EDITORIALE

L’Idra di Lerna e la rivoluzione che non c’è stata

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In questa introduzione cercherò, azzardando una pericolosa sintesi, di racchiudere in un elenco di parole chiave quel che a mio parere serve per un cambio radicale della PA. Non è (solo) un giudizio di quanto si è fatto con la politica per tanti versi coraggiosa di questi ultimi anni, piuttosto vedetela come un incitamento, un consiglio non richiesto, alla nuova legislatura e al nuovo Governo. Qui le slide e la relazione che ho tenuto lo scorso 11 dicembre in occasione della presentazione dell’Annual Report 2017 di FPA

15 Dicembre 2017

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Carlo Mochi Sismondi

Nata dalla palude senza fondo di una legislazione infinita e mai del tutto esplorata, la burocrazia-nonsense, come l’Idra nata dalla palude di Lerna, non può essere sconfitta tagliandole la testa: per ciascun moncherino ne nascerebbero due; impone invece la pazienza (che Ercole non aveva) di cauterizzare ogni taglio impedendo così il moltiplicarsi del pericolo.

L’immagine mitologica dell’Idra descrive a mio parere molto efficacemente il lungo percorso dell’innovazione della PA giunto, con la fine della legislatura, ad un altro giro di boa dopo un’intensa stagione di riforme normative. È tempo quindi di bilanci, di una pacata analisi quantitativa e qualitativa di quel che abbiamo portato a casa, di un interrogarci con la ragione (e non con la pancia) su quanto resta da fare e che dovremo necessariamente mettere sul tavolo di un nuovo Parlamento e di un nuovo Governo per sconfiggere il mostro della burocrazia-nonsense.

Approfondendo il ragionamento cominciato lo scorso anno parlando di “burocrazia difensiva”, ossia della tentazione del non fare del burocrate confuso e spaventato dalla bulimia legislativa, quest’anno parliamo di “burocrazia nonsense” riferendoci all’insieme, spesso inconsapevole, dato dallo stratificarsi delle norme, vecchie e nuove, degli adempimenti, delle regole, dei vincoli che, pur dotati di senso se presi uno per uno, diventano incomprensibili e senza senso (nonsense appunto) se visti nel loro insieme. Come i discorsi dello Stregatto in “Alice nel Paese delle Meraviglie”, capolavoro e prototipo della letteratura nonsense.

Ma partiamo dall’inizio di questa fase: il Governo si era avvicinato alla riforma in puro stile “erculeo”, con il Presidente del Consiglio Renzi che nell’aprile del 2014 dichiarava “a maggio dobbiamo essere in grado di entrare con la ruspa dentro la pubblica amministrazione”. Non basta: subito dopo nell’intestare la casella di posta per una consultazione sulla riforma, svolta per altro con modalità non certo innovative, l’indirizzo è stato “rivoluzione@governo.it”.

Ed “erculeo”, ma un po’ grottesco, era stato il faccione contento di Calderoli davanti al falò di 375.000 (sic!) leggi inutili bruciate nel cortile del Ministero.

Purtroppo la palude legislativa è oggi più profonda di prima, per ogni legge eliminata ne sono state fatte due e sempre più complicate, e la ruspa di Renzi è rimasta spesso impantanata nella rete delle norme che doveva spianare. Come ci insegna l’Idra e il fallimento di Ercole (per vincere l’Idra si è dovuto far aiutare, e non da un guerriero, ma da un aiutante, come Iolao, ben poco eroico), tagliare le teste con la spada non è la soluzione e così oggi, pur apprezzando i tanti passi avanti soprattutto normativi (altre leggi!), possiamo serenamente affermare che “la rivoluzione non c’è stata”. Anzi se chiediamo della riforma, come abbiamo fatto alla fine di quest’anno, ad un panel di persone “informate sui fatti” la risposta è che nella maggior parte dei casi non si sono accorti né di grandi cambiamenti né di grandi impatti. “Tutto va come sempre” sembrano dirci con un sorriso beffardo prima di tornare dietro il loro muro di carte.

E allora? Dobbiamo rassegnarci a questa burocrazia bulimica che si è mangiata, pur di sopravvivere a se stessa, il senso di quello che fa, in un circolo vizioso e infinito di adempimenti? Dobbiamo continuare a sognare un Alessandro Magno che tagli per noi il nodo gordiano? O forse c’è una strada un po’ più lenta e meno “eroica”, ma che ci può garantire qualche risultato più duraturo nella direzione di quell’amministrazione abilitante, necessaria per essere regia e fattore di sviluppo sostenibile di una società complessa?

Tutto l’Annuario 2017 è una risposta a questa domanda: la trovate nei tanti casi di buona amministrazione nei territori, nelle sperimentazioni intelligenti di innovatori dentro e fuori la PA, nelle a volte inedite alleanze che hanno generato progetti ed esperienze a cavallo tra il pubblico e il privato.

In questa introduzione cercherò, azzardando una pericolosa sintesi, di racchiudere in un elenco di parole chiave quel che a mio parere serve per un cambio radicale di passo in questa direzione. Non è (solo) un giudizio di quanto si è fatto con la politica per tanti versi coraggiosa di questi ultimi anni, piuttosto vedetela come un incitamento, un consiglio non richiesto, alla nuova legislatura e al nuovo Governo. Eccole.

  • Pensieri lenti (ossia dobbiamo sciogliere i nodi invece di tagliarli).
    Sembra un ossimoro, ma mentre cerchiamo la velocità e l’efficienza della PA e cerchiamo di adattaci con prontezza ad un mondo che cambia, non possiamo fare a meno di quelli che Kahneman chiama “pensieri lenti”, gli unici in grado di vaccinarci contro i bias che ci fanno scambiare per dati di fatto quelli che sono solo i nostri desideri e le nostre convinzioni (Kahneman con un bellissimo termine parla di “euristica dell’affetto”). Le parole d’ordine (a volte) brillanti della politica sono lampi nel buio: ci indicano spesso la direzione, ma non illuminano stabilmente la strada. È necessario passare dall’intuizione all’analisi razionale dei fatti, anche pregressi e, senza abbandonare l’entusiasmo, leggere la storia e constatare che, se tante riforme hanno fallito prima di noi, la domanda non è come fare subito una legge migliore, ma se è una legge quella che ci serve o piuttosto un paziente e competente lavoro di (ri)costruzione sul campo di nuove managerialità.
  • Conoscenza (ossia servono scelte fatte basandosi sui dati).
    Ci serve, mutuandola dalla medicina, un’amministrazione “evidence based” in cui l’analisi dell’enorme quantità di dati (big data appunto) in possesso della PA diventi strumento di previsione e fondamento di politiche. Un esempio? Il disastro fatto con gli esodati qualche Governo fa, o con il personale delle Province, o con il fabbisogno di medici nel nostro SSN sono classici casi di decisioni prese in assenza di conoscenza o a dispetto dei dati. Altrettanto rischia di essere la distribuzione delle identità SPID, stimata dal progetto a 10 milioni a fine 2017 e che raggiungeranno a malapena 2 milioni, o l’attuazione dell’ANPR (Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente) che è, nonostante il recupero in corner che sta facendo il Team Digitale, così indietro rispetto alle prime stime che sembra di guardare un altro film. Anche qui serve più umiltà perché contra factum non valet argumentum e se nelle amministrazioni girassero meno carte e più numeri certificati sarebbe molto meglio.
  • Sicurezza e rischio (ossia usiamo un quadro normativo certo come ramponi per non scivolare).
    Suol dirsi beato un Paese che non ha bisogno di eroi e tantomeno ne deve aver bisogno la PA, ma anche qui ci troviamo di fronte ad un’apparente contraddizione. Mentre il sistema di (poche) norme certe deve servire a rassicurare, allo stesso modo dobbiamo considerare il rischio di sbagliare come intrinseco nell’attività di un lavoratore, specie se si tratta di un dirigente. Il nostro burocrate, potenzialmente “difensivo” e quindi soggetto alla tentazione di non fare per non sbagliare, deve trovarsi in un contesto dove chi sbaglia paga (e paga davvero) solo se sbaglia per dolo o per gravi omissioni, anche di controllo, non perché ha sperimentato, ha osato, ha infranto muri di consuetudini. Per far questo è necessario che l’innovazione, potenzialmente sempre “disobbediente” e a rischio d’insuccesso, sia accompagnata per mano da un insieme di linee guida, di tutoraggio, di affiancamento e di benchmarking rispetto alle realtà più avanzate.
  • Competenza (ossia per operarmi di appendicite voglio un chirurgo, non un avvocato).
    La combinazione che ha coinvolto da una parte un’ingenua mitizzazione e banalizzazione dei soft skills, per altro necessari; dall’altra la diffusa confusione tra patologia e fisiologia che ci ha portato ad azioni anticorruzione con demenziali rotazioni dei dirigenti; dall’altra ancora una carenza strutturale di professionalità “tecniche” e una difficoltà a pagarle adeguatamente (specie se parliamo di bravi o bravissimi tecnici, ma che non vogliono dirigere strutture) ha fatto sì che nella PA scarseggino i profili che sarebbero più necessari e che, se per caso riusciamo ad assumerli, siano sempre sul punto di fuggire nel privato. Se certo alcuni stipendi di altissimi dirigenti o di magistrati erano chiaramente spropositati per un Paese con la nostra finanza pubblica, sperare di trovare alte professionalità tecniche pagandole la metà del prezzo di mercato è stupido. Le competenze si possono anche costruire all’interno, ma sulla scia di chi già le possiede. In questo momento, in molti campi, la PA le ha dismesse.
  • Autonoma responsabilità (ossia ti assegno gli obiettivi e le leve e ti valuto sui risultati).
    Sembra assurdo dopo tanti anni doverne ancora parlare, ma basta leggere le recenti dichiarazioni del Presidente dell’ARAN, che ammette che “se i premi vengono dati a pioggia non è colpa della contrattazione, ma della mancanza di obiettivi chiari”, per capire quanta strada c’è ancora da fare perché ogni dirigente pubblico abbia obiettivi definiti e condivisi (ma non contrattati al ribasso) e possa avere a disposizione le risorse umane, finanziarie e strumentali per raggiungerli. Nemico giurato del binomio inscindibile tra responsabilità e autonomia è l’illusione del controllo che tende a centralizzare e verificare ogni passaggio, a non definire le risorse disponibili. In questi ultimi anni questa pretesa illusoria si è rafforzata per due fenomeni diversi, ma convergenti, nati entrambi da giuste esigenze, ma che hanno portato sostanzialmente ad un disinvestimento nella PA: il controllo della spesa e la lotta alla corruzione. Le intenzioni erano corrette, peccato che si sia scelta la strada nella direzione sbagliata. Non è diminuendo l’autonomia di chi fa che diminuisce la corruzione o si tagliano gli sprechi, ma è vero esattamente il contrario, purché l’autonomia sia figlia di una corretta delega e non di un abbandono.
  • Discernimento (ossia definire priorità e investirci senza sognare innovazioni a costo zero).
    L’innovazione costa. Se si fa seriamente, costa non poco. È perciò necessario saper scegliere perché tutto non si può fare. Neanche se ci piacerebbe, neanche se forse sarebbe giusto. E la politica deve essere il momento della scelta e anche il momento della rinuncia a quello che, per ora, non si può fare. Ogni volta che leggo “Dall’attuazione delle disposizioni di cui al presente decreto non devono derivare nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica” mi deprimo e mi arrabbio, Mi deprimo perché so che l’innovazione sarà finta, fatta di carta che risponde a carta; mi arrabbio perché mi sento preso per scemo. Proprio perché se innoviamo ci saranno invece necessariamente nuovi e maggiori oneri per la finanza pubblica, ma se non innoviamo sarà peggio, dobbiamo definire delle priorità e polarizzare i nostri sforzi. Se questo è vero lo è a maggior ragione per la digital transformation che incide profondamente nei processi, nella cultura, nei comportamenti di tutta la macchina burocratica. Una riforma che voglia fare tutto con niente ottiene quel che investe: niente. O meglio nient’altro che carta.
  • Empatia (ossia mettere le persone al centro dentro e fuori la PA).
    Al di là della retorica investire nelle persone dentro e fuori l’amministrazione vuol dire avere fiducia che tutte, siano esse cittadini o impiegati pubblici, sono portatori non solo di bisogni, ma anche e soprattutto di idee e di soluzioni. Dentro la PA questo vuol dire avere come obiettivo lo sviluppo di ciascuno nella sua specifica diversità. Sviluppare le persone, far sì che pensino e partecipino attivamente al miglioramento di quello che fanno, vuol dire poter contare su leader lungimiranti, che sanno che la loro forza è la forza della loro squadra, che si sforzano sempre di far sì che cresca nei propri collaboratori l’orgoglio e insieme la capacità di autovalutarsi.
    Mettere al centro le persone, fuori dall’amministrazione, vuol dire non considerarle mai “utenti” passivi dei servizi, ma stakeholders (sono in fondo gli azionisti della PA) che mantengono la responsabilità sulla loro vita, fanno un patto onesto con la PA, che pagano con le loro tasse, e la usano come piattaforma abilitante per realizzare i loro scopi. È necessario un atteggiamento di “innovazione empatica” che metta al centro la creazione di reti relazionali positive e lo sviluppo sostenibile fondato sulla crescita di capitale sociale.
  • Coerenza (ossia per far girare bene il motore i pistoni devono muoversi in sincronia).
    Se “fare sistema” è stato il mantra tanto evocato e poco esercitato degli ultimi decenni, che hanno visto una società complessa frammentarsi sempre più in individualità contrapposte, viene da chiederci “ma fare sistema per far cosa?” Qual è il fine di una crescita a cui la PA deve contribuire, ma che in sé non è necessariamente positiva? Il tema dello sviluppo sostenibile ci dà una risposta sfidante, che esige coerenza. Questo sviluppo declinato in obiettivi concreti, i cosiddetti SDGs ossia i Sustainable Development Goals che l’Assemblea generale dell’ONU ha individuato come agenda per tutti i Paesi del mondo, ci aiuta a leggere la riforma della PA in una prospettiva teleologica. Ciò vuol dire porre l’accento non tanto sul “cosa fare”, lo abbiamo già detto troppe volte, e neanche solo sul “come farlo”, anche se di manuali c’è sempre bisogno, ma piuttosto sul “perché” dell’innovazione necessaria, sia essa istituzionale, organizzativa o tecnologica. È su questa base che gli sforzi d’innovazione devono costruire una “mappa delle coerenze” su cui giudicare ogni progetto. È intorno a questi obiettivi che prende un nuovo slancio anche la tanto citata multilevel governance che deve mettere in sintonia i vari livelli di Governo, dalle circoscrizioni allo Stato, per un outcome che sia il miglioramento della qualità della vita dei cittadini e delle comunità
  • Openness (ossia ripristinare la comunicazione a due vie invece di dettare slogan).
    Essere open non vuol dire comunicare molto. Non è open quella grande città (esempio vero) che ha 420mila followers su Twitter, ma ne segue meno di mille. Non è open chi parla senza ascoltare, chi ascolta senza sforzarsi di capire. Non è open chi pubblica centinaia di dataset inutili che nessuno gli ha chiesto e nasconde quelli che possono abilitare una reale accountability sui temi più sensibili per i cittadini. Non è open chi apre una consultazione su cose che ha già deciso, chi istituisce un dibattito pubblico perché lo dice la legge, ma tanto l’opera quella è e quella resta. Essere aperti, come dice la parola, non è solo essere una “casa di vetro”, ma essere disposti ad aprire la porta e ad adattare l’arredamento, a cambiare.
  • Partecipazione (ossia prendere la forza dalla partecipazione dei cittadini).
    Ultima parola che le racchiude tutte. Non la voglio spiegare: è già spiegata in tutto questo volume che è pieno di lavoro, di competenze, di entusiasmo, ma che è soprattutto frutto della partecipazione di migliaia di innovatori che non hanno appeso le scarpette al chiodo, ma hanno dato vita a centinaia di incontri di lavoro, di confronto, di scambio e di condivisione. Incontri fisici e virtuali ricchi e pieni di speranza, che sono il senso del nostro lavoro.

Finito l’esercizio, come fare in modo che la nostra amministrazione possa contare su un decalogo del genere, per altro valido per qualsiasi organizzazione complessa, che oggi nella PA sembra però un libro dei sogni scritto da un marziano? Nella mia esperienza trentennale ho visto che c’è una sola strada: convogliare nella PA i migliori, pagarli il giusto, dar loro una ragionevole e motivata fiducia e libertà d’azione, farli uscire dai palazzi, creare occasioni di osmosi e contaminazione, far sì così che siano orgogliosi di stare dove sono. Se queste dieci parole sono un distillato della nostra esperienza, il distillato del distillato, l’oro nel crogiolo, è quindi l’attenzione alle persone che dirigono e lavorano nella PA: attenzione a sceglierle bene, a dar loro le giuste prospettive di crescita, a formarle, a motivarle a fare il mestiere più bello del mondo (essere utili alla propria comunità), a non vederle come una controparte da cui ci divide un tornello, ma indispensabili compagni di una strada che si può fare solo insieme, dentro e soprattutto fuori dagli uffici. Buonismo? No, realismo che richiede però una vera, serena, onesta valutazione dei singoli (indispensabile) e ancor più delle organizzazioni, valutazione che è credibile solo se chi la fa ha la coscienza immacolata. In questo senso e su questo campo etica, innovazione, cultura manageriale e responsabilità si trovano insieme per disegnare un’amministrazione pubblica che sia bene comune del Paese.

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