La cultura dell’innovazione nell’immaginario collettivo

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Si individua nell’adesione alla cultura dell’innovazione il traino per tirarci fuori dalla cultura del rancore, della diffidenza, della preoccupazione. Rancore per ciò che poteva essere e che ancora non è stato. Diffidenza nei confronti di chi opera nelle nuove tecnologie con approccio manipolativo. Preoccupazione per chi sta gestendo i processi con un approccio ancora parziale o settoriale. Un contributo scritto in occasione dell’ultimo “Rapporto sulla cultura dell’innovazione degli italiani”, che si adatta perfettamente alla sollecitazione “Il programma? Facciamolo noi”, titolo dell’editoriale di Carlo Mochi Sismondi dell’8 febbraio scorso.

14 Febbraio 2018

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Marco Baldi

Abbiamo oggi sufficienti elementi a disposizione per affermare che la crescita economica e il progresso sociale tendono a viaggiare insieme quando i cicli espansivi sono guidati da miti positivi che agiscono in senso identitario e che rafforzano i processi di partecipazione. Questo è certamente avvenuto nell’Italia del miracolo economico, quando un complesso e coerente set di valori simbolici ha guidato le aspirazioni di individui, famiglie e imprese, finendo per determinare obiettivi collettivi in cui tutti potevano riconoscersi e che contribuivano ad alimentare un’agenda sociale altamente condivisa. Obiettivi che, a ben guardare, trovavano un momento di sintesi nella robusta speranza che le nuove generazioni, attraverso lo studio, il lavoro, l’impegno in senso ampio, il risparmio e la patrimonializzazione, avrebbero goduto di condizioni di vita migliori rispetto a quelle dei loro genitori o dei loro nonni.

Con analoga certezza possiamo affermare che, nell’Italia dei nostri giorni, questa forza propulsiva è progressivamente venuta meno. Certamente in parte questo si lega alla frammentazione dei processi identitari connessa alla globalizzazione. Ma non si può tuttavia negare che un ruolo importante abbiano giocato – già prima che la crisi economica facesse il suo esordio – alcuni elementi a specifico carattere nazionale in grado di depotenziare il “senso di una marcia comune”. Tra questi si possono includere le tante riforme dei sottosistemi pubblici, annunciate, disattese o attuate in modo ambiguo e parziale. E, alla stessa stregua, non si può non pensare allo scadimento della dimensione politica, sempre più spalmata sul presente, verticalizzata, incapace di risultare inclusiva nella dinamica interna, e di tenere alta la reputazione del Paese nella proiezione verso l’esterno. Nel frattempo, la progressiva erosione dei meccanismi pubblici di protezione e rassicurazione sociale ha minato la fiducia nel futuro degli italiani. A tutto ciò si è aggiunta la crisi dei grandi attori di intermediazione delle istanze collettive, che ha contribuito ad alimentare lo spaesamento e il senso di isolamento. Un fatto grave tanto nei suoi effetti sui comportamenti quotidiani, quanto nella sua proiezione su scenari futuri improntati ad una molecolarità faticosa e impoverente.

Ma una società a “bassa intensità di futuro”, costretta a procedere a tentoni riorientando giorno per giorno i suoi obiettivi, trova enormi difficoltà ad investire e a rischiare. Tende piuttosto a rinserrarsi proteggendo l’esistente e praticando il minimo danno. Non trova respiro e individua nel lutto per ciò che non è più (o per ciò che non potrà più essere) il tratto comune di riferimento, quello sì unificante, ma purtroppo…al lume del rancore.

Proprio questo tema è il leitmotiv nel 51° Rapporto del Censis sulla Situazione Sociale del Paese, che presenta un’Italia in chiaroscuro: da un lato i consistenti segnali di ripresa economica sintetizzabili nella crescita del Pil e dei consumi, oltre che nella buona intonazione della produzione industriale e dell’export di beni manifatturieri; dall’altro una società “rancorosa” pervasa dall’antipolitica e alla ricerca di capri espiatori per un blocco della mobilità sociale che viene percepito come pervasivo e inevitabile. Disillusione e sfiducia nel futuro contagiano anche le giovani generazioni, che non riescono a prefigurare il percorso che potrebbe condurle alla realizzazione di un progetto di vita o ad un miglioramento della loro condizione socio-economica. La stessa consapevolezza della ripresa oggi in essere genera ulteriore risentimento perché si percepisce che il suo “dividendo sociale” non risulta al momento ampiamente e diffusamente distribuito.

Ma a ben guardare tutto ciò configura un evidente paradosso: proprio negli anni in cui l’innovazione tecnologica procede con un moto di continua accelerazione aprendo giorno dopo giorno nuovi scenari in tutti i settori economici e in tutti gli ambiti della vita collettiva, la nozione stessa di futuro fatica a sedimentarsi nell’immaginario collettivo come generatrice di nuove attese, nuovi coinvolgimenti, nuovi investimenti privati e collettivi.

Si potrebbe obiettare sostenendo che le tecnologie digitali, vero driver dei processi innovativi di questi ultimi anni, generano elementi di preoccupazione in quanto amplificatrici dei divari sociali. Ma anche così il paradosso rimane in essere: per quale ragione l’universo di coloro che si collocano in sintonia con i processi innovativi – anche solo come consumatori entusiasti di tecnologie, o come utenti fedeli dei processi resi più fluidi dalla disintermediazione telematica, non riesce ad immaginare il benessere sociale che, almeno potenzialmente, si lega al progresso tecnologico? E perché l’idea di un futuro caratterizzato da dosi addizionali di innovazione genera più preoccupazioni che adesioni fiduciose?

È probabile che la risposta a questi interrogativi vada cercata in una cultura dell’innovazione che rimane essa stessa, almeno in buona parte, impaludata nel rancore, nella diffidenza, nella preoccupazione. Rancore per ciò che poteva essere e che ancora non è stato. Diffidenza nei confronti di chi opera nelle nuove tecnologie con approccio manipolativo. Preoccupazione per chi sta gestendo i processi con un approccio ancora parziale o settoriale.

Tutto ciò si legge in filigrana scorrendo questo nuovo Rapporto sulla cultura dell’innovazione degli italiani, che prova a misurare l’adesione del corpo sociale ai nuovi schemi che si vanno velocemente determinando, individuando tanto le attese quanto le preoccupazioni in essere.

Analizzando trasversalmente i dati raccolti in tanti differenti ambiti emergono con sufficiente chiarezza i motivi per cui, nella fase attuale, il tema dell’innovazione non è ancora riuscito ad imporsi come elemento di compattamento dei desideri, di rafforzamento di un’idea di futuro, di reclutamento ampio delle soggettività. Infatti:
  • se appare sufficientemente chiaro che le nuove tecnologie incorporano la possibilità di essere guidate e di condurre verso un benessere sociale più ampio e più distribuito, altrettanto chiaramente emergono le difficoltà delle élite nel cogliere e far pratica concreta di questa possibilità;
  • se non sfugge ai più che la rivoluzione telematica può tradursi in nuovi beni pubblici fortemente connotati nel loro potere di semplificazione della vita e di agevolazione dell’accesso ai servizi, appare vieppiù colpevole il fatto di non esserci ancora riusciti e di aver in alcuni casi generato una nuova “burocrazia telematica”;
  • se la retorica dell’innovazione digitale si arricchisce di continui richiami ad un nuovo esercizio della partecipazione sociale, culturale e politica, nei fatti si sperimenta soprattutto lo scambio e la condivisione all’interno delle tante “tribù di uguali” che popolano oggi la rete;
  • se le opportunità della digital transformation inondano i convegni e alimentano l’esegesi dei nuovi lavori e dei nuovi skills professionali, sul fronte dell’offerta formativa permangono incertezze che generano spaesamento e disaffezione.

È chiaro dunque che solo con il superamento di queste incongruenze la cultura dell’innovazione evolverà verso orizzonti di maggior fiducia ed ottimismo e potrà svolgere un ruolo di traino identitario e di antidoto contro l’attuale deriva rancorosa.

A ciò si aggiunga che l’Italia ha bisogno di una cultura dell’innovazione niente affatto standardizzata: non una generica passione per tutto ciò che è nuovo e buono in quanto tale, quasi una anacronistica riedizione dello spirito futurista. Piuttosto, qualcosa che si orienti verso un punto di equilibrio tra la tutela dell’esistente e la promozione del futuro. L’innovazione può e deve restituire nuovo respiro alla dimensione territoriale, applicandosi tanto alle città quanto agli ambiti rari e rarefatti. E non va certo utilizzata per bypassarli brutalmente. L’innovazione non deve modificare radicalmente gli obiettivi d’impresa, ma consentire di far meglio e in maniera più adeguata quello che le imprese italiane fanno da sempre in tutti i settori del manifatturiero. L’innovazione deve esaltare le doti che gli italiani possiedono: certamente lo spirito imprenditoriale, certamente la pratica relazionale.

Infine, l’innovazione deve essere resa disponibile e utilizzata per una funzione alta di discernimento. In un’epoca di impressionanti generalizzazioni e di messa in discussione di ogni certezza, ne hanno certamente un enorme bisogno l’informazione, la politica e le istituzioni. Ma anche la stessa scienza che, pur generando l’innovazione, viene messa in discussione quando non riesce a codificarne socialmente il significato.

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