La soluzione migliore al problema abitativo dei pazienti con disturbo mentale grave è una formula flessibile che preveda ad un certo stadio del decorso la possibilità di tornare a vivere in maniera indipendente, secondo quelle che sono le preferenze dei singoli. In questo modo i pazienti possono passare dalle strutture residenziali istituzionali con assistenza continua, a strutture in cui vivere in maniera autonoma, purché si rispettino determinati criteri, con la garanzia di un’assistenza “a chiamata”.
Questa la soluzione illustrata da Antonio Maone, secondo un modello già divenuta best practice negli Stati Uniti ed in Canada. che la considera come base dell’empowerment, ossia della restituzione del potere al paziente. Vivere a casa proprio è dunque un potente impulso al recovery e all’inclusione sociale, un modo per restituire al paziente il radicamento ad un pezzo territorio cui appartenere e per permettere ai servizi di negoziare l’assistenza.
In Italia il modello prevalente è invece oggi quello delle strutture residenziali, dove vivere per 24 ore al giorno per tempi prolungati, che si aggirano sulle 25mila unità. Il problema è che spesso diventano case per la vita e quindi segreganti, i dati parlano infatti di poche dimissioni considerando che non esistono soluzioni alternative. Così come si è dimostrato fallimentare, anche per i costi, il paradigma che prevede il passaggio da strutture con residenza di 24 ore a strutture transitorie di 12, quindi di 6 e così via. Il paziente, infatti, risulta comunque obbligato a un percorso in cui elementi fissi sono le collocazioni spaziali delle strutture.