Dare un senso alla riforma

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Scrivere di una riforma quando è già sancita dalle norme è difficile, scriverne quando ancora non se ne conoscono i provvedimenti è temerario. Provo a farlo lo stesso spinto dalla cronaca di una corruzione che sembra una peste senza fine, in grado di infettare tutto e tutti: “a chi la tocca la tocca”.

12 Giugno 2014

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Carlo Mochi Sismondi

Scrivere di una riforma quando è già sancita dalle norme è difficile, scriverne quando ancora non se ne conoscono i provvedimenti è temerario. Provo a farlo lo stesso spinto dalla cronaca di una corruzione che sembra una peste senza fine, in grado di infettare tutto e tutti: “a chi la tocca la tocca”.

In questo infinito scandalo, che via via rende sempre più difficile distinguere il buono dal cattivo e che sembra accomunare tutta la gestione pubblica, vedo infatti anche un grave pericolo per il senso stesso di una riforma che deve avere come obiettivo non di arroccare in difesa, ma di scongelare e di ridare energia alla PA. La tentazione che temo è infatti quella di un arretramento: di maggiori controlli formali, di una più rigida disciplina degli appalti, di una minore discrezionalità per i dirigenti, di un’amputazione dell’autonomia, già merce rara.

Non è questo quel che vorrei trovare nella riforma che domani il Presidente Renzi e il Ministro Madia annunceranno. Nel risultato del loro lavoro vorrei trovare soprattutto uno “scenario di senso”, ossia un sistema di valori che costituisca l’humus adatto a far portare frutto alle leggi che, da sole, sappiamo bene che sono sterili costruzioni della volontà. Questo senso è dato, a pare nostro, dall’idea di uno “Stato partner” che fondi il suo operare sulla collaborazione tra le diverse componenti pubbliche e private della società, sulla partecipazione e la condivisione delle scelte, sul disegno comune e la co-progettazione dei servizi, sulla trasparenza attiva, ossia quella che permette ai cittadini di conoscere, di capire, di giudicare, di scegliere.

In questo scenario vorrei poi trovare la solenne affermazione che per cambiare i comportamenti non servono le leggi. Che obbiettivi importanti quali la trasparenza sostanziale, la responsabilità del dirigente come datore di lavoro, l’accountability, la mobilità, l’interoperabilità e l’integrazione del patrimonio informativo e delle basi di dati, la valutazione puntuale delle organizzazioni e degli individui, sono già possibili da ora e già nelle disponibilità dei dirigenti pubblici, se abbiamo saputo sceglierli, formarli, sostenerli e non spaventarli continuamente con i vari baubau, si chiamino giustizia amministrativa o giustizia contabile o danno erariale.

Vorrei poi che l’ingresso dei giovani, così tanto annunciato, avesse date e numeri certi e i concorsi divenissero un fatto affidabile e ricorrente, di quelli su cui sia possibile fare progetti di vita. Vorrei che non si arretrasse sul taglio delle unità locali delle amministrazioni (ricordo che escluse le scuole sono in Italia oltre sessantamila) e sulla riduzione mirata e attenta (esercitando discriminazione, intelligenza e coraggiosa responsabilità) degli enti e delle società pubbliche. Vorrei che si confermasse con forza il cambio di paradigma nelle politiche per la dirigenza pubblica, affermando con forza che essere dirigente è un incarico, una funzione, non uno status.

Vorrei tante altre cose, ma soprattutto vorrei che la riforma, se deve essere come spero più di comportamenti che di leggi, non fosse da dopodomani abbandonata a se stessa, ma si mettessero in piedi da subito delle task force di accompagnamento, composte da pubblico e privato insieme, che assistano il cambiamento, lo sostengano, lo nutrano con cura.

Il momento è poi troppo grave e difficile perché possiamo permetterci di fare melina, non vorrei quindi leggere domani di norme “banderillas” che si agitano sul dorso di un toro che non riusciamo a prendere. Non ci serve di accarezzare la pancia di un’opinione pubblica disgustata con tagli indiscriminati, accentramenti di fondi e di funzioni, riduzione delle responsabilità e dei gradi di libertà delle autonomie locali e funzionali. Né tantomeno ci serve di strillare più forte, con nuove norme, divieti o obblighi che non siamo stati capaci di applicare o esigere con reiterate leggi.

Ripeto per l’ennesima volta, infatti, che questo è il tempo di preferire i manuali alle leggi, le linee guida agli obblighi, il sostegno all’iniziativa e all’autonomia piuttosto che l’alimentazione di un corpus normativo che sostenga la già troppo presente convinzione che si rischia di meno non facendo nulla. 

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