La strategia dell’ignoranza

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Qualche tempo fa mi hanno invitato in uno di quei consèssi così esclusivi che già solo varcarne la soglia è segno di grande prestigio. Si parlava, in un numero abbastanza ristretto ed estremamente qualificato di personalità, della mission impossible di migliorare radicalmente le performance dell’amministrazione pubblica perché non costituisca il vero spread di efficienza del Paese. Mentre ascoltavo in silenzio mi chiedevo come mai nessuno aveva nominato la digitalizzazione né come obiettivo, né come mezzo. Alla fine mi sono dovuto arrendere all’evidenza: dipendeva dall’ignoranza. Buona parte della crema della nostra classe dirigente non possiede né il sapere tecnico né le basi teoriche. Visto come scegliamo la nostra classe dirigente e come la trattiamo, non potrebbe essere diversamente. Provo ad elencare sette vizi capitali.

28 Novembre 2013

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Carlo Mochi Sismondi

Qualche tempo fa mi hanno invitato, cosa che mi succede di rado, in uno di quei consèssi così esclusivi che già solo varcarne la soglia è segno di grande prestigio. Si parlava, in un numero abbastanza ristretto ed estremamente qualificato di personalità, della mission impossible di migliorare radicalmente le performance dell’amministrazione pubblica perché non costituisca il vero spread di efficienza del Paese. Per ragioni di riservatezza non vi citerò chi c’era, ma vi assicuro che era il gotha della politica e del sapere amministrativo italiano.

Dopo dieci interventi, di grande profondità e valore, che parlavano tutti della necessità di radicali riorganizzazioni sia istituzionali sia di processi e di come razionalizzare le risorse con una non più procrastinabile revisione della spesa, nessuno ancora aveva nominato la digitalizzazione né come obiettivo, né come mezzo.

Mentre ascoltavo in silenzio mi chiedevo a cosa fosse dovuta questa omissione così evidente, questa sottovalutazione di una delle principali innovazioni, forse l’unica che può effettivamente cambiar faccia alla PA. Alla fine mi sono dovuto arrendere all’evidenza: dipendeva dall’ignoranza. Buona parte della crema della nostra classe dirigente, sia politica, sia amministrativa, sia scientifica (ovviamente seguaci dell’unica scienza che ha accesso ai vertici della PA, ossia quella giuridica) non possiede né il sapere tecnico né le basi teoriche, direi filosofiche ed epistemologiche essenziali per capire cosa vuol dire digitalizzare una grande organizzazione e quali risultati rivoluzionari questo può portare. Non sto parlando di saper usare il computer o di saper mandare email, ma di avere quella cultura di fondo necessaria per saper immaginare un futuro possibile, sulla base della più avanzata tecnologia esistente.

Mio padre era chimico, un tecnico quindi anche se con una cultura umanistica di prim’ordine, e si lamentava con me ragazzo che in Italia uno che non sa chi sia Kierkegaard è trattato come un ignorante, uno che non sa che cosa sia un neutrone semplicemente non è un tecnico. Sono passati cinquant’anni, probabilmente gli esempi non sono più validi, ma il gap tra sapere tecnico e sapere "alto" resta immutato, anzi aggravato da un blocco del ricambio generazionale nei posti di potere che è più idiota e autolesionista che scandaloso. Così accade che chi deve decidere si trova semplicemente a non capire il mondo che lo circonda perché, come dice Umberto Galimberti in "Psiche e Techne", noi continuiamo a pensare la tecnica come uno strumento a nostra disposizione, mentre la tecnica è diventata l’ambiente che ci circonda e ci costituisce .

Che succede quando questa "ignoranza" prende possesso del vertice amministrativo e politico delle amministrazioni? Se volete una buona risposta vi rimando all’ormai “celeberrimo” intervento di Luca Attias al FORUM PA di quest’anno, che ha dato luogo al più bel blog spontaneo della nostra PA, in cui ci spiega come imperatori e feudatari della PA, nuovi untouchables, rendano per insipienza e paura di fatto impossibile la PA digitale. Sottoscrivo tutto, io però qui vorrei mettere l’accento su un altro aspetto: la nostra classe dirigente è così (non c’è bisogno di sottolineare che le eccezioni ci sono eccome, ma credo di non essere lontano dal vero se dico che questa ignoranza è appannaggio di oltre l’80% della nostra dirigenza apicale) perché, visto come la scegliamo e come la trattiamo, non potrebbe essere diversa.

Provo ad elencare sette vizi capitali e, per una volta, non ci metto la scelta clientelare della dirigenza apicale, ma anzi voglio convincervi, in uno sforzo dimostrativo, che il teorema, se non cambiano le situazioni di contesto, sarebbe valido anche se non si facessero senatori i cavalli.

Andiamo con l’elenco:

1. I concorsi per assumere i dirigenti pubblici sono rozzi e non aggiornati, non prevedono un esame vero dei curricoli, non presuppongono spesso altro sapere che non quello giuridico. Così chi non sappia esattamente la differenza tra un DPCM e un DPR è fuori gioco, ma chi non sa cosa sia un sistema informativo va avanti senza problemi. Non esistono poi reali e discriminanti esami attitudinali e motivazionali e i periodi di prova sono delle solenni prese in giro. Alla fine vanno bene tutti. Con questo sistema io, che faccio l’imprenditore da una vita, non assumerei neanche un manovale, figuriamoci un dirigente che ha e avrà sempre più responsabilità di cose e di persone.

2. Una volta che l’abbiamo comunque assunto non prevediamo nessuna formazione continua on the job (parlo di accompagnamento, non di qualche corso di addestramento sull’ultima novità legislativa), né alcuna forma di tutoraggio o di coaching che possa sostenerlo.

3. Conseguentemente, checché dicano le leggi, non lo valutiamo, a meno che non mi convinciate che questa esternalizzazione barzelletta della valutazione tramite OIV, su obiettivi che il soggetto si scrive in generale da solo, possa sostituire la responsabile, attenta, onesta e accurata valutazione del proprio capo che osserva tutti i giorni operato, stile di management e risultati e si prende la responsabilità di dire se va bene o non va bene e, se non va bene, sa indicare dove è come rafforzarsi, o sa serenamente accompagnare alla porta chi proprio a fare il dirigente non è portato.

4. Mancando la valutazione, manca l’analisi del merito e quindi non riusciamo a scoprire talenti neanche quando ci sono. E nella PA ci sono, ma sono nascosti, non sono incentivati ad emergere.

5. E questo è possibile perché la catena delle responsabilità è spesso confusa, intermittente, spezzata e annegata in una quantità abnorme di attribuzioni, spesso anche contrastanti. Staff e line sono intrecciate e un capo non sa mai se può decidere davvero, o se è più prudente chiedere prima una informale autorizzazione a qualche staff del politico di turno.

6. Inoltre i nostri dirigenti non si muovono: spesso conoscono solo l’amministrazione dove sono e che li ha presi in ostaggio appena assunti e li rilascerà alla pensione. Io non assumerei mai in un posto di responsabilità chi non avesse un’esperienza composita e variegata. L’amministrazione pubblica non se lo chiede neanche.

7. Infine i soldi: non sono pagati affatto male i nostri dirigenti, ma la grande differenza retributiva (specie per tutta la parte accessoria) che ancora esiste nei vari comparti provoca pochi contenti e moltissimi scontenti. I privilegiati (nello Stato pensiamo alla Presidenza del Consiglio tanto per non far nomi) restano abbarbicati ai propri privilegi e certamente si opporranno con tutte le forze a qualsiasi mobilità (guardiamo la triste storia dell’Agenzia per l’Italia Digitale che non riesce a portarsi dentro gli ex dipendenti della Presidenza). Inoltre non c’è alcun nesso tra retribuzione e competenza o formazione in itinere e quindi nessun incentivo, se non morale, a crescer professionalmente.

Con questi sette vizi capitali sulle spalle possiamo sperare in una dirigenza che capisca l’innovazione se non in alcuni casi episodici (e a volte quasi eroici)?
Non credo e così spesse volte, invece di una strategia di lungo periodo che sia basata sulla conoscenza, abbiamo una strategia di piccolo cabotaggio fondata sull’ignoranza. Ma questo ci sta costando veramente troppo caro.

È una maledizione di Dio? Una piaga biblica? No, si tratta del risultato di scelte consociativo precise. Cambiare strada e subito è non solo doveroso, ma anche eticamente necessario per poter difendere credibilmente quel ruolo dello spazio pubblico e del "valore pubblico" di cui c’è sempre più bisogno. 

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