Città “resiliente”: dove la comunità (ri)costruisce il futuro

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A fronte della crescente percezione di rischi ambientali e terroristici, la resilient city sta rapidamente diventando the new smart city. Ecco perché la resilienza occupa il tavolo dei lavori di ICityLab (20-21 ottobre), la due giorni bolognese che FPA dedica alle città intelligenti e ai flussi di dati che le caratterizzano

7 Ottobre 2016

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Chiara Buongiovanni, FPA

Daniel Lerch, il responsabile editoriale del Post Carbon Institute, nel lavoro di Chiara Camponeschi, “Enabling City – Verso la resilienza di comunità”, sottolinea come per “Resilienza” possiamo intendere qualcosa in più della mera capacità di rinascere dopo un evento di forte rottura. In particolare, seguendo il suo ragionamento, consideriamo come in ambito scientifico la “resilienza” si riferisca a sistemi socio-ecologici (combinazione tra un ecosistema e il sistema umano che lo usa e che, usandolo, lo modifica) e sia definita da tre elementi specifici:

  • L’entità del cambiamento che il sistema può sopportare conservando sostanzialmente stessa funzione e struttura;
  • Il livello di auto-organizzazione di cui il sistema è capace;
  • La capacità di costruire e accrescere la propria capacità di apprendimento e adattamento.

Domandarci cosa succede quando applichiamo questo approccio al sistema complesso delle nostre città e – sottolineerei – dei nostri territori, mi sembra un ottimo punto di partenza per i lavori ormai imminenti di ICityLab 2016, la due giorni che FPA dedica il 20-21 ottobre alle città intelligenti e ai flussi di dati che le attraversano. In quest’ottica, lavorando nel contesto della smart city non possiamo ignorare la pervasività tecnologica che la caratterizza, secondo la definizione di smart city come sistema socio- tecnico.

La città resiliente: un sistema socio-eco-tecnico

Il primo punto da considerare è infatti l’”architettura” entro cui ci muoviamo. Come ben tracciato da Anna Berardi, nel suo articolo “La città come architettura dell’informazione ed esperienza” la smart city non è descritta esclusivamente dalla sua struttura fisica (la città di mattoni ed edifici per intenderci) ma anche e soprattutto da una struttura informativa che la pervade e che caratterizza “sia il tessuto urbano nel suo complesso, sia i singoli artefatti che al suo interno sono capaci di raccogliere, processare, mostrare trasmettere, ricevere, memorizzare e reagire all’informazione”. Il secondo punto su cui soffermarsi è la componente sociale, ovvero chi questa architettura la abita, la alimenta, la programma e ne utilizza le elaborazioni sempre più in tempo reale. Qui ci ricongiungiamo al ragionamento di Lerch, laddove sottolinea che “se il sistema che stiamo considerando è una foresta della fascia climatica temperata, funzione e struttura sono entrambe chiare e ben note, ma la questione cambia se il sistema che consideriamo è una comunità di 500.000 persone. A differenza della foresta la comunità può decidere quale potrebbe essere la sua struttura e la sua funzione, ha capacità di previsione rispetto a cosa potrebbe accadere in futuro e, dunque, può pianificare struttura e funzione di conseguenza”.

E pone la domanda con la “D” maiuscola: “Come le comunità possono effettivamente portare a termine questo enorme compito, che rappresenta la grande questione del XXI secolo?”

Da qui partono probabilmente diversi filoni di lavoro, tra loro interconnessi:

  • Quali sono le soluzioni disponibili?
  • Come si stanno organizzando le comunità e in particolare le città italiane?
  • Quali modelli di governance si stanno sperimentando?
  • Come sono abilitati e assicurati processi di apprendimento continuo nella città resiliente?

La resilienza collaborativa

Dalla riflessione a “più voci” proposta da Chiara Camponeschi emerge che “una città in buona salute e resiliente è una città dove infrastruttura, architettura e servizi sono sviluppati per rispondere ai bisogni di tutti, in particolare dei gruppi più vulnerabili, e dove le opportunità sono equamente distribuite secondo modalità rispettose dell’ambiente”. Principali elementi in gioco: sistemi e agenti sociali. Nei sistemi rientrano: l’ambiente naturale, l’infrastruttura fisica, le istituzioni sociali e la conoscenza dei luoghi. Gli agenti sono invece gli attori che danno forma ai sistemi: individui, famiglie, aziende private e organizzazioni della società civile. In questo contesto, una strategia completa di resilienza è una strategia che adotta un approccio collaborativo, adatto a guidare e sostenere le forze del sistema e degli agenti sociali”. E qui si aprono spazi di lavoro sul secondo e terzo elemento dei sistemi resilienti: capacità di auto-organizzazione e capacità di apprendimento e adattamento.

I dati al centro: questioni di governance

Anche se non esplicito, è evidente che parlare di città resiliente nell’ottica smart city, non può prescindere dalla materia prima della stessa smart city: i dati, in termini di opportunità ma anche di criticità. Bene richiamare, infatti, l’approccio della sentient city per cui in nessun caso i flussi di dati generati nella smart city sono il risultato di un processo oggettivo di raccolta e accumulazione di fatti. La decisione che riguarda quali dati raccogliere, quali ignorare e come classificarli è infatti una scelta molto politica come lo è il processo di interpretazione dei dati generati dalla sentient city attraverso algoritmi. Si tratta di un processo altamente normativo, dove valori soggettivi, norme legali e relazioni di potere sono trasformate in codici software in base ai quali la tecnologia decide, agisce e discrimina.

Dalle esperienze bottom up di mapping collaborativo agli elaboratissimi cruscotti di monitoraggio continuo, il dato continua ad essere nel vero senso del termine l’elemento critico della resilient smart city. “E’ evidente – sostiene Lerch – che non stiamo parlando solo di strumenti divertenti e interessanti per la sostenibilità urbana: si tratta piuttosto di elementi critici per la resilienza delle comunità”. E’ in parte quello che il gruppo di ricerca di Carlo Giovannella, Presidente Association for Smart Learning Ecosystems and Regional Development, identifica come la vera grande sfida: l’apprendimento continuo della città intelligenti che, nella sua lettura, non può che venire dall’integrazione tra una visione funzionalista top-down con una visione bottom–up, basata su processi di design che partano dalla persona e dal contesto di riferimento (person centered in place design). Si tratta quindi di abilitare, in ambito urbano, una possente combinazione di apprendimento formale e informale.

Dati bene comune
In quest’ottica i dati non possono che essere aperti e non possono che essere considerati un bene comune. Qui ci ritorna in aiuto il gruppo di ricerca sulla Social City di de Waal quando spiega che considerare l’ingente mole di dati su processi e pratiche urbane, generati dalle tecnologie intelligenti e dalle reti urbane, come bene comune significa considerarla non solo base per costruire nuovi servizi e infrastrutture ma anche oggetto di valutazione su come questi dataset possano essere utilizzati per portare alla luce, visualizzare e da qui gestire questioni sociali di interesse collettivo.

E’ quanto ben scritto nella presentazione di OpenCrisis, la data repository dell’International Network of Crisis Mappers – la più grande e la più attiva comunità internazionale di esperti, professionisti, policymaker, tecnici, ricercatori, giornalisti, studiosi, hacker e volontari qualificati impegnati sulle emergenze umanitarie. “Crisimapping non è mai stato solo una questione di Twitter feed ma è sempre stata una questione di dati”.

La domanda successiva che i CrisisMappers si pongono è: “Quali dati?”. Per poi chiedersi: “Come facciamo a sapere cosa è utile?”. Interessante a questo proposito la recentissima esperienza Terremoto Centro Italia, iniziativa nata sotto il coordinamento di ActionAid Italia all’indomani del terremoto di Amatrice dello scorso agosto.

Partire dalla comunità e tornare alla comunità forse è la strada.



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