EDITORIALE

Riformare la PA vuol dire far crescere le persone in un’organizzazione flessibile

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Due importanti decreti legislativi in materia di pubblico impiego sono stati recentemente approvati dal Consiglio dei Ministri e trasmessi al Parlamento per i pareri delle Commissioni competenti, alla Conferenza delle Regioni per la necessaria “intesa” e al Consiglio di Stato. Invece di darvi il mio punto di vista -fatevene uno vostro leggendoli- vorrei che insieme ci interrogassimo su cosa dovrebbe fare una gestione delle persone che sia intelligente, lungimirante e costruttiva

8 Marzo 2017

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Carlo Mochi Sismondi

Due importanti decreti legislativi in materia di pubblico impiego sono stati recentemente approvati dal Consiglio dei Ministri e trasmessi al Parlamento per i pareri delle Commissioni competenti, alla Conferenza delle Regioni per la necessaria “intesa” e al Consiglio di Stato.L’iter durerà più o meno tre mesi, poi l’approvazione definitiva nel Consiglio dei Ministri e la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. Qui trovate il comunicato stampa con cui vengono presentati e con i loro contenuti principali, ed ecco i link ai testi: Atto Governo 391; Atto Governo 393.

Questi decreti, che sono pezzi importanti della “riforma Madia”, riguardano il primo la valutazione riformando il d.lgs. 150/2009 (la riforma Brunetta), il secondo il testo unico del pubblico impiego che rinnovella il d.lgs. 165/2001. Due temi quindi di grandissima rilevanza per una pubblica amministrazione che vuole cambiare passo.
La loro lettura, che ho fatto diligentemente, è stata onestamente molto difficile per il dannato vizio dei rimandi continui e del rinnovellare vecchi provvedimenti piuttosto che scriverne di nuovi (una scrivania grande come la mia non basta a contenere tutti i testi a cui i decreti rimandano!) che rende veramente ardua una vista sinottica dei provvedimenti e quindi un giudizio d’insieme.

Invece di darvi il mio punto di vista – fatevene uno vostro leggendoli – vorrei che insieme ci interrogassimo su cosa dovrebbe fare una gestione delle persone (“risorse umane” mi sembra così brutto!) che sia intelligente, lungimirante e costruttiva. Per farlo mi rifaccio al “tris del perfetto lavoro” che mi suggerì un vecchio maestro mentre ero al primo impiego: “in un lavoro – mi disse – devi cercare almeno due di queste tre cose: divertirsi, guadagnare, imparare. Mi raccomando, mai meno di due, tutte e tre poi sarebbe meglio!”. Come possiamo tradurre in un linguaggio meno semplicistico queste tre caratteristiche? Direi che in un lavoro, e quindi anche e soprattutto nel lavoro pubblico, se si vuole attirare i migliori, è necessario che si diano tre condizioni:
  1. che ci sia la possibilità di imparare, sempre, in una “learning organization” che sviluppi, valorizzi e accresca continuamente i “saperi” e i “saper fare” (noi lo chiamiamo empowerment);
  2. che si possa guadagnare il giusto in proporzione a quanto si fa;
  3. che ci sia un effettivo riconoscimento del merito e uno sviluppo delle potenzialità (e anche della diversità) di ciascuno in un ambiente in cui sia possibile progredire senza limiti.

Per far questo è necessario che l’organizzazione sia fluida, “responsive” e attenta; che abbia meno rigidità possibili, che si basi sulle due parole magiche di tutta la gestione delle risorse umane: autonomia e responsabilità.

In questo contesto la parola flessibilità, che il d.lgs. sul pubblico impiego vede solo in negativo, non è una parolaccia, ma la precondizione perché l’organizzazione non sia ingessata e immobile. Certo flessibilità non vuol dire arbitrio e l’uso improprio della precarietà non può essere consentito nel pubblico, allo stesso modo e nella stessa misura in cui non è consentito nel privato. Ma far discendere dalla paura di una patologia l’immobilità dell’organizzazione, magari attraverso la necessità di continue negoziazioni, sarebbe un rimedio peggiore del male.

Purtroppo però oggi l’amministrazione è così: congelata. Senza turnover, senza mobilità, senza premi veri e senza penalizzazioni[1], senza crescita, se non automatica, e con pochissima e estemporanea formazione.

Nessuna organizzazione complessa, nessuna azienda può sopravvivere senza l’ascensore interno che faccia salire i migliori e scendere i peggiori. Né potrebbe reggersi sul mercato un’azienda che non puntasse sulla crescita del suo patrimonio immateriale di conoscenze, sul riconoscimento dei meriti e dei talenti, sulle possibilità di una brillante carriera, su una chiara e condivisa premialità.

Se queste premesse, come fortemente credo e come la mia trentennale esperienza d’imprenditore mi ha fatto sperimentare, sono vere, allora sono questi gli occhiali con cui dobbiamo leggere i nuovi provvedimenti. È vero che non è solo con le norme che si cambiano i comportamenti, ma queste nuove leggi ci servono per aiutarci ad ottenere questi risultati? Ci aiutano a far crescere un’organizzazione limpida e vitale che veramente si basi sull’enorme potenziale che hanno le persone quando credono davvero in quel che fanno? Aumentano le condizioni per la partecipazione, la motivazione, la serena valutazione, la premialità? Garantiscono più formazione?
Insomma creano un posto di lavoro in cui “ci si diverte (si sta bene), si guadagna e si impara”?
Rileggiamo insieme questi due decreti[2] con queste domande sulle labbra e rispondiamoci.

Il tema della riforma del pubblico impiego sarà ampiamente trattato a FORUM PA 2017. Rimanete in contatto

[1] Ancora oggi se aprite la sezione “amministrazione trasparente” nei siti dei Ministeri troverete che tutti i dirigenti prendono “esattamente” la stessa retribuzione di risultato, nonostante le leggi e i fiumi d’inchiostro che sono stati usati per promuovere la valutazione.
[2] Lo so. Mi direte che sono decreti delegati, figli di una legge delega e quindi stretti dalle condizioni della delega stessa. Non mi pare però che sia una valida ragione per accontentarci: la legge delega non è calata dal cielo come le tavole di Mosè, e la scelta che, a mio modesto parere, è stata fatta è un po’ (troppo) al ribasso.

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