Libro Bianco FPA, riforma PA. Scaletta: “I passi da fare per gestire il cambiamento organizzativo”

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La scorsa legislatura ha visto un corpus legislativo importante, che è derivato per massima parte dalla legge delega sulla riforma della PA n. 124 del 2015, che ha modificato in molti aspetti chiave il pubblico impiego. In questo contributo Adriano Scaletta riassume e spiega le raccomandazioni principali sul pubblico impiego che abbiamo raccolto, con l’aiuto della nostra community, nel capitolo “Nuovi processi per la PA abilitante” del Libro Bianco

5 Dicembre 2018

A

Adriano Scaletta, responsabile della valutazione della Performance, Agenzia Nazionale di Valutazione del Sistema Universitario e della Ricerca

L’incontro con il Ministro Bongiorno, in occasione della presentazione del Libro Bianco sull’Innovazione della PA, ha rafforzato una diffusa consapevolezza dell’inefficacia del “cambiamento per decreto”, confermando l’esigenza di azioni volte ad accompagnare le PA nello sviluppo delle capacità manageriali.

Approcci positivi

Come affermato dalla raccomandazione 2.1.a del Libro Bianco, c’è bisogno di “prendersi cura” delle riforme. Si tratta di un passo avanti che sposta l’attenzione dalla ricerca di “modelli innovativi”, alla gestione del cambiamento organizzativo (dal “cosa” al “come”) e che inevitabilmente attribuisce una funzione nuova alla valutazione. Se in 99 casi su 100 una misura fatica a essere attuata, prima di relegarla a fallimento bisogna chiedersi cosa succede in quell’unico caso, perché ha funzionato e quanto quell’esperienza sia replicabile altrove. Sono gli approcci positivi alla valutazione, quanto serve per dar corpo al “ricco e aggiornato catalogo di buoni esempi”, evocato dalla raccomandazione 2.1.b.

Di conseguenza, il cambiamento che ci aspettiamo può realizzarsi soltanto a macchia di leopardo e a intensità variabili; la sfida del sistema pubblico della valutazione è attrezzarsi per riconoscere e valorizzare cosa funziona bene, dove e perché. Per farlo, la regia di tale sistema deve tener presente almeno tre aspetti:

  1. modulare gli indirizzi, sapendo che si rivolgono a situazioni diverse
  2. essere consapevoli che l’unico miglioramento possibile è graduale e incrementale
  3. portare evidenze per una differenziazione finalizzata alla semplificazione

Differenziazione

Da vicino nessuno è normale, recita un motto della cooperazione sociale, che torna utile ascoltando la voce delle persone che vivono le organizzazioni e che quasi sempre tengono a precisare la propria atipicità (“la nostra è una realtà particolare”). Gestire la diversità significa concedere spazi di libertà che favoriscano capacità di adattamento e reattività nelle risposte; la managerialità che ne discende fa rima con l’autonomia, ma l’autonomia è concessa solo in presenza di fiducia e la fiducia si ottiene con i risultati. I successi d’altronde bisogna saperli raccontare, ma serve anche un sistema in grado di riconoscerli, in una prospettiva sussidiaria non solo orizzontale, ma anche attiva e circolare [2.1.b].

Persone

Le organizzazioni sono fatte di individui e la loro voce è rilevante come gli indicatori che ne misurano le prestazioni. I cosiddetti “intangibili”, la cui valutazione rappresenta un grattacapo per chiunque si occupi di risorse umane, sono fattori chiave per la qualità del lavoro svolto in qualsiasi organizzazione. Collocare le persone al posto giusto è la sfida di qualsiasi dirigente e per farlo è necessario mettere in fila tre aspetti, tutt’altro che scontati nel settore pubblico:

A. la strategia (cosa si vuole ottenere)

B. la pianificazione operativa (come si vuole fare)

C. la stima delle competenze necessarie e dei fabbisogni conseguenti (che tipo di persone servono, ci sono?)

In molte amministrazioni probabilmente emergerà il bisogno proprio dei ruoli evocati dal Libro Bianco: registi dello sviluppo, negoziatori, project manager, analisti e architetti di dati [2.1.c], ma una volta immesse queste figure non funzioneranno ovunque e allo stesso modo. C’è un altro intangibile da considerare, il contesto organizzativo dominato troppo spesso da cinismo e disillusione, che si rafforza con gli automatismi e con la deresponsabilizzazione. Alla personalizzazione delle istituzioni (“la Corte dei Conti ha detto”, “il MEF ha fatto”) e alla conseguente spersonalizzazione delle azioni, va data risposta con la valorizzazione delle persone nelle istituzioni e al riconoscimento della responsabilità che queste si assumono con le loro decisioni.

Per farlo c’è bisogno di almeno tre innovazioni:

a. una revisione del sistema di reclutamento che consenta assunzioni mirate [2.1.d]

b. un riordino organizzativo

c. un sistema nazionale della formazione, garantito da procedure di accreditamento che contemplino meccanismi di peer review finalizzati all’empowerment delle organizzazioni [2.1.e-f]

Valutazione della performance

È un tema che in questo quadro assume un ruolo molto più rilevante di quanto si pensi, specialmente in questa fase discendente del pendolo dell’illusione-delusione tipico di ogni riforma. Per inquadrare l’attualità dell’argomento è bene soffermarsi sull’oggetto della valutazione, che – sintetizzando all’estremo – corrisponde alla qualità delle prestazioni erogate dalle organizzazioni pubbliche. Il fuoco è quindi la prestazione, vale a dire “cosa interessa ai cittadini”, mentre gli attori sono gruppi di persone (gli uffici) che agiscono all’interno di un sistema istituzionale intrecciato con altri gruppi simili, affini o addirittura contrapposti, in continua relazione con un contesto esterno fatto di utenti e ulteriori attori individuali e collettivi. Riportando il tutto al linguaggio della performance:

  • il fine è l’interesse generale
  • l’efficienza è condizione per raggiungere tale fine
  • i sistemi incentivanti sono metodi per migliorare l’efficacia e l’efficienza
  • la premialità (monetaria) è uno dei possibili strumenti utilizzabili per i sistemi incentivanti

Ogni volta che questo flusso logico è inteso al contrario, la disciplina sulla performance non funziona; se lo si prende per il verso giusto, invece, le organizzazioni pubbliche declinano la propria visione dell’interesse generale in obiettivi di performance, nella consapevolezza, sin dalla fase di programmazione, che saranno successivamente valutati [2.1.n].

Ci si soffermi però sul concetto di interesse generale, che può indentificarsi con “ciò che conta per i cittadini e gli utenti”, i quali a loro volta sono legittimi portatori di valori e interessi diversi, sovente in contrasto tra loro e con aspettative profondamente mutate dalla rivoluzione digitale [2.1.o]. L’interesse generale, in sostanza non è mai un “oggetto” singolare e in democrazia è bene che sia così.

Ciò significa che gli obiettivi strategici sono sempre frutto delle scelte degli organi di indirizzo e definire la performance organizzativa come la capacità di un ente di raggiungere gli obiettivi prefissati sicuramente funziona sul piano comunicativo, ma mal si adatta a una sua corretta valutazione. Domandarsi semplicemente se i risultati sono stati conseguiti, significa limitarsi a rilevare la loro distanza dagli obiettivi e la valutazione diventa “verifica”, “controllo” o mera “validazione” di un calcolo. Non c’è però alcuna garanzia – come spesso avviene – che a quegli obiettivi di performance corrisponda effettivamente l’interesse dei cittadini.

Per queste ragioni le domande sottese alla valutazione delle performance della PA dovrebbero essere un po’ più articolate:

  • da dove vengono gli obiettivi di performance? la strategia che c’è dietro è stata dichiarata da qualche parte?
  • quali azioni sono state programmate per perseguirli?
  • gli indicatori scelti per la loro misurazione sono adeguati?
  • quali eventi inattesi sono scaturiti durante l’esercizio? hanno modificato le priorità, le strategie e quindi gli obiettivi? c’è stato tempo di formalizzare questi cambiamenti?
  • (soltanto a questo punto) quali risultati sono stati raggiunti rispetto agli obiettivi prefissati? e quali effetti sono stati invece prodotti a prescindere dagli obiettivi prefissati?
  • ma soprattutto, chi stabilisce se sono “buoni”? chi decide cos’è “giusto”? a vantaggio di chi?

La Rete Nazionale

Un esercizio di valutazione di questo tipo non può essere svolto autonomamente, c’è bisogno di sguardi esterni (OIV), di raffronti tra enti simili (Agenzie) e dell’ascolto sistematico di utenti e portatori di interesse, attraverso una pluralità di metodi e strumenti [2.1.t]. Ma è bene che tale complessità non fornisca alibi per sottrarsi alla valutazione, perché ogni amministrazione potrà sempre proiettare la propria azione all’esterno, domandandosi non solo chi sono i propri utenti finali, ma anche quelli di ogni sua articolazione interna, preoccupandosi di ascoltarli sistematicamente [2.1.u].

Per favorire queste interazioni virtuose, è necessario dare corpo alla Rete Nazionale per la valutazione delle amministrazioni pubbliche, disegnando un sistema di valutazione che evolva insieme al settore pubblico e che impari sempre meglio a pungolare le amministrazioni del Paese [2.1.p].

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