Riforma PA. La dirigenza pubblica accetti la sfida

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La Riforma della pubblica amministrazione ha trovato posto nell’agenda di ogni Governo. Purtroppo i risultati sono stati, nell’insieme, di molto inferiori alle attese e alle esigenze del paese. Questo perché ogni riforma non può prescidere dalla volontà dei funzionari di mettersi in gioco, di scommettere su un’amministrazione che guardi alla qualità dei servizi, avendo in mente le esigenze della collettività. Ne è convinto il Prof. Stefano Sepe che, nel contributo che di seguito pubblichiamo, scrive:"Non servono dirigenti e funzionari (soltanto) bravi, ma persone disposte a mettere in discussione le modalità tradizionali dell’azione pubblica".

23 Aprile 2014

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Stefano Sepe

La Riforma della pubblica amministrazione ha trovato posto nell’agenda di ogni Governo. Purtroppo i risultati sono stati, nell’insieme, di molto inferiori alle attese e alle esigenze del paese. Questo perché ogni riforma non può prescidere dalla volontà dei funzionari di mettersi in gioco, di scommettere su un’amministrazione che guardi alla qualità dei servizi, avendo in mente le esigenze della collettività. Ne è convinto il Prof. Stefano Sepe che, nel contributo che di seguito pubblichiamo, scrive:"Non servono dirigenti e funzionari (soltanto) bravi, ma persone disposte a mettere in discussione le modalità tradizionali dell’azione pubblica".

Il presidente del Consiglio sa bene – avendo fatto l’esperienza di presidente di provincia e di sindaco di una grande città – che il nemico da combattere non è la pubblica amministrazione, ma le sue disfunzioni, la sua cronica insufficienza, la sua cultura ostile al cambiamento. Sono quelli i nemici, sono quelle le barriere da abbattere per ottenere il cambiamento che serve. Il premier sa benissimo che il sistema pubblico è uno dei perni sui quali ruotano le società ed ha sperimentato direttamente la complessità della macchina amministrativa. Due facce della stessa medaglia, due aspetti ineludibilmente compresenti: complessità del problema, assoluta necessità di risolverlo. Ciò lo ha portato ad affermare – già all’esordio del suo mandato alla guida del governo – che la riforma dell’amministrazione è la “madre” di tutte le riforme. Non c’è governo che non abbia messo in agenda – in un secolo e mezzo – il miglioramento dell’amministrazione pubblica. I risultati sono stati, nell’insieme, di molto inferiori alle attese e alle esigenze del paese. Ora Renzi ci prova. L’espressione da lui usata di recente (“lotta dura alla burocrazia”) non deve essere fraintesa, né confusa con l’insensato slogan sui “fannulloni” che tanti impacci ha prodotto negli anni scorsi. Il nemico non è l’odiata burocrazia, ma i meccanismi che perpetuano inefficienze, privilegi, accomodamenti, ritardi. Il vero totem da abbattere è la tendenza di molti pubblici funzionari al surplace del quale era maestro Antonio Maspes, indimenticato ciclista su pista degli anni ’60.

I primi segnali incoraggiano le speranze di chi è convinto che – come affermava oltre tre decenni orsono Massimo Severo Gianni – la riforma dell’amministrazione necessiti di un’azione paziente, diuturna e incessante che durerà alcuni anni. Il governo, infatti, ha iniziato dai piani alti, evitando l’errore tragico (tragicomico in alcuni casi) di scagliarsi contro il modesto travet, dipinto come la causa vera e unica di tutti i mali del paese. Oltre che intervenire sui costi della politica – dietro i quali, spesso lo si sottovaluta, si celano ingenti costi amministrativi – il premier ha chiesto che si intervenisse, per cominciare, dal taglio degli stipendi dei manager delle imprese pubbliche e degli alti funzionari. Un segnale preciso di metodo e di ordine di importanza. In questi provvedimenti sono stati adottati criteri di ragionevolezza. Analogamente, gli interventi di risparmio gestionali – come ad esempio la drastica riduzione delle auto di servizio – benché non abbiano un grande peso sul piano economico, hanno l’obiettivo di cominciare a smontare quella impalcatura di inutili privilegi che sono fonte di inutili sprechi che tanto infastidiscono l’opinione pubblica.

Rispetto alle iniziative del governo la risposta da parte delle amministrazioni pubbliche è stata fin troppo timida. In particolare dai dirigenti pubblici non è finora arrivata alcuna risposta significativa. Si obietterà che il piano di riforma – nella sua completezza – verrà presentato (se verranno rispettati gli impegni) entro la fine di questo mese. Dovremo quindi aspettare. E si vedrà quale atteggiamento sceglieranno di avere i dipendenti pubblici. Ciò nonostante, occorre prendere atto che l’ennesimo muro contro muro sarebbe esiziale. Altrettanto sarebbe cercare – da parte dei pubblici dipendenti – di evitare lo scontro frontale e ripiegare sul contenimento astuto. Sui sì, che diventano nì e poi volgono verso il no. Occorre, al contrario, chiarezza di posizioni e di intenti. La dirigenza pubblica ha l’occasione per mettersi in gioco e deve farlo. Consapevolmente, forte delle sue competenze professionali, alle quali va accomunata la scelta di operare per il cambiamento. Non servono dirigenti e funzionari (soltanto) bravi, ma persone disposte – proprio servendosi delle loro competenze e capacità – a mettere in discussione le modalità tradizionali dell’azione pubblica. Ci vogliono funzionari che scommettano su un’amministrazione che guardi alla qualità dei servizi e che abbiano in mente le esigenze della collettività.

Il piano del governo per cambiare la pubblica amministrazione sarà basato – si spera – su una forte modifica delle politiche di intervento, sulla scelta oculata delle priorità (nel tempo e nella selezione dei settori di intervento). Di fronte a ciò la dirigenza pubblica è chiamata a dimostrare la sua capacità di essere – come dovrebbe – parte delle classi dirigenti del paese. Elemento di traino e non retroguardia.

Affinché questo ipotetico circuito virtuoso funzioni al meglio, al governo si può ragionevolmente chiedere di:

  • evitare l’isolamento nel “palazzo”. È accaduto fin troppo spesso che riforme originate da ottimi intenti si siano arenate e abbiano subito una sorta di mutazione genetica, perché si sono trasformate in un fantasmagorico castello di norme e di carte, elaborato nei palazzi di governo. E lì rimasto – con la gioia dei conservatori – per gli storici del tempo a venire.
  • tenere adeguatamente conto delle necessità di costanti messe a punto e di manutenzione continua dei provvedimenti. Con una modalità che – senza barattare sui princìpi – riesca a coinvolgere il più possibile i pubblici dipendenti, facendoli sentire parte (non controparte) del rinnovamento.
  • rendere operante meccanismi di confronto sistematico delle esperienze che – dentro e fuori l’amministrazione – si fanno e si stanno facendo. In proposito il prossimo FORUM PA diventa un’occasione di enorme importanza per valutare, discutere proporre.

Il sottosegretario alla presidenza, Delrio, settimane addietro ha messo sul piatto la posta in gioco: i dirigenti saranno valutati per i risultati ottenuti, non in base a parametri interni e di pura efficienza organizzativa, ma guardando principalmente alla bontà delle scelte compiute e all’efficacia degli interventi effettuati. Questa prospettiva – tutti lo hanno chiaro – implica un approccio molto diverso allo svolgimento della “pubblica funzione”, nonché una radicale modifica di mentalità. Su questi due terreni si “parrà la nobilitate” dei dirigenti pubblici. Una scommessa alla quale non ci si può sottrarre.

Le burocrazie pubbliche devono mettersi in gioco per mostrare un dato reale e spesso ignorato: c’è una parte largamente prevalente di dipendenti pubblici che chiede soltanto di poter lavorare meglio. L’esperienza insegna che la riuscita del tentativo di riformare l’amministrazione dipende in misura notevole da due fattori in qualche misura esogeni: che sia realmente premiato il merito e che i funzionari possano lavorare senza dovere subire indebite ingerenze da parte dei politici. Se questi presupposti verranno meno, qualsiasi progetto di cambiamento è destinato a fallire. E tutto continuerà come prima.

 

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