Perché abbiamo bisogno di un programma Open Data nazionale

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Un “Programma Open Data Nazionale” andrebbe nella direzione di dare indicazioni precise agli enti locali su cosa pubblicare e come. Solo così si evita il rischio di pubblicare dati come attività spot

15 Luglio 2016

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Vincenzo Patruno, Stati Generali dell'Innovazione

Credo sia arrivato il momento di cominciare a porci qualche domanda un po’ più seria a riguardo degli Open Data. La prima domanda che ci dobbiamo tutti porre è se le varie iniziative Open Data stanno effettivamente producendo degli effetti concreti di qualche tipo. Abbiamo ad esempio sempre supposto che gli Open Data potessero in qualche modo essere un elemento per contrastare corruzione e malaffare. È davvero così? Possiamo dire che da quando abbiamo cominciato a introdurre gli Open Data in Italia ci sia stato un ridimensionamento del malaffare della corruzione?

E che dire a proposito dell’impatto economico? Abbiamo sostenuto che gli Open Data fossero la nuova materia prima, il nuovo petrolio per generare servizi a valore aggiunto sui dati. E’ veramente così? E che dire del controllo sociale delle politiche pubbliche, del monitoraggio dell’azione e delle policy della Pubblica Amministrazione, dell’accountability e della possibilità che attraverso i dati potesse essere ridisegnato il rapporto tra cittadini e Stato?

Quello che di sicuro possiamo dire è che dopo 6 anni da quando abbiamo introdotto l’idea che fare Open Data fosse cosa buona e giusta, delle cose di cui vi ho appena parlato se ne sono viste molto poche. E voglio essere buono e generoso.

Di certo non aiuta il fatto che negli ultimi tempi si è banalizzato di molto l’idea stessa di Open Data. Abbiamo diluito gli Open Data nella loro narrazione e fare Open Data è diventato sempre più spesso più un modo per ritagliarsi uno spicchio di visibilità sul mondo dell’innovazione che per farla sul serio. E va detto che questo è accaduto specialmente negli enti locali. La banalizzazione degli Open Data sta facendo in modo che l’idea che “sta passando” è quella secondo cui Open Data sono i dati sui tombini o gli elenchi delle farmacie o dei musei. Ma è la stessa cosa che guardare il dito anzichè la luna.

Quello che serve è riappropriarsi di una “vision” su Open Data. Serve capire che Open Data non è il numero di dataset che vengono pubblicati da un ente, ma è essenzialmente l’impatto sociale ed economico che questi dati possono e riescono a generare. Se non c’è nessun impatto, allora probabilmente serve rivedere profondamente quanto fatto e come. Se non c’è nessun impatto, allora Open Data diventerà sempre più simile a “una città fantasma di portali obsoleti e applicazioni abbandonate” , come ammonisce l’ultima edizione dell’Open Data Barometer (http://opendatabarometer.org/)

Ma veniamo a noi e al titolo di questo articolo. Partiamo dal fatto che tutte le iniziative Open Data che sono state messe in campo fino ad ora dalle varie Pubbliche Amministrazioni sono state condotte da queste in modo del tutto autonomo. Questo fatto non solo ha generato ad oggi un totale di oltre 26000 dataset disponibili come Open Data, ma li ha generati in modo arbitrario e confuso. La conseguenza è che diventa difficilissimo se non impossibile ricomporli in qualche modo. Ora, una delle cose fondamentali da poter fare con i dati è quella di “metterli assieme” e una delle “dimensioni” essenziali con cui i dati possono essere messi assieme è quella relativa al territorio.

Un dato disponibile per un comune è utile solo per quel comune. Lo stesso dato disponibile per ampie porzioni di territorio diventa un dato che vede amplificate le proprie potenzialità di riuso. Avere lo stesso dato per ampie porzioni di territorio significa avere una massa critica di dati tale da poter giustificare investimenti ad esempio per generare servizi sui dati. Pensiamo ad esempio alla infomobilità e alla differenza che c’è tra l’avere i dati dei trasporti di un singolo comune e quelli del trasporto integrato di una intera area metropolitana o di tutta una regione o meglio ancora di tutta Italia. La fase di integrazione di dati, sempre più spesso fatta da soggetti terzi (data broker) diventa un passaggio essenziale nella catena di valore del dato e ha l’obiettivo di generare dataset ad alta potenzialità su cui andare a generare servizi al cittadino, sistemi di supporto alle decisioni, monitoraggio delle policy e così via. Ovvero tutte quelle cose di cui abbiamo parlato all’inizio dell’articolo. E’ quello che accade ad esempio quando proprio sui trasporti andiamo a “regalare” i dati a transit.land o a moovit, che fanno data broking a livello mondiale proprio sui dati dei trasporti.

E se il problema della copertura territoriale del dato riguarda solo marginalmente la Pubblica Amministrazione centrale che pubblica per definizione dati con copertura nazionale, lo stesso non si può dire degli Enti Locali. Buona parte dei 26000 dataset sono infatti generati da Enti Locali che, agendo autonomamente hanno prodotto una quantità di dati che nella migliore delle ipotesi, e cioè quando lo stesso dato è disponibile per territori diversi, si fa molta fatica a mettere assieme a causa della quanto meno diversa struttura del dataset.

Un “Programma Open Data Nazionale” che possiamo immaginare triennale con revisione annuale andrebbe nella direzione di dare indicazioni precise agli enti locali su cosa pubblicare e come. Da una parte c’è infatti la necessità di avere lo stesso dataset prodotto da soggetti analoghi per territori diversi. Dall’altra anche la possibilità di “spingere” su dataset contenenti dati “veri” che abbiano possibilità concrete di riuso. Va detto infatti che si è visto come le varie iniziative Open Data tendono a rendere pubblici dati per lo più “innocui”, come appunto i tombini e le farmacie, anziché dati che possano generare effetti concreti per i cittadini, per le stesse Pubbliche Amministrazioni e per il mercato.

Poter guidare attraverso un programma nazionale il rilascio di quantomeno di una parte di dataset ritenuti “strategici” indicando come questi dataset devono essere strutturati e aggiungo anche con quale frequenza vanno aggiornati, andrebbe nella direzione di “armonizzare” la produzione di Open Data o di una parte significativa di essi da parte dei tanti Enti Locali che stanno dedicando risorse alle proprie iniziative Open Data. Non solo Enti locali però. Il Programma Open Data Nazionale sarebbe anche l’occasione per rivedere il ruolo e gli impegni della pubblica amministrazione centrale nel rilascio costante di nuovi dati e di aggiornamento di quelli già pubblicati. Il rischio è infatti che pubblicare dati venga visto come una attività spot. Fatta una volta si può stare tranquilli per un po’. Magari per sempre. Mentre invece la produzione e il rilascio di dati aperti deve diventare una attività strutturale e costante di tutta la Pubblica Amministrazione.

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