EDITORIALE

I valori del digitale

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Lentamente, ma qualche cosa si muove anche nel campo della trasformazione digitale. O perlomeno ricominciano a suonare, dopo il silenzio della fase elettorale, parole che ne confermano l’ineluttabile, ma anche potenzialmente positiva necessità per qualsiasi progetto di sviluppo del Paese. Luigi Di Maio ha parlato dell’importanza sociale dell’accesso alla rete, anche se con semplificazioni un po’ ingenue come la “mezz’ora gratis ai poveri”, mentre Giulia Bongiorno ha auspicato una digitalizzazione della PA semplice e ragionevole, inclusiva e credibile. Alla digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche e al suo significato per la democrazia, la trasparenza, la qualità dei servizi dedica un ampio capitolo il nostro “Libro bianco sull’innovazione della PA” che da oggi è in consultazione pubblica.

27 Giugno 2018

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Carlo Mochi Sismondi

Lentamente, ma qualche cosa si muove anche nel campo della trasformazione digitale. O perlomeno ricominciano a suonare, dopo il silenzio della fase elettorale, parole che ne confermano l’ineluttabile, ma anche potenzialmente positiva necessità per qualsiasi progetto di sviluppo del Paese.

Martedì scorso (appena due giorni fa) Luigi Di Maio ha parlato dell’importanza sociale dell’accesso alla rete, anche se con semplificazioni un po’ ingenue come la “mezz’ora gratis ai poveri” come se il problema fosse il costo d’accesso e non un uso libero, consapevole ed informato che serva ad abbattere davvero l’asimmetria informativa. Sempre martedì Giulia Bongiorno ha auspicato una digitalizzazione della PA semplice e ragionevole, inclusiva e credibile. In un articolo ben informato pochi giorni fa Alessandro Longo su agendadigitale.eu ci ha presentato la rinascita dell’intergruppo innovazione in Parlamento, ancora più numeroso della precedente legislatura. Un importante numero di articoli e di interventi da molti fronti sollecita un’accelerazione degli investimenti sul digitale anche con un oculato uso della programmazione europea. Il nostro “Libro bianco sull’innovazione della PA” (da oggi in consultazione pubblica) dedica un ampio capitolo alla digitalizzazione delle amministrazioni pubbliche e al suo significato per la democrazia, la trasparenza, la qualità dei servizi.

Nonostante queste che, tutto sommato, sono buone notizie, credo che sia comunque necessario superare un facile quanto rozzo ottimismo verso la trasformazione digitale e i suoi cantori che la descrivono come foriera, sempre e comunque, di “magnifiche sorti e progressive” e scavare un po’ più in profondità. La trasformazione digitale infatti non è né solo uno strumento, né tantomeno un settore: la cosa a cui più somiglia è un ecosistema complesso. Questo ecosistema ha non solo tecnologie, ma deve avere anche e soprattutto valori orientativi che dobbiamo riconoscere e tutelare. Sono infatti valori quanto mai necessari proprio in questo momento storico in cui tutto il mondo occidentale costruisce muri e va arroccandosi in un “assedio preventivo” che è il rovescio della ricca rete relazionale che il digitale può abilitare.

Il primo valore è proprio la metafora della rete. La rete relazionale non è solo social, non è solo informazione gratis, non è solo “esserci” sempre e comunque. La rete relazionale è soprattutto costruzione di una partecipazione informata e consapevole e una collaborazione tra interessi che creino quella intelligenza collettiva che è possibile, ma non garantita dagli strumenti, che possono essere invece portatori di nuove dipendenze e divisioni. Noi parliamo spesso di “governo con la rete” proprio per mettere in evidenza questa necessaria apertura delle istituzioni ad una collaborazione che sia non occasionale, ma costitutiva del patto democratico tra eletti ed elettori, tra cittadini e istituzioni, tra le varie e diverse componenti del tessuto sociale.

La rete ci porta al secondo valore fondamentale del “paradigma digitale” che è l’inclusione. La rete nasce per includere e non per escludere. Per considerare ricchezza e non pericolo la diversità. Per dare a ciascuno lo spazio abilitante perché possa vivere la propria vita, raggiungere i propri peculiari obiettivi in un contesto di coesione sociale. Ma non è scontato: il digitale può essere usato anche per schedare, per escludere, per controllare, per costruire non ponti, ma muri che la tecnologia renderà non migliori, ma soltanto più efficienti.

Un terzo valore dell’ecosistema digitale, connesso ai primi, è quello dell’accesso. Accesso che vuol dire soprattutto abbassamento della soglia d’entrata e quindi diminuzione delle disuguaglianze. Di fronte al mio strumento digitale (anche quello a bassissimo costo) io sono potenzialmente “uguale” nella mia possibilità di esprimermi e di essere ascoltato ovunque io sia e quale che sia la mia condizione sociale. Certo questa potenzialità deve basarsi su alcuni presupposti essenziali e non automatici che vanno dalla diffusione delle competenze di base alla neutralità della rete, ma è indubbio che oggi, mentre scrivo e pubblico questo mio editoriale, godo di un’opportunità che un tempo era riservata a pochissimi.

Se questi sono tra i principali valori per cui ha senso dire che la trasformazione digitale può (ma attenzione non è scontato) portarci ad un effettivo e diffuso progresso inclusivo, dobbiamo continuamente stare attenti a due pericoli entrambi insidiosi perché nascosti nelle pieghe.

Il primo è quello di vedere l’economia digitale come un settore della nostra vita economica e quindi di definire una “politica per il digitale”. Sarebbe un grave fraintendimento.

Le politiche sono quelle azioni che si rivolgono efficacemente ai bisogni dei cittadini e delle imprese. I bisogni di lavoro, di salute, di sicurezza, di cultura, di istruzione, di mobilità, di crescita sociale, professionale ed economica. Nessuno di questi bisogni potrà oggi essere soddisfatto senza una profonda, intelligente e pervasiva trasformazione digitale dei processi e della stessa catena di produzione del valore, sia esso valore economico o “valore pubblico”. Ma lo sviluppo del digitale deve derivare dallo sviluppo delle politiche. Sarà il bisogno di salute e la necessità della sostenibilità del sistema sanitario universalistico, che trascinerà il bisogno di sanità digitale; sarà l’obiettivo di una scuola di qualità che renda i giovani cittadini liberi, consapevoli, coscientemente partecipi della società, che trascinerà il piano di scuola digitale e così via.

Il secondo pericolo è quello di banalizzare e quindi confondere consumo passivo di tecnologia come se fosse protagonismo in rete. Persino il CEO di Apple, Tim Cook oggi ci indica come un pericolo grave essere passivi consumatori, per ore incollati al nostro smartphone che ci concede, in cambio dei nostri dati, delle nostre scelte e a volte delle nostre idee, di sentirci per un attimo attori protagonisti di storie effimere, mentre siamo solo “polli d’allevamento” in “libertà obbligatoria” come diceva quarant’anni fa il profetico Giorgio Gaber. Un vecchio sociologo del secolo scorso, Ivan Illich, insegnava che se uno strumento non è a nostra disposizione (lui lo chiamava “conviviale”), nel senso che non ne conosciamo il funzionamento e non lo dominiamo, esso diventa appannaggio di una classe tecnocratica e, per una sorta di eterogenesi dei fini, diviene alla fine ostacolo alla libertà per cui era stato concepito (se volete un esempio basta che mi affacci alla finestra e guardi alle file di automobili divenute “auto-immobili” nel traffico congestionato e non controllato di Roma all’ora di punta).

Vogliamo la trasformazione digitale quindi, la vogliamo con determinazione, ma senza ingenuità, senza attese millenaristiche, sapendo che, per fortuna, le scelte su quali ne saranno i valori e quali i paradigmi sono ancora tutte nelle nostre mani. O meglio lo saranno sempre che siamo capaci di studiare, e poi ancora studiare per capire, per collegarci, per fare rete tra noi.

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