La sciarada amministrativa: la “ri/forma/zione”

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"Formare per riformare", nonostante sia divenuto un modo di dire dal facile abuso, è ancora l’unico modo per cambiare dall’interno il sistema pubblico. La riforma della PA, infatti, deve far leva su una migliore qualità professionale e su una diversa attrezzatura di saperi dei pubblici dipendenti. Come spiega il prof. Stefano Sepe in questo interessante contributo che vi proponiamo.

20 Marzo 2014

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Stefano Sepe

"Formare per riformare", nonostante sia divenuto un modo di dire dal facile abuso, è ancora l’unico modo per cambiare dall’interno il sistema pubblico. La riforma della PA, infatti, deve far leva su una migliore qualità professionale e su una diversa attrezzatura di saperi dei pubblici dipendenti. Come spiega il prof. Stefano Sepe in questo interessante contributo che vi proponiamo.

“Non abbiamo un nuovo modello di funzionario, perché non abbiamo un nuovo modello di amministrazione”, scriveva nel 1977 Vittorio Bachelet. A decenni di distanza, l’affermazione del giurista assassinato dalle BR rivela ancora tutta la sua attualità. Pur nella – anzi, proprio in ragione della – differenza di situazione. A volerla dire in modo più esplicito: uno degli elementi di maggiore freno al cambiamento dell’amministrazione – in rapporto alle riforme legislative avviate in Italia dall’inizio degli anni ’90 – è stato il mancato “cambio di marcia” dei pubblici dipendenti.

Mancato cambio di marcia del quale, peraltro, i dipendenti stessi non sono i principali responsabili. Quanto, piuttosto spesso, le prime vittime. A causa di due fenomeni: dislocazione del personale poco attenta a competenze e vocazioni dei singoli; formazione non orientata abbastanza alle esigenze di miglioramento delle prestazioni delle amministrazioni. Sulla prima pesano antiche inadeguatezza della dirigenza pubblica e infrangibili resistenze di natura sindacale. Sulla seconda scontiamo una non risolta carenza di chiare strategie, che fossero in grado di contribuire al miglioramento qualitativo delle competenze dei dipendenti pubblici. E, ancor più, che innescassero il cambiamento di mentalità e atteggiamento del personale pubblico.

Su questa seconda questione credo sia necessaria una riflessione profonda, che vada al di là del contingente e che riesca a delineare scenari nuovi nel campo della formazione del/nel settore pubblico. Quelle che seguono – è bene precisarlo – sono soltanto annotazioni sparse.

La “sciarada amministrativa” [ri/forma/zione] tiene insieme, come nel notissimo gioco enigmistico, tre passaggi logicamente consecutivi e strettamente connessi sul piano pratico. La “riforma” (quando si parla dell’amministrazione) è un termine che ha assunto carattere mitologico e, insieme, millenaristico: non esce dai confini fiabeschi e, nel contempo, è oggetto di attese spasmodiche che sconfinano nell’utopia più immaginifica. Per imprimere cambiamento effettivo, una reale riforma deve far leva su una migliore qualità professionale e su una diversa attrezzatura di saperi dei pubblici dipendenti.

“Formare per riformare” – benché sia divenuto uno slogan abusato – non ha perso il suo carattere di orizzonte necessario del (possibile) cambiamento del sistema pubblico. Tale obiettivo contiene in sé un elemento di criticità/complessità che non ha trovato soluzioni sempre adeguate. Provare a innescare processi di cambiamento mediante la formazione produce inevitabili tensioni, che possono essere utilmente assorbite e spingere le persone ad accettare la sfida di muoversi nel terreno della sperimentazione e dell’innovazione. Frequentemente, però, la tensione si trasforma in condizioni di stress per coloro che si trovano di fronte il muro (normalmente di gomma) della resistenza al cambiamento. Azione è il terzo pezzo della sciarada e rinvia a due aspetti connessi: il miglioramento qualitativo dell’azione pubblica dovrebbe trovare sponda necessaria in un’attività di formazione ben mirata. Sotto questo profilo, uno degli elementi cardine di una buona formazione è il suo orientamento all’azione di cambiamento (come presupposto intrinseco) e il suo svilupparsi in modo operativo (nelle sue modalità concrete). In soldoni: spingere al cambiamento, nei contenuti, e superare – una volta per tutte – le logiche della formazione “passiva” di ascolto di logorroiche esposizioni di dottrine o di estenuanti esegesi normative.

Sulla connessione riforma/formazione è giusto tener conto di alcuni dati positivi. Da oggi per le politiche di indirizzo, da domani mattina per lo sviluppo di attività che – in coerenza con gli indirizzi politici – sappiano produrre l’indispensabile tensione al cambiamento. Fortunatamente il governo non percorre la fallimentare strada di immaginare leggendarie modifiche normative, ma punta sulla bontà delle politiche di azione annunciate e sulla valutazione dei risultati delle organizzazioni chiamate ad attuarle. Aspetti mettono in campo la qualità degli indirizzi politici di settore, nonché l’azione dei dirigenti e, per ricaduta, di tutti gli addetti. La riforma del 2013 delle scuole di formazione del personale pubblico, avendo messo al centro del sistema la Scuola nazionale dell’amministrazione, è un potenziale grimaldello per superare ritardi, sprechi di risorse (finanziarie e nell’uso del personale), resistenze varie. Questo tema merita riflessioni specifiche sulle quali sarà utile tornare.

Per adesso è necessario ribadire che la formazione deve puntare – molto più di quanto non si sia fatto tradizionalmente – a produrre un deciso cambio di mentalità. Lavorare per ampliare saperi e competenze è meritorio. Lo è altresì produrre affinamento di abilità e capacità. Ma l’aspetto decisivo è indurre (nel tempo: breve/medio/lungo, a seconda degli argomenti e del carattere delle persone) modifiche nella mentalità e negli atteggiamenti dei pubblici dipendenti.

 

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