamiche strettamente cognitive della rete al territorio, utilizzando le tag (uso il femmile, come per le tag del graffitismo, fenomeno da cui deriva il social tagging) come parola chiave. Su thinktag.org è possibile trovare anche un "manifesto" sul social tagging i-pertinente, firmato insieme a Derrick De Kerchkove. Lì si parla di "ipertinenza", ovvero di quella pertinenza ipertestuale propria di chi ragiona "ludicamente" ed è agile nel pensiero attraverso la rete. Ciò permette di rendersi conto dell’ effetto moltiplicatore che si attiva attraverso l’utilizzo delle informazioni in rete tra loro. C’è chi rischia di subire l’overload informativo, chi non è abituato ad essere associativo, a linkare, a saper cavalcare la dinamica sinaptica delle rete. Il social tagging permette di associare l’automatismo delle reti alla possibilità di selezionare automaticamente la pertinenza delle parole, permette di condividere con il colpo d’occhio.Pensiamo alla tag cloud, la "nuvola" delle parole chiave. Lì si esplicita l’aspetto sensoriale e percettivo insieme a quello cognitivo. Si coniuga la dimensione veloce e automatica della rete con una rapidità e un automatismo proprio di una intelligenza sinaptica e ricombinante.

Come nasce l’idea di un geoblog? E in cosa consiste esattamente?
La mappa emozionale del museo diffuso nasce da un progetto precedente, glocalmap.to, nato prima ancora di google.map Quell’esperienza si è evoluta con le associazioni teatron.org, Acmos e Libera, con cui si è organizzato a Torino una manifestazione contro le mafie (digitate nomafie su glocalmap) che ha portato poi alla realizzazione del Performing Media.lab/pie, un laboratorio sull’uso sociale e creativo dei nuovi media. Nel lavoro con i ragazzi del Performing Media Lab, ho cercato di trovare un modo per cui la città potesse essere "scritta" da chi la vive. Il post, inserito sia attraverso internet che con gli sms, marca la mappa e dà subito l’idea di come la città si muova, reagisca ai problemi, trovi soluzioni, "semplicemente" si autorganizzi. Questo riguarda da un lato la sovranità nazionale (non si usava il satellite americano ma le foto aeree di proprietà degli enti locali) ma anche la possibilità di capitalizzare ciò che molte amministrazioni tengono nel cassetto. Quasi tutte la grandi città d’Italia hanno il panorama aereo della propria comunità territoriale ma non lo utilizzano. Noi ci guardiamo con gli occhi di google map ma è inquietante dipendere da una sola tecnologia, per lo più proprietaria e riconducibile ad uno Stato straniero.

Quali sono le potenzialità di questo utilizzo attivo e partecipativo della rete connessa al territorio?
Sicuramente vastissime. L’elemento territoriale è determinante perché riguarda l’idea di associare al virtuale un’azione reale fatta nel territorio, da corpi che si muovono e rilasciano un segno. Incontri persone, condividi delle esperienze, emozioni e lasci un segno nella rete, come la scia delle lumachine… Come se la rete fosse realmente una nostra estensione, una nostra eco informativa a tutti gli effetti.

Quale pensa sarà la strada evolutiva che seguirà la rete?
Penso che la rete debba essere sempre più un luogo per l’autorganizzazione creativa. Concepire la rete come circolo dell’empatia, tutta l’umanità d’altronde si basa su questo, da sempre. Il principio dell’empatia significa mettersi nei panni dell’altro: se non capisci cos’è l’empatia non sai cos’è la comunicazione. In questi ultimi sessant’anni ci hanno fatto intendere che la comunicazione è ascoltare la radio, leggere i giornali, guardare la televisione. Quella non è comunicazione, quello è "comunicare a", non "comunicare con". Nella società delle metropoli, dei mass media e dei grandi consumi, questa dimensione si è persa, mentre nella campagna il principio dell’empatia è molto più radicato. Le componenti interessanti del mondo, il web 2.0, il concetto di wikinomics fanno riscoprire la valenza della partecipazione e della collaborazione. Ci sono ragazzi che, in tutto il mondo, stanno scoprendo la pratica co-operativa attraverso la rete utilizzando i wiki, il social networking, i vari myspace o facebook. Anche se la cosa che non mi piace di myspace e facebook è che operano solo sulla dinamica desiderante di ragazzi che si cercano senza una vera politica sociale.. mentre noi, nel nostro piccolo, dovremmo fare questo: inventare real social networking, per fare della rete un reale spazio pubblico.

Perché secondo lei la pubblica amministrazione non riesce a fare proprie almeno parte di queste opportunità?
E’ un problema di persone. Alcune non ne vogliono sentire parlare e si mettono di traverso o alimentano l’inerzia. Ma ci sono altri in grado di rilanciare questi temi. Bisognerebbe intercettare quelle persone intelligenti e responsabili e poi trovare i canali giusti di promozione culturale (si, la questione è culturale) che attualmente mancano. L’ambito della ricerca e della formazione avanzata dovrebbero creare delle piattaforme, dei momenti di scambio vero e non addomesticato come in certi ambienti prefabbricati di e-learning. Avremmo bisogno di corsi di formazione molto precisi, caratterizzati sull’istanza ludico-partecipativa, ad esempio. Momenti di raccordo tra la gestione ottimizzata della cosa pubblica e la governance stategica di internet. Dovrebbe essere proprio il mondo dei master la cinghia di trasmissione tra le università (pubbliche e private), la pubblica amministrazione e le potenzialità evolutive della rete. Io credo ci sia molto bisogno di creatività sociale e la pubblica amministrazione farebbe bene a spendere e investire risorse in questa direzione, risparmiando in sicurezza e firewall. E poi si dovrebbe imparare ad essere coerenti: si parla tanto di web 2.0, di reti partecipative e cooperanti ma non si vuole collaborare nè tantomeno mettersi in gioco.

Qual è allora, nella speranza che ci sia, una possibile chiave di volta? L’approccio ludico-partecipativo è fondamentale per capire cos’è la rete e in che modo funziona. Se si adotta un approccio ludico si possono trovare le risposte al perché molte cose non funzionano. Trovo che il principio della tag sia intimamente ludico. Ci permette di isolare, come la panna affiorante dal latte; le parole più calde. È come se dopo una riunione si fosse in grado di fissare le sette parole chiave che ci portano ad una decisione. Ragionare sulle parole chiave della nostra conversazione è un altro modo di sbrogliare la matassa, è una semplificazione che non significa riduzione. È un altro modo di far procedere l’intelligenza, in maniera più sinaptica e meno lineare perché nell’andamento lineare c’è qualcosa che poi diventa goffo. Nel mio libro "Imparare giocando" ho affrontato questo aspetto, analizzando il rapporto tra sensorialità e modalità percettive. Uno dei nodi è li: la vecchia generazione si è fermata su uno sviluppo lineare, mentre i "nativi digitali" crescono da soli. Abbiamo bisogno di un approccio ludico alla conoscenza e alla partecipazione sociale. E’ questa l’anima del concetto di Performing Media. Si tratta di giocare le nostre opportunità evolutive per non essere giocati dalle tecnocrazie.

 

 

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