EDITORIALE

Il frutto mancato

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Questa è la relazione che ho tenuto lo scorso 19 dicembre a Villa Malta a Roma in occasione della presentazione dell’Annual Report 2016 di FPA. Mi fa piacere condividerla con la nostra community di lettori e aspetto i vostri commenti

20 Dicembre 2016

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Carlo Mochi Sismondi @Carlomochisis

La mole e la ricchezza di temi raccolti nell’annuario che oggi vi presentiamo, che vuole essere una sorta di compendio dell’innovazione della PA nel 2016, e anche i tanti dati che la relazione di Gianni Dominici ci ha illustrato, possono essere presi a convincente testimonianza dell’ambizioso e coraggioso piano di riforme che il Governo Renzi ha messo in campo in questi 12 mesi. Moltissimi sono i provvedimenti approvati e molti anche quelli che sono ancor’oggi in sospeso, con incerta sorte. Molta carne al fuoco quindi, eppure una lettura d’insieme ci restituisce un senso d’incompiutezza e d’insoddisfazione. Ancora una volta, viene da pensare, dello sforzo riformatore abbiamo sopportato la fatica, ma non abbiamo gustato il frutto. Il “frutto mancato” è purtroppo un’immagine consueta nel quarto di secolo trascorso da quella legge 241/90 che diede inizio ad un susseguirsi di “riforme epocali” dell’amministrazione pubblica, tutte pensate per essere risolutive e tutte archiviate con sovrabbondanti, ma spesso inapplicati, risultati normativi e scarsissimi effetti sulla vita dei cittadini e delle imprese.

Alla fine dell’anno, che coincide anche con la fine di un ciclo di Governo caratterizzato da una fortissima spinta all’innovazione e dallo slogan “L’Italia cambia verso…”, è quindi quanto mai necessario interrogarci, con sereno ancorché preoccupato giudizio, sul perché di questa continua dimostrazione di impossibilità e di incapacità di cogliere i frutti del cambiamento.

Eppure questa volta il piano della riforma della PA era chiaro e complessivamente ben articolato. Partiva dall’aver individuato quattro obiettivi precisi già indicati nella famosa lettera ai dipendenti pubblici del maggio del 2014:
  • l’innovazione deve partire dalle persone;
  • tagliare gli sprechi vuol dire riorganizzare l’amministrazione nel suo complesso eliminando doppioni ed enti inutili;
  • gli open data e la trasparenza sono i più importanti fattori di cambiamento;
  • la semplificazione supportata dalla digitalizzazione deve ripensare i processi.

Cosa allora, nonostante la corretta visione iniziale, non ha funzionato?
Il primo e più grave limite di questa ondata riformatrice, particolarmente imponente nella sua dimensione[1], è ahimè condiviso anche da tutte le azioni dei Governi precedenti: l’illusione che l’innovazione sia un problema di norme. Mentre ancora erano da applicare molte parti delle riforme precedenti, persino nei loro principi da tutti condivisi, si sono alluvionati prima il Parlamento e poi le amministrazioni con centinaia di nuovi provvedimenti con la speranza che la quantità facesse premio sulla costanza dello sforzo per la loro effettiva attuazione. Ma l’innovazione non si fa con le norme e neanche solo con le visioni strategiche: è questione di paziente costruzione di percorsi di cambiamento, di attenzione e accompagnamento, di cassette degli attrezzi e di formazione, di empowerment delle organizzazioni e di engagement delle persone. Una riforma fatta di norme[2] che rinnovellano altre norme, in una sorta di gioco delle scatole cinesi dove la forma diventa contenuto, non porta all’innovazione, ma è foriera di quella paralisi da sovrabbondanza normativa che è, come vedremo, la condizione attuale di molte amministrazioni.


Questo articolo è uno degli approfondimenti raccolti nel FPA Annual Report 2016. La pubblicazione è gratuita, ma per scaricarla è necessario essere iscritti alla community di FPA. Scarica FPA Annual Report 2016.


Non serviva quindi una nuova riforma, centinaia e centinaia di nuovi articoli di legge, un nuovo titolo da affiancare al nome di un nuovo ministro, ma un investimento serio di risorse economiche, professionali e politiche per accompagnare il cambiamento dei comportamenti in un clima di fiducia.

La visione della PA che questo castello di norme ha disegnato ha inoltre alcune carenze ontologiche che ne hanno minato la fattibilità, nonostante l’impianto normativo bulimico. La prima e più grave è stata quella di non aver fatto un corretto ed onesto esame delle ragioni che hanno portato al fallimento le precedenti riforme, reiterando gli stessi difetti strutturali che ne hanno impedito il successo. In questo senso è ancora una volta vero che senza memoria non c’è futuro.

  1. Tra queste ragioni fondamentale è stato il deficit di fiducia: il disegno riformatore fa intravedere in filigrana una scarsa fiducia della politica verso l’amministrazione, come se fosse composta tutta da conservatori, frenatori, burocrati, pietre d’inciampo di ogni riforma e zavorra del paese; specularmente la reazione degli impiegati pubblici alla riforma è stata improntata in generale ad una scarsissima fiducia nella politica e nella sua voglia di cambiamento, come se questa fosse fatta tutta di pirati che vogliono imporre solo yes man, veline o portaborse. In questa reciproca sfiducia è nata ed è cresciuta poi la sfiducia dei dipendenti verso i loro dirigenti e quella, assai più grave, dei cittadini verso entrambe, politica ed amministrazione, con il conseguente distacco sempre maggiore dalle istituzioni democratiche. Si crea così quella faglia pericolosa che anche Giuseppe De Rita ha segnalato nelle recentissime considerazioni in premessa al 50° rapporto Censis[3].
  2. Questo deficit ha prodotto poi da una parte l’esigenza di normare sino nei dettagli le organizzazioni, dall’altra di cedere alla spiccata tentazione di un’eccessiva centralizzazione, tentazione perniciosa perché separa autonomia da responsabilità, ma che spesso si accompagna, insieme alla bramosia del “controllo totale”, a congiunture difficili per la finanza pubblica.
    La centralizzazione, la chiusura in cerchi (o “gigli”) più o meno magici, ha contraddistinto e contraddistingue quindi ancora, nella nostra fotografia di fine anno, le amministrazioni, con il risultato di negare quel paradigma del “governo con la rete”, della continua negoziazione in un processo decisionale multistakeholder, dell’imparare dalla complessità, della costruzione di “valore pubblico” che è invece il frutto migliore della moderna riflessione sull’amministrazione pubblica. Si dà invece spazio a rigurgiti ingenuamente efficientisti che, nati dal New Public Management degli anni ottanta dello scorso secolo, non hanno trovato mai piena realizzazione nel nostro Paese, ma ci hanno lasciato l’inappagato desiderio di una PA organizzata come azienda. Immagine che è stata per altro abbandonata da tutte le democrazie moderne.
Ma questa managerialità fordista (di cui la smania dei “tornelli” e l’ossessione per le timbrature sono sintomo caricaturale), questo centralismo efficientista porta con sé ancora due altri gravi pericoli:
  1. in primis la tentazione di vedere una notte in cui tutti i gatti sono grigi, in cui tutti i Comuni sono uguali e tutte le aziende pubbliche hanno gli stessi problemi e gli stessi rischi. Ne consegue la continua tendenza a ipernormare, ma anche di dare scarso o nessuno spazio alla diversità, all’autonomia, alle specificità aumentando così quella faglia di cui dicevamo;
  2. l’altro rischio è quello di una continua confusione tra patologia e fisiologia: questo approccio parte dall’idea che poiché esistono patologie, si deve organizzare la vita per prevenire le patologie. Occorre certamente punire le patologie, ma non si può pensare che tutto sia patologico. Così ad esempio la giusta battaglia contro la corruzione, senza cogliere affatto il bersaglio, ha annegato le amministrazioni di norme e le ha ingessate in divieti, vincoli, sospetti. La politica industriale degli acquisti pubblici, che potrebbero essere il vero driver d’innovazione per le PMI italiane, è stata affidata a un giudice, che ha ovviamente la sua peculiare visione del mondo, e infine un Codice degli acquisti, che doveva essere più semplice, ha creato un tale clima di insicurezza da ridurre drasticamente le gare.

Questi sono i limiti di un’impostazione che non è stata “rivoluzionaria”, ma è partita anzi da una visione piuttosto vecchia dell’amministrazione, del suo ruolo e delle sue relazioni con il resto del mondo. La PA, che viene delineata dalla riforma infatti, è una PA rinnovata ma anche incredibilmente uguale a se stessa, soggetto diverso e lontano dalle dinamiche sociali e culturali in atto in questo paese. La riforma infatti elude una domanda: la PA che abbiamo è quella che ci serve?
Forse per rispondere a questa domanda, che per altro è alla base di molte riflessioni politiche internazionali a cominciare dal documento “Governance pubblica per una crescita inclusiva “, bisogna rifarsi ad alcuni fenomeni distintivi di questo nostro confuso tempo che è fatto sì di sfiducia, di scontento e di rabbia, ma anche di:

  • condivisione della necessità di una visione sistemica e partecipativa;
  • importanza attribuita al capitale sociale;
  • centralità riconosciuta ai beni relazionali e priorità ai valori sociali;
  • attenzione per i beni comuni in una ritrovata centralità della dimensione della “comunità” e dei territori;
  • trasparenza e accountability e cultura dell’openness;
  • nuova attenzione alla collaborazione pubblico-privato;
  • evoluzione dal cittadino “portatore di bisogni” al cittadino competente portatore di soluzioni.
La riforma sfiora solamente questi nuovi paradigmi e conseguentemente i decreti attuativi che ne sono conseguiti e che sono il vero portato del 2016 presentano luci ed ombre:
  • in alcuni, come ad esempio per quello sulla trasparenza (il cosiddetto FOIA italiano) essi partono da esigenze importanti e condivise e colgono, almeno in parte, il bersaglio, anche se poi mantengono gravi carenze nella effettiva praticabilità degli strumenti;
  • in altri, come ad esempio l’accorpamento delle Forze di Polizia o la ristrutturazione del mondo camerale, sanano storture secolari con coraggio e nella giusta direzione;
  • in altri ancora, come ad esempio nel Codice dell’Amministrazione Digitale, i decreti introducono innovazioni molto, troppo timide limitandosi a aggiustamenti e aggiornamenti di provvedimenti vecchi che andavano ripensati da capo.

L’intero annuario esaminerà in dettaglio questi campi, ci limitiamo quindi ad un’analisi complessiva che non può che partire dalla constatazione che essi pongon mano a problemi storici della nostra amministrazione, che spesso (non sempre) dimostrano buon coraggio riformatore e che possono essere quindi utili strumenti, ma anche che sono tutti comunque figli di quell’impostazione, a nostro parere superata, che abbiamo testé descritto.

Tre sono i principali limiti di questa fase attuativa, sono gravi e pregiudizievoli, ma per fortuna siamo solo all’inizio del percorso e molto si può ancora fare per correggerli:
  1. i decreti nascono all’interno del “palazzo”: scarsa è stata l’interazione con i soggetti della rappresentanza, scarsissima quella con i cittadini, nulla quella con quelli che saranno gli attuatori, ossia le persone che nella PA lavorano e che alla PA danno impegno, competenze e professionalità;
  2. i decreti non hanno visto la luce dopo un’adeguata sperimentazione in un clima di “proof of concept” e di “data driven decision”, ma nascono scritti da giuristi e interpretati da giuristi; in alcuni casi hanno legificato nuovamente temi abbondantemente legificati senza chiedersi perché le leggi non avevano avuto attuazione, in altri, come ad esempio il ruolo unico della dirigenza, ripercorrono strade già percorse senza un esame preventivo e oggettivo della precedente esperienza;
  3. la perversa e tacita scappatoia dell’invarianza finanziaria, se da una parte ha permesso ai decreti di passare il vaglio della famosa “bollinatura” della Ragioneria generale dello Stato, ha spesso vanificato, prima ancora dell’effettiva attuazione, ogni speranza di effettivo cambiamento. Persino il Consiglio di Stato ha dovuto sottolineare che non si possono fare innovazioni sistemiche e ambiziose con clausole così scritte: Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica. Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti previsti dal presente decreto con le risorse umane, finanziarie e strumentali disponibili a legislazione vigente.
E ora? L’amministrazione è ora in grave sofferenza e l’intera società italiana soffre con essa e vede compromessa la speranza di ripresa e di crescita del benessere equo e sostenibile. La strada che si è intrapresa non sta infatti portando a quel cambiamento che ci aspettavamo proprio lì, nella PA, dove sarebbe stato più necessario e il trend della riforma non è affatto confortante. Anche qui, in senso prospettico, tre sono gli aspetti da guardare con maggiore attenzione in progress da oggi alla futura attuazione delle norme:
  1. un castello riformatore di carta, fatto essenzialmente di norme, non è solo in se stesso impedimento al cambiamento, ma è un addicted che ha sempre bisogno di dosi più massicce di norme. Così i 66 articoli del CAD hanno bisogno di 35 nuove norme attuative; così il Codice degli appalti non si applica senza una pletora di linee guida dal difficile iter; così la norma che indica i risparmi da ottenere nell’informatica pubblica ha bisogno di un piano triennale missing per sovrabbondanza di decisori (Ministro, Direttore dell’AgID, Commissario, ecc.);
  2. i provvedimenti di riforma hanno spesso fatto nascere strutture nuove che dovevano essere più agili, più flessibili, più tese all’effettiva execution dell’innovazione. Troppo spesso però queste strutture sono state “incistate”, come corpo estraneo nel corpus amministrativo, e messe in condizione di funzionare poco e male. Pensiamo all’ANPAL che ha il compito di ripensare e attuare le politiche del lavoro o alla stessa AgID per cui crescono i compiti e diminuiscono le risorse o all’Agenzia per la Coesione Territoriale che per mesi e mesi ha lavorato senza avere regolamenti di organizzazione;
  3. la totale mancanza di partecipazione dei dipendenti pubblici al processo di cambiamento, che hanno letto, quando va bene, dai giornali, ci restituisce un popolo di lavoratori fatto da persone deluse, scoraggiate, che si sentono non riconosciute né dalla politica né dall’opinione pubblica. Su questo scoraggiamento è molto difficile costruire cambiamento, specie quando questo si accompagna ad una struttura bloccata, dove non si assume e non si licenzia, non si premia e non si punisce, non si muove nessuno, tranne forse e con molte polemiche, qualche migliaio di insegnanti.

Qui, su queste scrivanie deluse e in questo mare di carta scosso da ondate successive di novità sempre solo normative, nasce il virus della “burocrazia difensiva” che più volte ci è capitato di descrivere. L’ecosistema che abbiamo sopra descritto, insieme a una normativa bulimica e sovrabbondante che, come un tumore maligno, si sta mangiando l’organizzazione degli uffici, e alla “pancia” del Paese a cui si tributano omaggi sotto forma di sciagurata confusione tra fisiologia e patologia, fa sì che per i dirigenti pubblici alla fine è meglio star fermi che rischiare. Meglio avere un ordine che avere un’iniziativa. Meglio porre un quesito che firmare.

Come sempre la realtà ha molte facce e a questi limiti, che ci impediscono di gustare il faticato frutto di un cambiamento, si affiancano anche importanti esempi di innovazione realizzata, di ricche reti relazionali e di attenzione alla costruzione di valore pubblico e di capitale sociale. Questi casi, se non smentiscono la nostra preoccupata analisi che supera il giudizio su questo o quel Governo, ma rivolge una critica radicale a tutta la metodologia dell’innovazione, servono però a dirci che un’altra amministrazione è possibile. Che dove se ne danno le condizioni e si coniuga visione, lungimirante costanza, competenza e autonoma responsabilità può nascere un’amministrazione condivisa dove i cittadini, le imprese, i lavoratori pubblici e la politica lavorano tutti per obiettivi comuni e costruiscono una piattaforma abilitante per la nostra libertà positiva, che abiliti le nostre capabilities e permetta i nostri “functionings”.

Partire da questi esempi e farli divenire una guida al cambiamento non è facile, ma è possibile: la strada è segnata e non mancano neanche le risorse economiche che un PON Governance e Capacità amministrativa potrebbe, ove fosse attuato e implementato con cura e sollecito impegno, mettere pienamente a disposizione.
Se ripercorriamo in conclusione il percorso fatto insieme rileggiamo otto principi guida per un cambiamento positivo della PA secondo una moderna cultura riformista:
  1. Una buona riforma non si fa con le norme, è un processo che le norme al massimo abilitano. L’approvazione delle leggi è un punto di partenza del lavoro, non l’arrivo.
  2. Una buona riforma non cerca solo l’efficienza, ma la costruzione di valore pubblico che è fatto di impatto sociale delle riforme, qualità dei servizi erogati e soddisfazione dei cittadini, legittimazione, accountability e affidabilità di una PA “sostenibile” dal punto di vista organizzativo.
  3. Una buona riforma non si può costruire che in un clima di fiducia, ricostruire fiducia non è “buonismo”, ma prerequisito essenziale per attivare un cambiamento di comportamenti.
  4. Una buona riforma è rispettosa della diversità che considera una ricchezza e quindi non pretende né di normare tutto né di normare per tutti allo stesso modo.
  5. Una buona riforma è una pianta di cui aver cura, altrimenti crea rigetto e paura e quindi burocrazia difensiva e paralisi isterica
  6. Una buona riforma non può che essere aperta e partecipata, la partecipazione dei cittadini e la collaborazione con gli stakeholder non è un accessorio, ma l’energia del cambiamento.
  7. Una buona riforma deve essere evidence-based, guidata dai dati e figlia di un pensiero riflessivo: deve prevedere quindi sempre sperimentazione e processi di trial and errors.
  8. Una buona riforma costa, richiede investimenti seri e quindi scelte meditate: farla male e con i “fichi secchi” non è solo inutile è un boomerang pericolosissimo ed è il miglior assist per chi le riforme non le ha mai volute. Meglio poche riforme portate a termine che molte lasciate alle sole norme.

Partendo da questi punti, per me fondamentali, non tutto è perduto: ce la possiamo ancora fare. A patto di far presto, a patto di avere il coraggio di seguire strade nuove, a patto di prendere molto sul serio il rischio di ritrovarci l’anno prossimo a dire le stesse cose con un’opinione pubblica sempre più rabbiosa, con un’amministrazione sempre più debole e sfiduciata e una politica sempre più “marziana”.

[1] basti pensare che la “riforma Madia” comportava almeno una quindicina di decreti legislativi contro i tre della “riforma Bassanini” e i due: d.lgs. 150/2010 e decreto 235/2010 sul CAD della riforma Brunetta
[2] 444 articoli solo nei 14 decreti approvati, molti altri in quelli sospesi o non ancora approvati in via definitiva
[3]
dal 50° Rapporto Censis, Considerazioni generali, pag.9 “…nel profondo della società italiana cresce con forza un’altra ferita: la pericolosa faglia che si va instaurando tra mondo del potere politico e corpo sociale. E’ una ferita che ci rende quasi una “società dissociativa” dove i due mondi sopra indicati vanno ognuno per proprio conto, con reciproci processi di delegittimazione”

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