Il fenomeno della sharing economy, la svolta con modelli di business sostenibili

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Cosa vorrebbe dal nuovo governo Davide Pellegrini, Presidente dell’Associazione Italiana Sharing Economy

14 Febbraio 2018

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Patrizia Fortunato

La sharing economy in Italia è un settore ancora in divenire, si parla di piccole realtà, piattaforme che esprimono ancora numeri di mercato piuttosto esigui. Questa la premessa di Davide Pellegrini*, presidente dell’Associazione Italiana Sharing Economy. Eppure le piattaforme collaborative dovrebbero suscitare interesse nella PA e in particolare negli enti locali, favoriti dalla Riforma Delrio che consolida la cultura della condivisione di funzioni e servizi nella pubblica amministrazione. A Pellegrini abbiamo chiesto di indicarci lo stato dell’arte del fenomeno e le proposte da restituire al prossimo Governo.

Cosa riprendere e sviluppare: l’eccellenza locale come valido strumento al servizio delle comunità
“Dal disegno di legge proposto all’Intergruppo Parlamentare per l’Innovazione Tecnologica nel 2016 ad oggi non sono stati fatti passi aventi così evidenti. La sharing economy è ancora in una fase sperimentale, mentre l’ambito che sta crescendo di più senza dubbio è quello dell’innovazione sociale, cioè tutte quelle realtà che più che orientarsi al mercato lavorano sulle reti di relazioni, quale valore aggiunto della filiera produttiva. Quello che nel nostro paese dovrebbe essere il punto di osservazione principale non è il potenziale di mercato, ma la ricomposizione di un tessuto sociale che sia in grado di agire laddove le pubbliche amministrazioni e gli enti locali ormai faticano a garantire dei servizi. In Italia la sharing economy si riaggancia al genius loci, opera su scala ridotta. In questo momento vedo molto forte l’interesse delle piattaforme a operare su scala locale, con servizi di comunità urbane e stretti rapporti con decisori sia pubblici che privati, in grado di sostenere le imprese con donazioni e finanziamenti. Vedo meno opportunità per piattaforme in grado di operare su scala nazionale e internazionale sul modello Airbnb. Sono realtà di altro tipo, hanno capitali di altro genere. Se dovessimo pensare al fenomeno sharing economy, così come viene presentato letterariamente Uber, Airbnb o altro, sembra improbabile che in Italia si realizzino le condizioni per attività di questo tipo.
Abbiamo un’urgenza da mettere a regime. Concentriamoci di più sul tessuto sociale da riqualificare e sulla necessità di mettere in produzione tutto l’indotto che può venire dalla creazione di comunità. Oggi si sta guardando ad altre soluzioni di tipo giuridico come le piattaforme collaborative, dove il design dei servizi è sempre più mirato, customizzato, personalizzato ed efficace”.

Cosa abbandonare: l’estetica delle startup
“Dal punto di vista normativo stiamo vivendo una dicotomia complicata: da un lato c’è l’estetica delle sturtup; dall’altro siamo condannati a un micronanismo di impresa che non permette la crescita dell’ecosistema dell’innovazione. Ci sono troppi nodi, troppe difficoltà. Abbiamo anche un’arretratezza del paese che allo stato attuale non sta permettendo il decollo del fenomeno. La parte matura della sharing economy la vedremo nei prossimi anni, soprattutto rispetto a quelle che sono le piattaforme di nuova generazione, cooperative allargate dove i lavoratori diventano proprietari dell’impresa. La sharing economy deve poter crescere con solidità e non esprimere i numeri di duecento piattaforme fatte da due persone, con tremila utenti dopo tre anni di esistenza: questi sono numeri che non giustificano probabilmente il potenziale del fenomeno. L’elemento prioritario è quello di razionalizzare il settore della selezione, tutoraggio e avviamento di nuove imprese. Occorrerebbe puntare su un numero minore di imprese, meno premi, meno incubatori e lavorare meglio sugli strumenti in grado di disegnare, nel modo più sofisticato ed efficace possibile, le idee che vengono presentate. Incubatori, acceleratori, premi: questi meccanismi servono più a nutrire i circuiti che le startup. Più che inseguirlo come un fenomeno notiziabile e di successo dal punto di vista delle mode, dovrebbe diventare un obiettivo perseguibile dal punto di vista della riqualificazione sociale o del sostegno a supporto di nuovi modi di lavorare, di nuove catene di produzione possibili e sostenibili”.

Cosa vorrei per il 2018: business model sostenibili e strumenti finanziari ad hoc
“Partirei dal presupposto di una maggiore capacità di selezione delle idee di impresa, dovremmo puntare a sostenere quelle realtà che hanno un business model sostenibile, scalabile dal punto di vista della crescita. Un percorso sicuramente è quello di avere un maggiore ascolto e un maggiore interesse da parte di tutte quelle realtà, Fondazioni, piuttosto che imprese private, che abbiano capitali e voglia di investire nella sharing economy. Il fenomeno probabilmente è messo sottopressione più da un punto di vista fiscale ed economico. C’è un intervento da fare di tipo normativo sulla defiscalizzazione, sull’alleggerimento degli oneri normativi e sulla definizione corretta delle configurazioni giuridiche delle piattaforme, c’è il discorso di costruire strumenti ad hoc per le imprese che realmente stiano cercando di crescere, quindi strumenti di venture capital. Ci sono interventi di tipo culturale, occorre preparare le persone e avvicinarle al fenomeno. Il nostro resta, comunque, un paese che sta subendo un processo repentino di invecchiamento. Sono tanti gli interventi da fare e che andrebbero fatti, la strada è piuttosto lunga anche dal punto di vista digitale”.


*Cultural manager ed esperto di economia digitale, collabora con PA, Fondazioni, Università e Imprese per la formazione e per lo sviluppo di progetti d’innovazione. Ha fondato Lateral Training per il coaching manageriale, The Next Stop per il management della cultura e dell’innovazione e Smart, ciclo di workshop sul tema della sharing economy e della smart cuture

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