​Novità, luci e ombre del nuovo decreto sulla dirigenza pubblica ora in Parlamento

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A fine agosto l’atteso decreto legislativo sulla dirigenza, figlio della legge delega della riforma Madia, è stato approvato in via preliminare dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e in questi giorni è stato trasmesso alle Camere. Si tratta di un provvedimento di primaria importanza perché sulla qualità dei dirigenti pubblici si gioca il successo di tutto il complesso ed ambizioso piano di riforma delle amministrazioni, ma anche probabilmente le sorti stesse della ripresa del Paese.

13 Settembre 2016

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Carlo Mochi Sismondi

A fine agosto l’atteso decreto legislativo sulla dirigenza, figlio della legge delega della riforma Madia, è stato approvato in via preliminare dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e in questi giorni è stato trasmesso alle Camere. Si tratta di un provvedimento di primaria importanza perché sulla qualità dei dirigenti pubblici si gioca il successo di tutto il complesso ed ambizioso piano di riforma delle amministrazioni, ma anche probabilmente le sorti stesse della ripresa del Paese. Proviamo quindi a guardare a questo testo così come ora lo leggiamo, sapendo bene che i passaggi parlamentari e i pareri degli Organi costituzionali e della Conferenza delle Regioni potrebbero indurre a modifiche anche sostanziali.

Prima di parlare però del decreto diamo un’occhiata ai fatti e ai numeri: in Italia ci sono circa 54mila dirigenti pubblici (oltre a circa 10mila equiparati nella magistratura con un inquadramento e una funzione peculiare e a circa 13mila professori di ruolo delle università che possiamo equiparare come status, ma non certo come contratti e ruolo) a cui spesso si sommano, con un’operazione scorretta, i quasi 113mila dirigenti medici che, per un’anomalia tutta italiana, sono chiamati dirigenti anche se non dirigono alcunché. Di questi circa il 58% è composto da uomini, percentuale che sale al 68% tra i dirigenti di prima fascia. L’età media (Forze armate e forze di polizia escluse) è di circa 55 anni. Giovani? Pochissimi: su circa 2800 dirigenti dei Ministeri, ad esempio, solo 32 hanno meno di 35 anni! Ad oggi, prima dell’entrata in vigore della riforma Madia, ci sono oltre trenta contratti diversi, tra piccoli e grandi, con differenze stipendiali di tre o quattro volte ad es. tra un dirigente di seconda fascia della PCM e un dirigente di seconda fascia delle professioni sanitarie. La giungla retributiva e contrattuale è tale, ad oggi, che anche solo un catalogo ordinato appare un’impresa impossibile. I concorsi dovrebbero essere la norma, ma in effetti ancora una fetta importante di neo-dirigenti arriva per altre strade (ad es. nelle regioni e negli EL nel 2014, ultimo anno di rilevazione completa, sono entrati 441 dirigenti, ma solo 110 per concorso e 70 da altre amministrazioni, mentre i rimanenti sono stati assunti per vie diverse). Il corso-concorso, che pure la riforma Madia indica al primo posto nelle modalità di accesso, si è svolto sino ad ora a cadenze irregolari, ma comunque pluriennali e con numeri risibili rispetto al numero totale dei dirigenti: l’ultimo corso-concorso, il sesto, è stato bandito per 32 posti (!) nel 2012, il precedente, bandito all’inizio del 2011 era per 146 allievi. Il settimo corso-concorso non è stato ancora bandito, nelle more dell’approvazione della riforma. Un calcolo approssimato parla di un‘uscita di circa 2.500/3.000 dirigenti l’anno, considerando che circa il 20% (pari a circa 10 mila dirigenti) è nella fascia di età tra i 61 e i 65 anni. Anche ammettendo una sostituzione parziale non saranno certo i corsi-concorsi come sino ad ora li abbiamo visti che ci aiuteranno ad assumere i migliori.

Questo è lo stato dell’arte che tutti dovremmo conoscere e tenere a mente quando parliamo di riforma, per aver ben presente la sua necessità, la sua urgenza, ma anche la sua estrema difficoltà. Non che non siano stati fatti tentativi di cambiare la dirigenza pubblica, anzi quasi tutti i ministri succedutisi almeno negli ultimi trent’anni ci hanno almeno provato a cominciare da Cassese, ma né la riforma Bassanini, che per prima introduceva il ruolo unico e che fu soppressa in culla dal successivo governo, né i successivi sforzi di Brunetta che, con una legge (il d.lgs.150/2009) tanto coraggiosa quanto inapplicata, ripensava il ruolo della dirigenza in un’ottica di responsabilità e valutazione delle performance, né infine i successivi tentativi di riordino hanno sortito effetti sistemici, duraturi nel tempo e in grado di cambiare il quadro di riferimento in cui la dirigenza pubblica, non peggiore né migliore in sé di quella privata, si muove. A questi successivi fallimenti si è poi aggiunto, ad aggravare ulteriormente lo scenario, una sostanziale e permanente sfiducia bilaterale aggravatesi con questo Governo: la politica, tornata ormai ad un’epoca di “eroico” (in senso younghiano) decisionismo, non si fida dei suoi dirigenti che vede come freni alla sua azione che altrimenti sarebbe ben più coraggiosa e veloce; la dirigenza pubblica, accusata a ogni piè sospinto di essere una lobby di fannulloni, non si fida della politica che vede come pericolosi pirati che, senza rispetto delle regole, infiltrano o cassano persone e inanellano provvedimenti per loro interesse personale o elettorale. La ciliegina su questa poco invitante torta è il clima giustizialista e giacobino che, sfruttando il mal di pancia grave del Paese e usando qualche bau bau, come l’evocazione dell’ANAC, con il suo mitico eroe Cantone, o la Corte dei Conti con il suo spaventoso mostro chiamato “danno erariale”, porta ad uno stato di perenne allarme. Ne deriva quella che io chiamo “burocrazia difensiva” che vede troppo spesso una dirigenza pubblica che semplicemente si astiene da qualsiasi decisione possa comportare rischi, ossia da quasi tutte le decisioni effettivamente rilevanti. Non che non ci siano eccezioni, ma questo è il panorama che ci troviamo di fronte e questi i problemi cronici che una riforma della dirigenza deve affrontare, che si assommano poi, come abbiamo detto, alla giungla retributiva, ai contratti diversi, ai privilegi assurdi di alcune componenti, ai concorsi obsoleti, alle vie preferenziali, alla valutazione di comodo sempre uguali per tutti (non ci credete? Andate a vedere il MEF e scoprirete che i 519 dirigenti di seconda fascia prendono tutti la stessa retribuzione di risultato: todos caballeros). Il decreto Madia sulla dirigenza, che non racconto perché lo do per letto (lo trovate comunque qui con la sua relazione illustrativa), è una risposta molto ambiziosa, molto vasta e organica. Può essere efficace e riuscire dove gli altri hanno fallito? Gli strumenti a mio parere più importanti messi in campo sono sostanzialmente tre. Per ciascuno di essi leggiamo dalla relazione illustrativa quali sono gli obiettivi strategici che intendono raggiungere (neretto mio):

1. Ruolo unico: tutti i dirigenti pubblici sono “dirigenti della Repubblica” Dice la relazione al decreto: Particolarmente qualificante nel disegno del legislatore è la costituzione di tre macro ruoli in cui confluiscono tutti i dirigenti pubblici. L’intento è quello di favorire mobilità ed interscambio, costituendo le premesse per un vero e proprio mercato della dirigenza, in grado di favorire, al contempo, la legittima aspettativa dei dirigenti migliori di occupare i ruoli più significativi nell’organizzazione amministrativa e l’interesse delle amministrazioni di dotarsi, in modo flessibile e razionale, delle migliori competenze dirigenziali in relazione al programma politico-amministrativo da realizzare. Da un altro punto di vista, la creazione dei ruoli unici risponde allo scopo della costituzione di una figura di dirigente pubblico che agisce fuori dagli steccati della singola amministrazione e si pone come vero e proprio dirigente della Repubblica.

2. Modalità e durata degli incarichi dirigenziali e banca dati delle competenze. Ancora leggiamo la relazione: L’intento delle nuove norme è anche quello di dotare il sistema della dirigenza pubblica di maggiore trasparenza per evitare i pericoli di prevaricazione politica nelle procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali, garantendo nel contempo un’effettiva attuazione amministrativa degli indirizzi politici. Il nuovo modello fa quindi salvo il potere dell’organo politico nell’individuazione delle persone da preporre agli incarichi dirigenziali, ma nel contempo prevede che la scelta ricada su persone in possesso di adeguati requisiti di esperienza e competenza tecnico-professionale (…….) Per l’attribuzione di tutti gli incarichi dirigenziali sono previste procedure competitive aperte e trasparenti. Alla procedura per il conferimento, come detto, potranno partecipare i dirigenti di tutti i ruoli, i cui curricoli e gli elementi significativi dei percorsi di carriera individuale saranno contenuti in un’apposita banca-dati, gestita dal Dipartimento della funzione pubblica. Tale banca dati è concepita come una vera e propria “banca delle competenze”, in cui dovranno essere riassunte le attitudini, le valutazioni e le specializzazioni di ogni dirigente.

3. Commissioni imparziali per la gestione e la valutazione degli incarichi Ancora la relazione al provvedimento: … vengono individuate tre Commissioni, che operano per lo Stato, le Regioni e gli Enti locali che si pongono quali elemento di garanzia di tutto il sistema della dirigenza pubblica, dovendo intervenire ex ante o ex post in tutte le procedure di conferimento degli incarichi dirigenziali, con compiti che vanno ben al di là di una mera funzione consultiva e che si estendono anche alla verifica ed all’effettiva adozione e concreto utilizzo da parte delle singole amministrazioni dei sistemi di valutazione ai fini del conferimento e della revoca degli incarichi dirigenziali ed alla garanzia dei dirigenti nel caso di illegittime ed arbitrarie revoche degli incarichi in corso.

È chiaro che questi tre obiettivi: mercato della dirigenza per dare spazio ai migliori, durata limitata degli incarichi e rimessa in gara degli stessi ogni quattro/sei anni con un’attenzione particolare alle competenze e infine, fondamentale, sistema delle garanzie dato dalle tre commissioni o si raggiungono insieme o tutti insieme falliscono. Tutti e tre poggiano poi su una pratica della valutazione che obiettivamente sino ad ora non abbiamo visto che in sporadiche eccezioni e su cui il decreto dice poche e generiche parole. Sino qui diciamo che il giudizio può essere cautamente positivo: è una riforma drastica, ma condivisibile nei suoi principi fondamentali, sempre che i percorsi di attuazione rendano possibile la coerenza con i suoi principi guida: trasparenza, merito, indipendenza. Quando il decreto va però ad esplicitare proprio i percorsi e gli strumenti necessari a mettere in pratica questi assunti ci troviamo di fronte alla sua parte meno convincente. Come sempre si sprecano le affermazioni che restringono la possibilità di qualsiasi investimento (la famosa invarianza della spesa che è la negazione di qualsiasi innovazione vera), si danno poi compiti di estrema gravosità a strutture già oggi sull’orlo di una crisi di nervi, senza organici e senza soldi, si nominano commissioni che, vista la loro composizione non potranno che essere di facciata. Dubito infatti fortemente che una commissione composta come detta il decreto abbia alcuna possibilità di riunirsi al completo per lavorare, tranne forse la prima riunione con l’entrata dei fotografi. Dice infatti il decreto che: La Commissione è organo collegiale composto da sette membri. Sono componenti permanenti della commissione: il Presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione, il Ragioniere generale dello Stato, il Segretario generale del Ministero degli affari esteri e il Capo Dipartimento per gli affari interni e territoriali. del Ministero dell’interno, il Presidente della Conferenza dei rettori delle università italiane, nonché due componenti scelti tra persone di notoria indipendenza (…) nominati con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, previa deliberazione del Consiglio dei ministri, sentite le competenti Commissioni parlamentari. Come sempre quindi ottimi principi, alti e condivisibili obiettivi, ma scarsa attenzione ai processi e nessuna alle risorse necessarie.

A questi punti nodali si aggiunge una riforma, a mio parere opportuna e condivisibile, del sistema della formazione, con la profonda trasformazione della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (SNA), ma anche un sistema di entrata nel ruolo che mi sembra invece irrealizzabile, almeno a condizioni date. La relazione infatti ci promette più di quanto sia in grado di mantenere sic stantibus rebus, dice infatti: Un ulteriore punto qualificante del decreto legislativo è costituito dalla revisione dei sistemi di accesso alla dirigenza, con conferma ed estensione a tutte le amministrazioni del doppio canale di accesso, in cui un evidente favor viene espresso dal legislatore nei confronti del corso-concorso, aperto a tutti, rispetto al quale il concorso interamente riservato assume carattere residuale.

Ma, come abbiamo detto, quelli che sono veramente residuali, fatti per un numero limitatissimo di candidati, sono proprio i corsi-concorsi. Né possiamo sperare che essi coprano le esigenze delle amministrazioni senza una profonda revisione delle strutture e delle risorse necessarie.

In conclusione il peccato originale del provvedimento è quello di quasi tutte le riforme, anche del tutto positive come obiettivi e principi, messe in campo da questo Governo: il “miraggio del legislatore” di cui abbiamo altre volte parlato. Per riforme così ambiziose, che si configurano come vere e proprie rivoluzioni, è necessario mettere in campo investimenti importanti in risorse umane, tecnologiche e finanziarie, nuove strutture organizzative dedicate e indipendenti, forme intelligenti e permanenti di accompagnamento. Le riforme, non ci stancheremo mai di ripeterlo, richiedono cura e costanza nello sforzo, al di là dei passaggi politici, e massima attenzione verso i comportamenti delle persone piuttosto che verso la lettera delle norme. Come la tragica cronaca estiva ci ricorda ogni anno, scalare ghiacciai senza attrezzatura e attenzione al meteo porta a sicure e tragiche scivolate. Dire che non abbiamo soldi o tempo per comprare i ramponi (leggi modelli organizzativi, persone, competenze, investimenti) e insistere a voler salire in vetta in scarpe da ginnastica non solo è velleitario e foriero di sicuri fallimenti, ma ci mette a rischio di cadere in un qualche crepaccio da cui sarà impossibile uscire. Fuor di metafora tanti sono i trabocchetti messi in campo da chi non vuole cambiare: il più efficace è far avanzare una riforma senza mezzi e senza accompagnamento e poi constatare, con finta meraviglia e vera soddisfazione, che non può funzionare perché è sbagliata, perché era meglio prima.

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