Democrazia e rappresentanza. La zona grigia a cui l’accesso è consentito solo a pochi

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Nel nostro paese il termine lobbying e il sostantivo lobbista sono associati automaticamente ad accezioni negative. Così non è nel resto del mondo dove la rappresentanza di interessi particolari nel processo di decisione pubblico è bene regolamentata e, quindi, molto più trasparente. Possiamo rintracciare le motivazioni dell’essere ultimi in Europa su questo tema, nel nostro passato storico e culturale, ma di certo non possiamo più negare l’urgenza di una normativa che potrebbe eliminare del tutto il cono d’ombra attuale. Il lobbying fa rima con corruzione solo se lasciamo che sia così.

6 Novembre 2014

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Eleonora Bove

Nel nostro paese il termine lobbying e il sostantivo lobbista sono associati automaticamente ad accezioni negative. Così non è nel resto del mondo dove la rappresentanza di interessi particolari nel processo di decisione pubblico è bene regolamentata e, quindi, molto più trasparente. Possiamo rintracciare le motivazioni dell’essere ultimi in Europa su questo tema, nel nostro passato storico e culturale, ma di certo non possiamo più negare l’urgenza di una normativa che potrebbe eliminare del tutto il cono d’ombra attuale. Il lobbying fa rima con corruzione solo se lasciamo che sia così.

Esattamente un anno fa su queste pagine, analizzando i dati diffusi dall’OCSE, evidenziavamo come 80% dei cittadini ritenesse che ci fosse una corruzione diffusa all’interno del Governo. Una percentuale di poco più bassa, il 70%, un anno dopo esce dai dati raccolti nel 2013 dal Barometro Globale della Corruzione di Trasparency International, in cui gli italiani palesano la convinzione che il Governo sia massicciamente influenzato nelle sue decisioni da poche grandi organizzazioni che agiscono nel proprio interesse.

Lobbying all’italiana

Questi due dati danno tutto il senso di come nell’immaginario collettivo i concetti di lobbying e corruzione si siano – nel nostro Paese – sovrapposti a causa di una mancata trasparenza sul processo e i soggetti coinvolti, animando un dibattito che travalica facilmente i confini nazionali. Tuttavia anche se in generale nel panorama europeo l’attività di lobbying è vissuta in maniera critica, è il nostro Paese a distinguersi per un quadro politico-normativo fortemente in difficoltà a regolamentare una materia che da più parti non viene riconosciuta come “legittima”.

Tuttavia, nonostante la cronaca sembri sostenere il contrario, non è corretto dedurre che sia l’attività di lobbying in sé fonte di corruzione e pratiche illecite. Rappresentare in un processo decisionale le istanze provenienti da diversi soggetti interessati, portare quindi all’attenzione del legislatore le richieste di un gruppo sociale, economico o sindacale – al fine di modificare le decisioni pubbliche – è una pratica pienamente lecita in un sistema democratico ed è un fenomeno estremamente diffuso. Eppure continua ad essere molto difficile affermare con precisione chi svolge tali attività, nei confronti di chi, con quali mezzi ed obiettivi. È quindi semmai la mancanza di una regolamentazione, di una normativa di settore e di un registro nazionale che riconosca la professione l’humus più fertile per un lobbying ad personam; un lobbying all’italiana basato su relazioni sociali e personali più che sui contenuti, le procedure e la capacità di negoziazione, che lascia così fuori voci e interessi. Il rischio per la società civile sta lì, nella zona grigia a cui l’accesso è consentito solo a pochi.

Cronistoria di un appuntamento mancato

La Corte di Cassazione negli anni a diverse riprese ha riconosciuto la legittimità del lobbying. Mentre più di 50 proposte di legge si sono susseguite dal 1976 ad oggi nel tentativo di dotare il nostro sistema di una normativa specifica in materia di rappresentanza degli interessi. Eppure nulla di fatto, come vedremo.

Grande flop per il Ministro Giulio Santagata (anno 2007, Governo Prodi – S. 1866) con la proposta “Disciplina dell’attività di rappresentanza di interessi particolari”, ad oggi ritenuta la prima forma compiuta di regolamentazione. Questa prevedeva l’istituzione di un Registro Pubblico dei rappresentanti di interesse, un elenco di soggetti esclusi dalla professione e le relative sanzioni applicabili a coloro che svolgessero tali attività senza essersi precedentemente registrati. Non ha però trovato approvazione da parte del Parlamento.
Stessa fine per il disegno di legge su cui aveva iniziato a lavorare il Governo Letta (2013). Il provvedimento prevedeva l’iscrizione ad un albo per "i soggetti che intendano svolgere attività di rappresentanza di interessi particolari nei confronti dei decisori pubblici", istituito presso l’Autorità garante della concorrenza, al quale spettava anche il compito di redigere un codice deontologico. Tra gli obblighi previsti per i lobbisti anche quello di rendere note le donazioni fatte ai partiti. Ma anche questo provvedimento si è arenato tra le difficoltà della mediazione.

A sorpresa, invece, il Ministero delle Politiche Agricole, Alimentari e Forestali, nel 2012 istituisce un registro dei lobbisti. Con il Decreto ministeriale n. 2284 del 2012, l’allora Ministro Catania (Governo Monti) tentò di regolamentare la partecipazione dei gruppi di interesse ai processi decisionali del Ministero, nonché di istituire un’Unità di Trasparenza. Un esempio di buona prassi riconosciuta anche in ambito internazionale, che non ha, però, avuto seguito (attualmente la pagina web dedicata non è più raggiungibile).

Se a livello nazionale è tutto bloccato, in ambito regionale qualcosa si è fatto.  La Toscana, il Molise e l’Abruzzo si sono dotate di una normativa che disciplini l’attività di lobbying. Seguendo la strada tracciata dal Registro Europeo della Trasparenza hanno previsto un registro volontario, un elenco di strumenti consentiti per lo svolgimento delle attività e le eventuali sanzioni per chi viola tali prescrizioni. In Toscana è interessante notare, ad esempio, che le associazioni della società civile e quelle di categoria sono le più numerose.

Queste iniziative, come quelle che si registrano in materia autoregolamentazione da parte di alcune associazioni lobbistiche, si scontrano però con i limiti che una legislazione regionale e una, appunto, di categoria portano con sé.

Il vuoto normativo genera opacità

Nell’ambito del “Lifting the Lid on Lobbying”, progetto promosso dalla Commissione Europea per la valutazione della situazione delle attività lobbistiche e della relativa regolamentazione esistente in ciascun Paese partecipante, il Trasparency International Italia – Associazione internazionale contro la corruzione pubblica il report italiano “Lobbying e democrazia: la rappresentanza degli interessi in Italia”. Il documento esamina il fenomeno nel nostro Paese e, attraverso 65 domande, traccia il livello di accesso da parte dei cittadini alle informazioni sui gruppi di pressione (trasparenza), l’adeguatezza degli standard e comportamenti etici dei lobbisti e dei decisori pubblici (integrità) e l’eguaglianza di rappresentanza e partecipazione nel processo decisionale (parità di accesso). Poco più di 50 pagine per scoprire che la nostra regolamentazione non è adeguata a garantire la trasparenza delle attività lobbistiche e del processo decisionale pubblico; l’integrità del sistema di rappresentanza degli interessi e della condotta dei funzionari pubblici; la parità di accesso ai processi decisionali.

Il livello di trasparenza si attesta, infatti, ad uno scarso 11%. Per i cittadini è difficile, se non impossibile, sapere chi sono i soggetti che fanno lobbying, quali politici sono coinvolti, su quali provvedimenti legislativi e – cosa ancora più importante – quanto è “costato” l’intero processo di influenza. Quindi non solo non si dà ai cittadini una chiara definizione del lobbying, ma si permette ai professionisti del settore di tenere per sé le informazioni.

Va meglio, ma non tanto da tirare un sospiro di sollievo, se guardiamo la percentuale relativa all’integrità che raggiunge il 27%. Anche in questo caso paghiamo il conto dovuto ad una mancata legislazione in materia che limiti i rischi dovuti al conflitto di interesse. Dati pure i pochi esempi di autoregolamentazione della categoria, non vi è una normativa nazionale sul Codice etico del lobbista o relativa alle restrizioni dell’attività, come nel caso delle “porte girevoli”, fenomeno per il quale impiegati statali, membri del Parlamento, Ministri o più in generale funzionari lasciato l’incarico pubblico, intraprendono la carriera di lobbista.

Infine la parità nelle opportunità di accesso ai processi decisionali pubblici riceve un punteggio di 22%. Il dato in realtà è una media tra un 33,33% relativo al livello di “Consultazione e partecipazione pubblica nel processo decisionale” e un 10% relativo all’equità di rappresentanza nella “Composizione del gruppo di esperti/consulenti”. Insomma la scelta degli “esperti” è esclusivamente riservata alle istituzioni che aprono i tavoli di lavoro.

Tuttavia meccanismi di partecipazione della società civile e del settore privato nel processo decisionale sono ben presenti. Spesso non strutturati e informali, sorgono per lo più su iniziativa di comitati di cittadini. È bene precisare, però, che per il rappresentate pubblico non vi è nessun obbligo di riportare i risultati di tali consultazioni, tantomeno di tenere in considerazione i suggerimenti ricevuti e a fornire giustificazioni in merito all’inserimento o meno di contributi dei cittadini.

Dati questi tre parametri, il voto complessivo assegnato al nostro paese è pari a 20 su 100. Valutazione tra le più basse in Europa. Risultati che confermano l’assoluta debolezza del settore lobbying in Italia; debolezza riconducibile alla mancata legittimazione e regolamentazione.

Chi sono i lobbisti

In Italia, dunque, abbiamo un vero e proprio vuoto legislativo, a causa del quale – per altro – è anche difficile fare una mappatura chiara dei lobbisti. Ci viene in aiuto il Registro per la Trasparenza adottato dal Parlamento Europeo nel 2011 che, ad ottobre 2014, ne conta 612. L’immaginario collettivo sarà sorpreso di scoprire che il gruppo più numeroso (138) è rappresentato da ONG, seguito dalle associazioni di categoria (il 21% del totale). Terze le imprese e le aziende, ne abbiamo 76 ovvero il 12,4%. Questi gruppi operano soprattutto in settori quali ambiente (totale 353), industria (293) e della ricerca e sviluppo tecnologico (290). Abbandoniamo quindi per un attimo i luoghi comuni che identificano l’attività di lobbying come prassi riservata a grandi gruppi industriali, a caccia di cavilli favorevoli alle proprie attività.

 

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