WikiDemocracy: promuoviamo il nuovo, invece di tutelare il vecchio

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WikiDemocracy è un ambiente collaborativo e democratico per la stesura e revisione di programmi politici inventato cavalcando la connotazione di “contributo aperto” per il quale è conosciuto WikiPedia. Ne parliamo con Stefano Quintarelli, ideatore – insieme a Gianmarco Carnovale, Francesco Face e Guido Tripaldi – di WikiDemocracy

3 Marzo 2008

Articolo FPA

WikiDemocracy è un ambiente collaborativo e democratico per la stesura e revisione di programmi politici inventato cavalcando la connotazione di “contributo aperto” per il quale è conosciuto WikiPedia. Ne parliamo con Stefano Quintarelli, ideatore – insieme a Gianmarco Carnovale, Francesco Face e Guido Tripaldi – di WikiDemocracy

La rete sta influenzando i modelli di partecipazione, particolarmente a quali livelli e in quali contesti? E in che modo poi, organizza la conoscenza?
Cominciamo innanzitutto a parlare dei modelli di comunicazione. La rete è un “canale” di comunicazione bidirezionale per definizione, e in questa sua peculiarità non ha fatto altro che replicare il modello di comunicazione umana: la comunicazione umana è, in qualche modo, sempre stata bidirezionale. Dalle piazze, all’agorà, persino alla stampa: stampare un libro, all’inizio, era un’attività che costava veramente poco ed era alla portata di molti. L’industrializzazione dei contenuti ha portato ad enormi costi nella produzione e distribuzione dell’informazione e l’ha fatta diventare un sistema monodirezionale. La radio è nata bidirezionale. Internet è nata bidirezionale, è cosi, è nella sua natura. Fatto sta che è nata in un momento e in un ambiente in cui la comunicazione si era radicalizzata su un modello monodirezionale. All’inizio, si è usato questo nuovo “canale” in modo improprio: i grandi editori mettevano on line la versione in pdf del giornale stampato, risparmiavano sui costi di stampa, ma non sfruttavano la peculiarità di Internet. Il meccanismo stesso di funzionamento della rete ha poi, gradualmente, scardinato certi processi: il primo content management server costava tanto da non riuscire ad abbattere i costi, anzi rendeva necessario il recupero delle spese. Oggi il fattore abilitante è un software che attiva la funzione di ricerca, che si scarica dalla rete ed ha, per questo, un costo marginale pari a zero. Oggi ci sono i content management system, i blog, che non sono altro che sistemi che consentono di scrivere facilmente e pubblicare facilmente. Il “canale” si è aperto, ha riscoperto la sua vera natura.


Questi modelli più aperti e informali in quali ambiti organizzativi possono aver presa? Secondo Lei anche nella pubblica amministrazione?
Come fa la PA ad essere bidirezionale quando tutto il sistema di riferimento è monodirezionale? Partiamo dal punto essenziale: per capire fino in fondo quanto Internet può essere utile e sfruttarne le potenzialità bisogna anzitutto mettersi in una logica di ascolto. Il sistema dei blog si spiega attraverso la metafora del bar: in un bar non si entra per parlare, ma per conversare, cioè dialogare in modo bidirezionale, prestando ascolto, rispondendo. Detto questo, la premessa è che in Italia siamo ancora lontani dal maturare un certo tipo di cultura, e questo vale in generale. Siamo nel Paese in cui – le rilevazioni degli ultimi mesi parlano chiaro – poco più del 20% delle abitazioni ha una connessione domestica a banda larga il che vuol dire circa 1/5 delle famiglie. Per inciso, il fatto che abbiano una connessione non implica che sappiano usare la rete o che la usino in modo interattivo. È un problema di crescita culturale. Siamo nel Paese in cui le norme sul lavoro impediscono il ricambio dei posti di lavoro. C’è poca mobilità, o meglio l’unica mobilità che c’è è quella dei giovani e coincide purtroppo con la precarietà. Abbiamo una Pubblica Amministrazione che probabilmente è la più vecchia d’Europa. Per la politica vale lo stesso discorso, anzi direi che tutto parte da lì: il fatto che ormai tutti i candidati premier dei diversi partiti vantino un blog personale sul quale arrivano decine di messaggi ogni giorno non significa che si siano disposti all’ascolto, più probabilmente hanno accolto questa dei blog come ulteriore occasione per allargare la propria platea elettorale, la corte a cui “fare discorsi” senza capire che non è importante quello che loro dicono alla gente su internet, ma quello che la gente dice di loro nella rete. Se questo approccio non c’è, da un punto di vista innanzitutto culturale, nei partiti, come può esserci nella Pubblica Amministrazione?

Ma in questa logica che senso ha un canale come WikiDemocracy?
Il presupposto è: politicamente il popolo della rete non esiste. Il fatto che un po’ di persone siano accomunate dall’interesse per la tecnologia e dal saper “abitare” internet non ne fa un gruppo omogeneo, con le stesse idee, al punto tale da poter costituire un partito. Restano comunque mille le cose che li dividono, perché è il nostro background culturale che ci distingue e fa di noi “identità”. La partecipazione politica in rete aggrega e crea identità persino meno delle grandi dimostrazioni di piazza del passato, quando ci si aggregava intorno a degli ideali e il set valoriale era incarnato in quello.
Quando abbiamo cominciato a lavorare su WikiDemocracy non pensavamo in termini elettorali, volevamo semplicemente fare un canale di produzione di contenuti da presentare ai partiti ed alle amministrazioni pubbliche. Premesso che ognuno ha i propri riferimenti valoriali, che il nostro è un sistema per cui nei partiti pochi decidono l’orientamento di tutto e che certi meccanismi demagogici, fatti di grandi proclami, rimangono sempre le logiche prevalenti, il problema che ci siamo posti è come promuovere il nuovo piuttosto che tutelare il vecchio. Non siamo i primi ad entrare in questa logica, anche politicamente qualcuno ci ha provato: nel passato governo hanno tentato di favorire la concorrenza, ma il vecchio (le “vecchie” lobby) ha prevalso. Quello che noi stiamo cercando di promuovere, di abilitare è “il nuovo” portato dai nuovi elettori, i giovani, le nuove piccole aziende (se è vero che l’ultima volta le elezioni sono state vinte per uno scarto di 25.000 voti, evidentemente anche i piccoli numeri contano) con i quali si può attivare un canale bidirezionale. In definitiva, non si può trovare il partito di Internet; sarà molto difficile trovare il partito nuovo (perché se pure un nuovo partito prendesse il 4% dei voti e ottenesse 2 senatori che peso complessivo nella politica di governo potrebbe mai avere?): l’unica soluzione è trovare un modo per portare questi contenuti, questo “incentivo del nuovo invece della tutela del vecchio” all’interno dei partiti.

Le aspettative quali sono?
Se mi si chiede: il Wiki è lo strumento in assoluto più facile per promuovere questo tipo di partecipazione? Forse no. Il wiki è un meccanismo che presenta regole di scrittura strutturate che devono essere imparate. È un po’ tecnicistico. D’altro canto farlo con un altro strumento, come può essere Socialtext magari più bello e certamente un po’ più facile da usare – avrebbe significato perdere tutta un’altra connotazione che è quella del contributo aperto, direi popolare, che connota e per il quale è conosciuto wikipedia.
Detto questo, l’aspettativa è, innanzitutto, che sempre più persone partecipino, leggano, imparino a contribuire. In questo senso stiamo avendo un riscontro significativo: a 10 giorni dall’apertura dei server, se oggi si digita WikiDemocracy su Google risultano quasi 8.000 riferimenti. Altro segnale che conferma le nostre aspettative è che oggi, senza alcuna azione di promozione da parte nostra, sul sito del Ministro Gentiloni il primo link è a WikiDemocracy. Altra grande aspettativa – e specifico che è un’aspettativa sul quando e come accadrà non sul se accadrà – è che l’attuale sistema politico capisca che questo canale certamente non è e neanche vuole essere l’unico luogo dove si parla di politica in rete, ma può essere sicuramente il momento in cui tutti i contributi riescono ad arrivare a sintesi per dare un contributo costruttivo ai politici. Oggi, con le elezioni sia politiche che amministrative così imminenti e un livello di penetrazione di WikiDemocracy ancora embrionale, è oggettivamente troppo presto per avere una grande aspettativa in questo senso. Ma in prospettiva, augurandoci di avere davanti almeno tre anni di continuità parlamentare e, quindi, tempo e modo per fare politica in rete, la discussione sarà sufficiente matura per argomentarla in proposte politiche concrete. D’altro canto la voglia di parlare c’è e se, come penso, tra tre anni avremo un 50% in più di strumenti per farlo, la Politica, le Amministrazioni non potranno più non curarsi di questa nuova componente elettorale che dialoga in rete.

Quindi lei ritiene che i giovani oggi hanno voglia di fare politica?
Mi chiedo se chi ha letto “La casta” si sia scandalizzato più per lo scandalo in sé o per invidia. C’è, a mio parere, un’etica di fondo da considerare: mi pare che viviamo, e siamo stati abituati a vivere, in un’economia delle conoscenze, piuttosto che in un’economia della conoscenza. La nostra percezione è che sia più importante conoscere le persone giuste e non conoscere, nel senso di imparare. L’idea di conoscenza come fattore abilitante di progresso oggi è presente solo tra le comunità degli extra comunitari, o degli immigrati in genere: chi viene dall’estero a lavorare in Italia, normalmente che arrivano da condizioni sociali ed economiche molto basse, vede nell’educazione e nell’istruzione, e quindi nella conoscenza con la A, un fattore di promozione sociale. Cosa che invece non è più nella percezione degli italiani. Alla luce di questa considerazione, le persone hanno voglia di fare politica? Secondo me si, facendo un’opportuna distinzione. All’interno di questa categoria di “interessati” alla politica io rintraccio due grandi corpi. Quello che punta all’economia delle conoscenze – le conoscenze che aiutano ad arrivare in alto, o quantomeno ad arrivare; l’altro, quello cui in qualche modo è precluso questo tipo di conoscenze, diciamo così, “abilitanti” e che inevitabilmente ha, nei confronti di questo sistema di relazioni, un moto di rigetto. Sono convinto che tolta quella fetta che ricerca il sistema di potere in quanto abilitatore di conoscenze, credo ci sia tanta gente che invece è interessata a fare politica nel senso di promozione di un nuovo ideale, nel senso che intendevo prima di promozione del nuovo piuttosto che di tutela del vecchio.

 

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