Le emergenze al tempo dei social network: quando l’allerta viaggia in rete

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È stata la tragica alluvione che ha colpito Genova dieci giorni fa ad accendere i riflettori, come mai era avvenuto nel nostro Paese, sul ruolo che la rete può ricoprire in una situazione di emergenza. Ma in Italia i tempi sono maturi per un utilizzo del web 2.0 e dei social network in situazioni di crisi? Ne abbiamo parlato con Elena Rapisardi, che dal 2005 si occupa di Comunicazione in Protezione Civile ed Emergency Management e, in particolare, di progetti per un utilizzo ad ampio raggio del web 2.0 in emergenza, e che è tra gli organizzatori del primo Crisis Camp Italy, in programma a Bologna il prossimo 19 novembre.

14 Novembre 2011

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Michela Stentella

È stata la tragica alluvione che ha colpito Genova dieci giorni fa ad accendere i riflettori, come mai era avvenuto nel nostro Paese, sul ruolo che la rete può ricoprire in una situazione di emergenza. Ma in Italia i tempi sono maturi per un utilizzo del web 2.0 e dei social network in situazioni di crisi? Ne abbiamo parlato con Elena Rapisardi, che dal 2005 si occupa di Comunicazione in Protezione Civile ed Emergency Management e, in particolare, di progetti per un utilizzo ad ampio raggio del web 2.0 in emergenza, e che è tra gli organizzatori del primo Crisis Camp Italy, in programma a Bologna il prossimo 19 novembre.

È stata la tragica alluvione che ha colpito Genova dieci giorni fa ad accendere i riflettori, come mai era avvenuto in Italia, sul ruolo che la rete può ricoprire in una situazione di emergenza come quella vissuta il 4 novembre scorso e anche nei giorni a seguire. Fin dalle prime ore, infatti, si è attivata attraverso i principali social network una grande partecipazione con l’obiettivo di informare su quello che stava accadendo (ormai famosissimo il video postato su youreporter.it da una ragazza che riprende dalla finestra di casa l’invasione di acqua nelle strade della città, video rilanciato dai principali mezzi di informazione) e, soprattutto, di diffondere informazioni di pubblica utilità: messaggi di allerta, indicazioni ai cittadini delle zone coinvolte sulle azioni da compiere o non compiere, segnalazioni di numeri utili da contattare e così via.

Migliaia, in particolare, i messaggi postati su twitter, dove gli utenti si sono accordati su quale hashtag utilizzare (#allertameteoLG) e hanno così potuto raccogliere tutte le segnalazioni sull’emergenza in un’unica pagina. Nella stessa giornata è nata su facebook la pagina "Angeli con il fango sulle magliette" per organizzare la mobilitazione spontanea dei volontari che volevano andare a dare una mano nelle zone più colpite. Così la racconta Repubblica.it.

E ancora, è on line una crowdmap realizzata con la piattaforma Ushahidi per raccogliere le segnalazioni dei danni causati dalle alluvioni in Liguria e Toscana. La mappa è un’iniziativa del Dipartimento di Scienze della Terra e di NatRisk – Centro interdipartimentale sui rischi naturali dell’Università di Torino, in collaborazione con il quotidiano Il Tirreno e Repubblica Genova. L’obiettivo è raccogliere informazioni (anche foto e video) dai cittadini via web, mail e twitter, per poi elaborare i dati ai fini della prevenzione del rischio idrogeologico. Qui una presentazione dettagliata dell’iniziativa, in cui si mette in evidenza come grazie a questo nuovo modello di interazione diretta “il cittadino, attraverso i media, è chiamato a collaborare con la comunità scientifica per finalità di studio e analisi, mettendo a disposizione i propri materiali di documentazione. Un po’ come si fa per la raccolta dei dati macrosisimici, ma che in questo caso si avvale di uno strumento web che permette di raccogliere informazioni "visive" e georefenziate, anche dal canale social media".

Naturalmente la risposta della rete agli eventi di Genova ha fatto nascere anche molte domande su opportunità e limiti che questo tipo di partecipazione porta con sé. Alcuni dei problemi sollevati non sono certo inediti, come la possibilità che la rete rilanci e diffonda notizie fuorvianti o iniziative che, in momenti tanto critici, possono generare panico o essere addirittura di intralcio ai soccorsi. Altre questioni sono un po’ più articolate, anche se collegate alla prima, e sollevano il problema della capacità che le nostre amministrazioni hanno di utilizzare questi mezzi per comunicare. A questo proposito, un’analisi abbastanza critica della situazione nella PA italiana viene fatta in questo articolo pubblicato l’8 novembre scorso sul giornale Il Tirreno; nell’articolo, come contraltare positivo a livello internazionale, viene citato il National Hurricane Center della Florida che segue costantemente su twitter l’evolversi delle tempeste atlantiche.

In Italia, quindi, qual è l’approccio al web 2.0 per la gestione delle emergenze? Cosa dovrebbero fare le nostre amministrazioni per inserirsi in questi nuovi flussi di comunicazione?

Ne abbiamo parlato con Elena Rapisardi, che dal 2005 si occupa di Comunicazione in Protezione Civile ed Emergency Management e, in particolare, di progetti per un utilizzo ad ampio raggio del web 2.0 in emergenza. Nel gennaio 2010 ha dato il via, insieme a Giovanni Lotto, al progetto "Open Foreste Italiane" (ne avevamo già accennato in questo articolo); attualmente collabora con il Centro Intercomunale di Protezione Civile Colline Marittime e Bassa Val di Cecina – Provincia di Pisa e Livorno, con cui ha realizzato il progetto pilota Sala Operativa 2.0. Sta collaborando proprio alla crowdmap per raccogliere le segnalazioni dei danni causati dalle alluvioni in Liguria e Toscana ed è tra i promotori del primo Crisis Camp Italy in programma a Bologna il prossimo 19 novembre.

Cosa significa applicare le nuove tecnologie e utilizzare gli strumenti del web 2.0 per comunicare e gestire le crisi e le emergenze?

Il termine crisi può avere molti significati: crisi umanitaria, guerra, diritti politici o civili negati; oppure crisi nel senso di emergenze che hanno a che fare con rischi naturali o antropici (terremoti, incendi, alluvioni), quindi tutta la parte che in un paese europeo viene presidiata dalla protezione civile. È questo l’aspetto che più ci interessa in Italia. E in ogni emergenza c’è un problema di gestione dell’informazione, intesa non solo come l’informazione  prodotta dagli organi di stampa o dai social media, ma anche come l’informazione che deve essere condivisa tra gli operatori (protezione civile, vigili del fuoco, strutture di soccorso) e che non sempre riesce ad essere trasmessa in modo fluido. Gli operatori, quindi, incontrano difficoltà proprio nella gestione di questo aspetto collaborativo, che è invece fondamentale per la loro azione. Ecco allora che entra in scena la rete. Oggi il web è prima di tutto una piattaforma di condivisione e di collaborazione. Se io sono in un luogo e voglio far sapere a qualcuno che è distante quello che sta succedendo, ad esempio che c’è un principio di incendio, fino a un po’ di tempo fa potevo usare solo il telefono. Ora invece posso scattare una foto, fare una videochiamata, georeferenziare queste informazioni e, con uno smartphone e dei semplici programmi free, posso condividerle ed essere molto più preciso di quanto non sarei “a voce” nel dettagliare quello che sto vedendo e nel dire dove mi trovo. In emergenza, quindi, il web può fare la differenza nel flusso di comunicazione tra gli operatori e, inoltre, consente anche un flusso di informazione tra questi e i cittadini che possono sia fare segnalazioni che riceverne. Si crea così il fenomeno chiamato “citizens as sensors”: i cittadini possono diventare sensori sul territorio. Se io ho dei “contributori” affidabili, ho un valore aggiunto insostituibile: le informazioni che provengono dai cittadini sono in tempo reale e non sarebbe possibile, altrimenti, avere così tante persone che monitorano il territorio in maniera capillare.

E’ un po’ quello che è successo a Genova nei giorni dell’alluvione, in particolare con l’utilizzo di twitter. Cosa ci ha insegnato questa esperienza? Cosa ha funzionato e cosa no nella comunicazione 2.0 di quell’emergenza?

In quell’occasione io sono stata circa dieci ore su twitter e la cosa davvero interessante che è emersa da quell’esperienza è la grande responsabilità che le persone hanno dimostrato riguardo i messaggi che mettevano in rete. Ad esempio, spesso qualcuno chiedeva di non replicare “tweet vecchi” o di mettere il link alla fonte delle notizie; o ancora, in molti abbiamo scritto più volte a Rai news e al Comune di Genova dicendo di usare l’hashtag. Essere sui social media significa partecipare a queste discussioni e se un’istituzione come il comune di Genova è su twitter, ma non usa l’hashtag allora la sua informazione non funziona. Oggi non si può più negare l’importanza della rete e gli operatori e le amministrazioni devono entrare in questo flusso e costruire man mano una loro reputation. L’aspetto principale è proprio questo: non è possibile inserirsi in questo flusso solo nel momento in cui scatta un’emergenza, bisogna esserci già da prima. Solo così è possibile erogare correttamente informazioni attraverso questi canali e anche fare da catalizzatore per le informazioni che arrivano dai cittadini. Il mio grande sogno è stabilire un elenco condiviso degli hashtag da usare in caso di emergenza. Perché non ragioniamo su questo? Coinvolgiamo chi si occupa di emergenze sul territorio e chi si occupa di web semantico, magari stabiliamo un prontuario che faciliterà una comunicazione corretta e condivisa in caso, ad esempio, di disastro naturale.

In Italia i tempi sono maturi per un utilizzo del web 2.0 in emergenza?

La mia opinione personale è che anche se in Italia c’è ormai una buona diffusione di internet – il 70% delle persone hanno accesso a internet e di queste il 13% accede anche via mobile – a scarseggiare ancora è l’alfabetizzazione al web. Naturalmente per tutti i cambiamenti culturali ci vuole tempo, l’apprendimento è una barriera molto forte. Tutti pensano che dove c’è la tecnologia le cose devono essere fatte con un click, quando si pensa alle tecnologie si pensa all’automazione, ma la tecnologia è un’altra cosa, è necessario imparare percorsi e modalità diverse di linguaggio. Le persone più sensibili a questi temi devono fare raising awareness, aumentare la consapevolezza. Dobbiamo in qualche modo far capire anche alle amministrazioni che questi strumenti vanno conosciuti e adottati non solo perché sono innovativi, ma perché sono utili. Basterebbe applicare strumenti semplici e a disposizione di tutti per fare già un grande passo avanti: per esempio, nella maggior parte dei siti pubblici manca la funzione rss. Se io voglio essere sempre aggiornato sull’allerta meteo nella mia provincia, non posso essere costretto a controllare tutti i giorni il sito web; sarei invece molto agevolato se potessi settare l’aggiornamento rss o chiedere gli aggiornamenti via email. O ancora, il Comune di Roma potrebbe segnalare ai suoi followers su twitter quali hashtag userà in caso di problemi di traffico o altre emergenze e, in teoria, questo tipo di tweet che arriva da una fonte accreditata potrebbe essere trasformato in un alert. Cosa che tecnologicamente non è difficile. Bisogna stabilire dei criteri, delle linee guida. Questo nuovo canale di comunicazione è più complesso rispetto ai canali tradizionali, quindi la mia idea è: riuniamoci, cerchiamo di capire esigenze e opportunità e proviamo a sensibilizzare operatori e pubblica amministrazione.

È quello che si cercherà di fare anche al prossimo Crisis Camp a Bologna?

Il Crisis Camp Italy/Europe di Bologna segue le analoghe esperienze di Londra e Parigi. Proprio al Camp di Parigi, nel maggio scorso, ho incontrato altri due italiani, Marco Boscolo e Francesco Ciriaci, e parlando con gli organizzatori, Heather Blanchard di Crisis Commons e Anahi Ayala Iacucci di Ushahidi, ci venne l’idea di portare la stessa iniziativa anche in Italia. Abbiamo lanciato delle tematiche che riteniamo importanti e di interesse per vari gruppi di persone. Vogliamo coinvolgere gli operatori di protezione civile, ma anche i cittadini, la comunità scientifica e i giornalisti, insomma tutti gli attori interessati al tema, perché ognuno può contribuire. Alcuni partecipanti si sono proposti per fare una sorta di speach e stimolare così la discussione all’interno dei vari gruppi di lavoro che si formeranno. Poi, nella seconda parte della giornata, ci sarà una riunione plenaria per raccontare cosa è emerso all’interno dei diversi workshop. Insomma, il Crisis Camp è un modo per incontrarsi, per fare rete come si usa dire, tra le persone che si occupano di tecnologia applicata alle crisi.  

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