Il governo degli ambienti urbani è una questione di FOIA e big data

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In tutti i casi, applicando quanto già previsto dalla giurisprudenza, i diversi gestori di dati pubblici dovrebbero essere obbligati ad uniformare i formati, a dotarsi di piattaforme comuni. Insomma ad utilizzare uniformemente il dato per raggiungere il “bene comune”

11 Gennaio 2017

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Michele Vianello, Digital Evangelist

Gli ambienti urbani sono dei formidabili “generatori” di dati. Uso il termine ambiente urbano e non quello di città, per dare una accezione più ampia, che rappresenti più efficacemente la complessità del luogo.

I dati strutturati, generalmente, non sono utilizzati, meglio, non sono conosciuti come uno strumento indispensabile per favorire il governo degli ambienti urbani.La figura di data scientist a sostegno dei pianificatori urbani o del governo di una città non è prevista. Nella migliore delle ipotesi il data scientist è concepito come una branca dell’informatica o della statistica.
Un ambiente urbano non va considerato come un unicum, bensì come un assieme di sottosistemi che dovrebbero dialogare tra di loro. In Italia, seguendo questo ragionamento possiamo individuare tre fonti di dati in un ambiente urbano.

In primis le “smart grid”, considerate come le piattaforme in grado di veicolare e di strutturare i dati che provengono dalla gestione delle principali “public utilities”. La gestione dell’efficienza energetica, delle reti idriche, del ciclo dei rifiuti, della qualità dell’aria, del traffico urbano possono essere migliorate dalla capacità di sfruttare la potenza predittiva dei dati. Questi dati, pur essendo, di “interesse pubblico”, sono spesso nella disponibilità di soggetti privati. Pensiamo, su tutti, all’ENEL.

La seconda fonte di dati è rappresentata da tutto ciò che viene prodotto dalle attività della pubblica amministrazione.
In questo caso per pubblica amministrazione intendiamo, oltre agli Enti Locali, anche gli enti che operano in ambiti quali sanità, cultura, ambiente e così via. Spesso sono dati non strutturati, grezzi, che provengono da fonti diverse, non necessariamente da sensori. Sono quasi sempre dati di grande valore. Pensiamo ad esempio ai dati anagrafici, alla cartografia, ai dati sulla salute, ai dati sull’evoluzione dei fattori economici, al fisco.
L’accesso e l’utilizzo di questi dati è normato dalla moderna legislazione su trasparenza e open data, da ultimo il cosiddetto FOIA, che facilita o meglio, impone la liberazione dei dati generati dalle attività delle Istituzioni pubbliche.
L’utilizzo dei dati, in questo caso, è positivamente limitato dalla normativa di tutela della privacy. La legislazione in tutti i casi afferma che questi dati possono essere utilizzati anche per “fini commerciali”.

La terza fonte di dati è generata, in modo del tutto inconsapevole, dalle attività delle persone.
In questo caso il cittadino produce dati, informazioni e conoscenze che vengono raccolti, trattati, strutturati, utilizzati attraverso le piattaforme dei fornitori di un servizio. Si tratta delle nostre attività di social networking, delle attività generate dalle wearable technologies, dalla domotica.


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Quelle descritte sono tutte attività che nei prossimi anni produrranno infinite quantità di dati. Commetteremmo tuttavia un errore gravissimo se scambiassimo questa infinita quantità di dati di per sé come una ricchezza o come un generatore di trasparenza nella gestione della pubblica amministrazione.
La strada per ottenere big data “cittadini” sarà lunga e tormentata.
Il nostro percorso sarà alimentato da quanto previsto dalle norme sul FOIA e dal nuovo Codice dell’Amministrazione Digitale, ma l’esito non è assolutamente scontato.
Come si capirà bene – anche alla luce di quanto affermato più sopra – i dati sono generati da fonti assolutamente diverse.
Potenzialmente la conoscenza generata dalla pubblica amministrazione e dai gestori di public utilities, sottoforma di dati, è tracciabile. All’opposto, i dati generati dalle attività private sono difficilmente tracciabili ed utilizzabili perché intermediati da piattaforme proprietarie chiuse.
I sistemi domotici – che potrebbero fornire al pianificatore cittadino conoscenze essenziali – sono infatti raccolti da piattaforme proprietarie. Si viene, in questo caso, a verificare un paradosso, ovvero quello del cittadino che genera inconsapevolmente dati e non può utilizzarli. Il cittadino paga per fruire di una utilities, ma non può scontare il valore sotto forma di dati che ha generato.

Se la finalità del programmatore di ambienti urbani, cioè di una pubblica amministrazione è quella di avere a disposizione conoscenze necessarie a “predire” per utilizzare meglio le risorse a disposizione (per risorse intendiamo non solo quelle finanziarie, ma anche beni comuni come l’acqua, il suolo e le fonti energetiche) sarà necessario concentrarci, dandoci priorità precise, sui dati pubblici e su quelli delle public utilities.
Mi permetto a questo proposito di segnalare almeno due ordini di proposte di lavoro.
La prima è che la possibilità di fruire di capacità predittive, da parte di un pubblico amministratore o di un pianificatore urbano, genera indubitabilmente un valore pubblico. In questo senso assume dignità, anche sotto il profilo giuridico, la rivendicazione di dati anche se prodotti da un gestore che abbia una forma giuridica privatistica (ENEL in primis). La predizione di attività che favoriscano la sostenibilità ambientale, o l’efficienza energetica, o un miglior uso di risorse pubbliche è l’orizzonte al quale deve ambire un qualsiasi decisore in un ambiente urbano.
Questi soggetti (i Comuni) tuttavia dovranno dotarsi di team dotati di competenze professionali molto definite. Alle tradizionali competenze urbanistiche, o economiche, o ingegneristiche andranno accompagnate figure professionali in grado di assemblare, di dare valore, di interpretare dati che provengono da fonti diverse.
In tutti i casi, applicando quanto già previsto dalla giurisprudenza, i diversi gestori di dati pubblici dovrebbero essere obbligati ad uniformare i formati, a dotarsi di piattaforme comuni. Insomma ad utilizzare uniformemente il dato per raggiungere il “bene comune”.
Per finire. Per lungo tempo si è parlato di smart city come di un luogo intensivo nella presenza di tecnologie e device digitali. Un pensiero maturo sulla città smart dovrebbe invece dedicarsi alla produzione e alla classificazione dei dati.
Si deve cioè passare da una visione quantitativa dei sensori e dei device, ad una visione qualitativa nella predisposizione delle piattaforme. La pubblica amministrazione deve prendere il suo ruolo, che, alla luce della nuova normativa in materia di trasparenza, non può essere letto in una chiave di mero adempimento burocratico.

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