Perché il sistema scuola deve invertire la rotta

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Il sistema scuola appare soffocato da burocrazia sempre più pressante e inutile. il PNSD traccia una rotta, fissa un nuovo sfondo culturale e obiettivi concreti. Ma la costruzione sarà fragile, se continuerà ad essere fondata sui presupposti di un’amministrazione che non si rinnova, snellendo le procedure e decentrando sul serio

29 Aprile 2016

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Laura Biancato, dirigente scolastico

Marianna Madia, ministro per la Semplificazione e la Pubblica Amministrazione, in una lettera al direttore di Repubblica scrive: “Tutti noi ci rendiamo conto ogni giorno che tutto è troppo complicato (…) negli anni sono state fatte troppe leggi, scritte male, abbiamo troppi livelli di governo con competenze confuse a cui si somma un proliferare, su molte norme, di pareri e circolari; tutto questo si è scaricato violentemente sui cittadini bloccandoli nell’esercizio dei loro diritti, riducendone opportunità e aspirazioni“.

Le parole del Ministro Madia sono l’esatta rappresentazione del sistema scuola.

Un sistema soffocato da burocrazia sempre più pressante e nella maggior parte dei casi inutile.

Un sistema regolato da leggi, modifiche alle leggi, a loro volta contraddette da ordinanze, circolari, e note (basta vedere cosa sta accadendo nell’applicazione della Legge 107/2015, già più volte disattesa). Le interpretazioni sono all’ordine del giorno, nel tentativo di dipanare una matassa di disposizioni farraginose.

Nei livelli di governo della scuola, le competenze sono diffuse e spesso confuse. L’autonomia ed il decentramento sono pura ipotesi: il DPR 275 del 1999 (Regolamento recante norme in materia di Autonomia delle istituzioni scolastiche) è rimasto al palo, non seguìto dal necessario riordino degli organi collegiali, rimasti immutati dal 1974.

L’art. 1 comma 2 del D.Lgs 165/2001, che recita “Per amministrazioni pubbliche si intendono tutte le amministrazioni dello Stato, ivi compresi gli istituti e scuole di ogni ordine e grado e le istituzioni educative”, fa rientrare le scuole autonome nella Pubblica Amministrazione.

Come è noto, però, gli istituti non hanno una vera e propria articolazione degli uffici, e possono contare soltanto sulla buona, vecchia segreteria, a capo della quale vi è il DSGA, figura la cui complessità del titolo è spesso inversamente proporzionale alla struttura che si trova a dirigere. Tutto questo, all’interno di un quadro normativo che non fa alcuna differenza tra questa organizzazione estremamente ridotta e quella, ad esempio, di un Comune, di una Regione, di una Camera di Commercio e così via.

L’“attività negoziale”, a solo titolo di esempio, per la quale tutte le altre pubbliche amministrazioni secondo il Codice dei Contratti possono procedere con “affidamento diretto” agli acquisti di beni e servizi fino all’importo di €40.000 (IVA esclusa), vede le scuole ancora vincolate ad una doppia normativa: il Regolamento di Contabilità previsto dal DI 44/2001, che limita a €2.000 tale possibilità, a dispetto di un potere di spesa enormemente inferiore a quello delle altre amministrazioni.

A livello di governance, non c’è chiarezza sulle figure apicali. Il Dirigente Scolastico oscilla da troppo tempo tra la prospettiva “manageriale” e quella della leadership educativa, che caratterizzava maggiormente la figura del preside/direttore. Di fatto il Dirigente Scolastico deve incarnare entrambe queste funzioni, ma dovrebbe essere titolare di un reale potere (che non ha) per rispondere efficacemente delle proprie responsabilità.

Non manca nessuno tra i vari Enti che, a vario titolo, hanno competenza sulla scuola, dallo Stato fino al Comune, passando per le Province. Il risultato è che ognuno di questi esercita le sua influenza in modo non sinergico con gli altri. L’Istituzione scolastica e il suo dirigente hanno (nominalmente) la responsabilità di tutto, quasi mai senza avere i corrispondenti poteri esecutivi. Abbiamo quindi il dirigente “datore di lavoro” ma con personale assegnato dallo Stato, senza alcuna possibilità di intervento, il dirigente “responsabile della sicurezza”, senza poteri operativi sugli edifici, il dirigente “responsabile amministrativo” prigioniero di mille costrizioni burocratiche.

Proprio la burocrazia che grava sulla scuola è la più dispendiosa in termini di impiego del personale e delle risorse, e rischia di uccidere ogni processo anche potenzialmente virtuoso di innovazione.

Nella scuola si fatica a portare a termine le procedure più urgenti ed indispensabili.

Un veloce esempio: l’iter per i trasferimenti del personale. L’ordinanza, pubblicata pochi giorni fa, conta 72 pagine e dispone una sequenza di operazioni in quattro distinte e successive fasi che dureranno mesi. E’ peggiorativa, in termini di complessità, rispetto a quella dello scorso anno. Il primo inserimento dei dati è informatizzato, ma l’assegnazione definitiva delle sedi dovrà essere regolata “manualmente”, seguendo calcoli di punteggi e graduatorie molto complicati.

L’elenco degli esempi potrebbe continuare a lungo, includendo la ricorrente e stupefacente pratica delle “rilevazioni”, per cui le amministrazioni (non solo il Miur, ma spesso Istat e altre) chiedono in continuazione alle scuole una serie di dati che già dovrebbero possedere, impegnando così per giorni e giorni il personale di segreteria (sempre quei tre/quattro di cui si è parlato).

Allo stato attuale, il sistema scuola non ha le caratteristiche di una PA “agile” e rispondente in maniera veloce ai cambiamenti della società. Una PA efficiente ed efficace dovrebbe saper interpretare il presente e immaginare il futuro, gestire flessibilmente le risorse, possedere una governance chiara e definita.

Quali soluzioni possibili?

Non è banale ricordare che, guardandosi un po’ intorno (siamo in Europa…), si notano ben altre organizzazioni dei sistemi scolastici.

Per mia fortuna, ho potuto visitare diverse scuole all’estero e conoscere virtuosi esempi di buon governo. Nei sistemi dei paesi del Nord, in generale, il centro supporta, non distrugge od ostacola. Le scuole hanno un’autonomia vera, di gestione ed organizzazione, e devono rispondere a precisi standard. In genere, lo snellimento amministrativo è evidente.

Ricordo con simpatia il collega finlandese che nel 2004 mi prese bonariamente in giro quando vide sulla mia scrivania la montagna di documenti di quella sola giornata da firmare e mi chiese se fossero per tutto l’anno!

In una scuola inglese da 1500 studenti, dove tutto viene gestito internamente (dagli stipendi del personale alla ristrutturazione degli edifici, 12 milioni di sterline di budget annuale, per dire…) ho contato 4 impiegati ed un direttore amministrativo. Meno della metà rispetto ad una corrispondente scuola italiana, che ha meno della metà delle incombenze dirette (stipendi gestiti dal MEF, ristrutturazioni edilizie da province o comuni, e sappiamo con quali effetti di disagio…).

All’estero, nella maggior parte dei casi, la nostra complicatissima procedura di “trasferimento del personale” si traduce in …selezione con curriculum alla mano! Nel Canton Ticino, l’intero stato giuridico degli insegnanti è contenuto in 18 pagine.

Sembrano dettagli, forse, ma sono il cuore dei problemi della scuola pubblica. Il freno a mano per un rapido processo di cambiamento.

E dunque, come si può parlare di innovazione in queste condizioni ?

Certo, ora il PNSD traccia una rotta, fissa un nuovo sfondo culturale e obiettivi concreti. Si propone di formare all’innovazione il personale, soprattutto. Grandi propositi ed enormi risorse messe in campo dopo l’approvazione della Legge 107/2015.

Ma la costruzione non potrà che essere fragile, se continuerà ad essere fondata sui presupposti di un’amministrazione che non si rinnova, snellendo le procedure e decentrando sul serio.

Da qualche mese, alcuni Dirigenti Scolastici particolarmente impegnati nel settore dell’innovazione, hanno promosso il movimento di idee “Liberare la scuola”, per sollecitare l’opinione pubblica, la politica, il mondo della cultura a prendersi carico di quei macroscopici problemi che distolgono energie e risorse dagli obiettivi principali del sistema scolastico, cioè migliorare e rinnovarsi. Sono state raccolte più di 1600 firme, segno che l’argomento interessa, preoccupa.

Si individuano alcune macroscopiche difficoltà da risolvere, premettendo che il primo step non può che essere affidare alle scuole la responsabilità “reale” di quello che fanno. Comunità che si auto-governano all’interno di una cornice generale condivisa, superando l’attuale farsa delle responsabilità formali in assenza di autonomia sostanziale.

La proposta è semplice, al limite della banalità:

  1. reale valorizzazione dell’autonomia scolastica, con la drastica riduzione delle parti prescrittive, che dovrebbero essere limitate sostanzialmente al rispetto degli obiettivi nazionali del sistema di istruzione e formazione. Lo Stato deve fissare gli obiettivi (il cosa) e verificare poi il loro raggiungimento, ma non occuparsi del come si raggiungono nel modo così dettagliato (quasi ossessivo) praticato oggi. Le scuole realmente innovative in giro per il mondo hanno ampi margini di libertà su organizzazione del curricolo, incluso il monte ore disciplinare. Il sistema attuale, a dispetto della formale autonomia, è invece estremamente rigido e dipendente dal “centro”;
  2. riduzione drastica degli adempimenti burocratici, in considerazione della dimensione e della specificità del servizio: la scuola è, sì, una Pubblica Amministrazione, ma l’obiettivo è il servizio di istruzione e formazione, e su questo che le risorse devono essere concentrate;
  3. semplificazione del regolamento di contabilità e applicazione parziale e personalizzata del Codice dei Contratti. Definire una scuola “stazione appaltante” quando acquista matite, pennarelli e altro materiale di consumo, oppure qualche computer, al pari di un (vero) appalto da decine di migliaia di euro sembra quasi grottesco. Le procedure relative ai PON sono un esempio eclatante: bandi e iter complicatissimi per conferire incarichi da €150/300;
  4. per ogni norma esistente e per tutte le nuove emanate, che prevedano un impatto amministrativo, obbligo di prevedere già nella normativa primaria (o al massimo in quella secondaria) un articolo o commi specifici relativi all’applicazione semplificata nelle istituzioni scolastiche.

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