Creative Commons, alcuni diritti riservati

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Nell’epoca della copia a costo zero e del peer to peer sembra, a volte, che l’unica grande preoccupazione di chi detta le regole sia quella di fermare la pirateria, bloccare la copia, sorprendere il mariuolo di turno che sottrae risorse all’industria e al povero artista che vive del proprio ingegno. Tutelare va bene, ma non bisogna dimenticare che spesso chi pubblica contenuti in rete non lo fa a scopo di lucro ed ha tutto l’interesse che il frutto del proprio lavoro circoli liberamente. A tale scopo sono state pensate le Licenze Creative Commons. Ma di che si tratta in realtà e perché occorre occuparsene?

10 Gennaio 2007

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Tommaso Del Lungo

Articolo FPA

Nell’epoca della copia a costo zero e del peer to peer sembra, a volte, che l’unica grande preoccupazione di chi detta le regole sia quella di fermare la pirateria, bloccare la copia, sorprendere il mariuolo di turno che sottrae risorse all’industria e al povero artista che vive del proprio ingegno. Tutelare va bene, ma non bisogna dimenticare che spesso chi pubblica contenuti in rete non lo fa a scopo di lucro ed ha tutto l’interesse che il frutto del proprio lavoro circoli liberamente. A tale scopo sono state pensate le Licenze Creative Commons. Ma di che si tratta in realtà e perché occorre occuparsene?

Perchè parlarne?

La politica italiana ha dato in più occasioni prova di apprezzare le potenzialità offerte dalla rete e dalle tecnologie digitali in tema di distribuzione dei contenuti, tuttavia la discussione è stata quasi sempre monopolizzata dall’alternativa "difendere i diritti degli autori o legalizzare il ladrocinio in nome della libertà?". In questa accesa diatriba, che in molte occasioni ha preso la forma di un dibattito ideologico ed ideologizzato, pochi si sono fermati a riflettere sul fatto che non sempre chi produce qualcosa ha voglia di tenerlo sotto chiave o di guadagnarci, oppure sul fatto che, essendo cambiato il modo di comunicare e dialogare, anche il modo di guadagnare avrebbe potuto subire qualche modifica. In altri paesi il fenomeno delle reti sociali, i canali attraverso cui gli utenti si scambiano liberamente qualunque contenuto o informazione non è nemmeno più un fenomeno, nel senso che è ormai un dato di fatto, mentre qui in Italia il modello stenta a decollare e le nostre iniziative commerciali sono sempre un passo indietro rispetto a quelle di Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna eccetera. Da un punto di vista legale le Licenze Creative Commons (CC) sono il punto di partenza per impostare questo tipo di ragionamento e per mettere in moto un meccanismo culturale, prima che economico, fondamentale per riallinearci a quelle realtà che dettano i nuovi sviluppi tecnologici e le nuove tendenze dell’economia.
Tra l’altro occorre sottolineare che l’Italia è stata uno tra i primi Paesi ad avere un proprio gruppo di lavoro per creare licenze aperte nazionali sulla base di quelle americane, eppure quanti possono dire di averne mai sentito parlare?

Facciamo chiarezza

Da circa quaranta anni l’uomo è capace di utilizzare codici per costruire macchine. Ma la vera rivoluzione per la cultura c’è stata una ventina di anni fa, quando ha iniziato a utilizzare questi codici anche per produrre contenuti ed ha potuto sfruttare le macchine per renderli disponibili e distribuirli. Oggi la stampa ha smesso di essere il medium più rapido, capillare ed economico per la diffusione dei testi, tuttavia le norme in tema di diritto di autore,sia a livello nazionale che internazionale, sono rimaste le stesse.
Da ormai 120 anni la legge attribuisce ad un autore una serie di diritti (copyright) relativi a cosa si può fare con la propria opera (rappresentazioni pubbliche, copie, modifiche, opere derivate e così via). Questo tipo di tutela è fornita in maniera automatica al momento in cui l’opera viene completata, senza il bisogno di alcuna procedura formale, come invece è necessario nel caso dei brevetti, e senza nemmeno la necessità che l’opera sia pubblicata. Qualunque pagina di un diario, qualunque opera rimasta nel cassetto, qualunque scarabocchio è automaticamente tutelato. Quindi se un autore non comunica esplicitamente e per iscritto qualcosa, la legge, in automatico, fa valere la massima tutela.
Come si vede questa è esattamente l’ipotesi contraria a quella che viene ritenuta valida dalla maggioranza delle persone, ovvero quella secondo cui se un testo o un immagine non riporta nessun segno di copyright allora si può considerare libero e se ne può fare l’utilizzo che si ritiene più opportuno.

Creative Commons

Se questa è la situazione, allora chi desidera utilizzare un contenuto, deve sempre avere l’autorizzazione dell’autore. "È un regime che funzione ex post – ci spiega Juan Carlos De Martin coordinatore del Gruppo di Lavoro Creative Commons Italia – trovo un contenuto e voglio utilizzarlo, quindi chiedo il permesso e solo dopo averlo ottenuto procedo". Se questo discorso andava benissimo fino a qualche decennio fa ed, anzi, era un ottimo strumento di salvaguardia e di tutela per gli autori, occorre domandarsi se oggi non sia diventato, invece, un forte ostacolo alla diffusione di cultura e quindi anche di economia della conoscenza.
Proprio per questo all’inizio del 2000 un gruppo di persone provenienti da diversi campi dell’attività umana, da quello dell’informatica, a quello del cinema e della televisione, fino a quello accademico cominciò a portare avanti una riflessione sui contenuti digitali presenti sulla rete non classificabili come software e tutelati come i prodotti industriali, indipendentemente dalle intenzioni degli autori.
L’idea fu quella di creare una serie di licenze che rendessero esplicite "ex ante" le reali volontà degli autori, limitando in parte o del tutto la tutela del copyright. Dopo una prima fase di incubazione in cui si sono analizzate le intenzioni degli autori, degli artisti, dei video makers e così via, si è proceduto alla stesura di una serie di licenze aperte simili a quelle pensate per il software dalla Free Software Foundation (le licenze GPL), ma focalizzate, invece sui contenuti.
Nel dicembre 2002 Creative Commons, l’associazione che nel frattempo si era costituita, presentò un set di 6 licenze modulari che lasciavano ad ogni singolo autore la possibilità di scegliere il livello di tutela per lui più adatto. Immediatamente dopo Creative Commons lanciò un appello ai giuristi di tutto il mondo per la diffusione e la traduzione delle licenze nelle varie lingue. L’Italia rispose quasi immediatamente e nel 2004, dopo un anno di studio, il gruppo di lavoro facente riferimento al CNR pubblicò le licenze Creative Commons italiane.

Le sei licenze

Le nuove licenze sono sei.

  • La prima prevede l’obbligatorietà di citare sempre il nome dell’autore dell’opera;
  • la seconda sancisce il divieto di fare un uso ai fini di lucro del lavoro;
  • la terza consente la commercializzazone dell’opera presa da internet e la produzione di opere derivate;
  • la quarta e la quinta contemplano che se si modifica un’opera, bisogna poi farla circolare con la stessa tipologia di licenza dell’originale;
  • la sesta aggiunge anche il divieto di fare del prodotto un uso commerciale.

Le licenze non devono essere approvate da alcun pubblico ufficiale né comunicate ad organi istituzionali. La formula è quella di un contratto privato tra due persone che, a norma di legge, ha valore indipendentemente dal fatto che sia approvato o registrato. Quindi l’unica accortezza che devono avere queste licenze è quella di essere ben scritte in modo tale da non dover sopportare il peso di buchi giuridici in una eventuale controversia.

Risvolti pratici

Passare dal concetto "tutti i diritti riservati", tipico del diritto d’autore tradizionale, a quello "alcuni diritti riservati" ha alcune implicazioni fondamentali nel modo di pensare di ciascuno di noi, compreso quello burocratico delle Pubbliche amministrazioni.
Da qualche tempo, ad esempio, esistono movimenti di protesta che si battono affinché tutti i contenuti prodotti con soldi pubblici siano offerti gratuitamente e liberamente a tutti i contribuenti attraverso licenze aperte, a partire dalle ricerche scientifiche e dagli archivi fotografici e musicali, fino ai dati geografici. È logico, questo panorama è un orizzonte ipotetico a cui tendere, ma alcuni segni di apertura in questo senso ci sono già. Uno di questi è il nuovo contratto di servizio della RAI, che dovrebbe impegnare l’azienda a rilasciare i propri contenuti in modalità libera. In realtà lo schema prevede che solo i contenuti prodotti con i proventi del canone siano rilasciati sotto licenza Creative Commons, ma almeno da un punto di vista della comunicazione questo è senz’altro un evento importante, che segue le orme del progetto Creative Archivie della BBC di qualche anno fa.

Ma vero punto nevralgico della questione, come ci ha spiegato De Martin, è un altro: "Se infatti sono ormai note le forme di business attuate da quelle aziende del software che scelgono di focalizzarsi sull’open source puntando, non sulla vendita delle licenze, ma sui servizi aggiuntivi, meno note e meno utilizzate sono quelle forme che potrebbero essere utilizzate da chi produce contenuti". Gli autori, ad esempio possono rendersi conto che il modo più semplice per ottenere i vantaggi derivanti dalla circolazione delle loro idee e del loro nome è autorizzare la diffusione dei loro testi con una certa generosità. "La spinta che deriva dall’utilizzo di questo tipo di licenze – conclude De Martin – è quella a cambiare tipo di mentalità di business. Spingere per il Creative Commons da un punto di vista politico ed istituzionale, allora, può avere una funzione pedagogica. Se non sperimentiamo e se non abbiamo il coraggio di esplorare i nuovi trend, le nostre imprese arriveranno troppo tardi, sempre un passo dietro a quelle dei paesi in cui questa cultura è quella dominante ormai da dieci anni".


Approfondimenti

Istituzioni e licenze aperte, connubio per lo sviluppo, un’intervista con Juan Carlos De Martin – Facoltà di Ingegneria dell’Informazione del Politecnico di Torino, coordinatore del Gruppo di Lavoro Creative Commons Italia

Il portale Creative Commons Italia

Pensare open, una necessità per l’innovazione", un dossier Altra pa del 26/10/2006

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