Comunicazione in emergenza: il ruolo della PA per un’informazione certificata

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In situazioni di rischio e di crisi lo Stato e la Pubblica Amministrazione hanno un ruolo fondamentale nei processi di comunicazione e sono da considerarsi l’unico attore di riferimento per separare i fatti dalle opinioni. Il tutto passa attraverso la produzione di informazione dimostrata e la definizione di un sistema di fonti certificate. Ecco alcune regole base, senza dimenticare che la stessa OMS ha già fornito delle Linee guida da seguire

1 Aprile 2020

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Eugenio Iorio

Docente a contratto Università Suor Orsola Benincasa, Link Campus University

Photo by engin akyurt on Unsplash - https://unsplash.com/photos/fboaVuIdgzU

L’infosfera globale, scrive il filosofo Byung-Chul Han, vive un continuo shitstorm[1] – naturale fenomeno della comunicazione digitale nella nostra società, complessa, instabile e ipersatura – che ha disattivato l’universalismo della ragione, ridotto la sensibilità e distrutto i fondamenti del comportamento etico. Il discorso politico moderno era, sostanzialmente, finalizzato alla persuasione e alla costruzione di consenso, mentre, nell’influsso contemporaneo, genera pervasione e saturazione del tempo di attenzione disattivando la facoltà critica, la capacità di distinguere tra vero e falso, tra bene e male.

Infosfera e social media

L’egemonia degli ambienti mediologici dei social media nella vita digitale degli utenti e la proliferazione delle fonti di informazioni hanno mutato la morfologia dell’infosfera e intensificato la circolazione di segni con l’effetto di un’accelerazione illimitata del tempo mentale. L’esposizione della mente cosciente ai contenuti portati dal mediascape[2] diviene così rapida, così breve, che l’elaborazione critica viene ad essere disattivata.

Il massmediologo Marshall McLuhan ha anticipato questo processo nel libro “Capire i media[3]. Secondo l’autore, quando la sequenzialità della mente è sostituita dalla simultaneità elettronica, il pensiero tende a passare dalla modalità dell’elaborazione critica alla modalità della mitologia e della mitocrazia.

Storytelling e comunicazione politica nell’era della “Post verità”

Negli ambienti narratologici dei social media l’atto basilare e primevo è quello di raccontare storie. Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. Abbiamo bisogno di scenari e le narrazioni ce li forniscono, spesso con un vantaggio importante rispetto alle cosiddette analisi razionali: le storie ci fanno emozionare e le emozioni, lungi dal contagiarla, sono invece un motivo essenziale della ragione.

Al centro del discorso sta il rapporto tra mito e politica, che è fondativo della dimensione del politico stesso e che si rivela sempre più attuale in anni di attività politica mediatizzata, spettacolare e ‘liquida’. La comunicazione politica che viviamo utilizza la mitopoiesi come dinamica elementare di costruzione della realtà: miti, luoghi comuni, fake news, teorie della cospirazione, strutture narrative ricorrenti determinano modalità di comportamento. Le narrazioni dei social media – concatenazione di simboli preesistenti in sequenze temporali, spaziali e causali – fondano, danno luogo e stabilizzano la soggettività stessa.

Nel 2016 l’Oxford English Dictionary aggiungeva al proprio dizionario la parola post-truth, un neologismo che fa rifermento ad una società dove i fatti oggettivi sono meno influenti nella formazione dell’opinione pubblica rispetto ad informazioni che muovono le emozioni o che rinforzano credenze personali.

Le dinamiche in atto nell’infosfera, opinioni polarizzate, emotional sharing, gli effetti cognitivi derivanti dall’information overload, i bias cognitivi e le echo chambers, si prestano ben poco ad essere lette come nuove leve per una costruzione partecipata, democratica e libera dell’informazione.

L’informazione ai tempi dell’infosfera

Nello spazio pubblico antecedente alla formazione dell’infosfera, esisteva una dimensione gerarchica delle fonti che erano deputate all’elaborazione delle informazioni e della conoscenza e alla loro distribuzione e mediazione. Esse detenevano il potere dell’intermediazione. I cittadini e gli elettori attribuivano autorevolezza a queste fonti e le riconoscevano come attendibili grazie agli anni di lavoro, di professionalità e di credibilità acquisiti nel tempo.

L’infinita libertà di scelta dell’informazione, la percezione di se stessi come progetto libero senza controllori, la loro tendenza a disconoscere le fonti autorevoli dell’informazione, la presunta possibilità di poter attingere alla conoscenza e alle “vere informazioni” in completa autonomia e senza intermediari, porta gli utenti a costruire palinsesti personali di informazione e conoscenza conformi alle loro attitudini, ai loro gusti, ai loro tempi, alle loro convinzioni.

L’affidabilità di una “fonte informativa”, la determinazione del grado di fondatezza di una notizia in sé, la coerenza di una notizia con il patrimonio informativo accumulato e accettato per valido, le motivazioni della scelta tra ragionevoli spiegazioni contrastanti sono tutti argomenti di evidente natura epistemologica, così come lo è l’analisi critica della matrice usata per la valutazione delle notizie.

Disintermediazione: il fenomeno chiave dell’infosfera

L’autorevolezza della professione di giornalista si basa su questo: affiancare alle “notizie nude e crude” (le hard news) una serie di opinioni di analisi (le news analysis) che sostengano il lettore nel formarsi una propria opinione. Nei nostri giornali questo già avviene: i commenti politici occupano da noi uno spazio considerevole a fronte di notizie date in modo poco corretto e incompleto.

Come ci insegna il filosofo Karl Popper, la maturazione della conoscenza nella nostra mente è composta da due fattori: la percezione della realtà (i fatti) e il quadro mentale nel quale si collocano i nuovi eventi (le interpretazioni)[4]. Il crollo dell’autorevolezza e delle gerarchie, della credibilità e dell’attendibilità delle fonti classiche, il processo di autocomposizione dei palinsesti informazionali da parte dell’utente, nonché la nuova relazione che intercorre tra gli individui digitali, che si configurano in semplici utenti, produttori e distributori di contenuti, porta al crollo sistemico dell’intermediazione e alla conseguente definizione di un fenomeno chiave per la comprensione dell’infosfera: la disintermediazione.

Come cambia il rapporto tra cittadini e istituzioni

Nell’infosfera le opinioni si sostituiscono ai fatti, e la disintermediazione ha giocato un ruolo di disarticolazione del rapporto tra cittadini e istituzioni.

La Pubblica Amministrazione ha dovuto fronteggiare cittadini sempre più attratti dalla tecnologia e che utilizzano i propri devices per coltivare interazioni virtuali con il mondo circostante. Questa particolare situazione ha portato la pubblica amministrazione a un cambio di strategia per venire incontro alle esigenze e alle caratteristiche dell’utente medio italiano, cercando di porre al centro della sua azione il processo comunicativo con il cittadino, e non i servizi di e-gov, intercettandolo negli ambienti mediologici dei social network.

Nella big e small conversation con i suoi utenti, le istituzioni pubbliche hanno dovuto fronteggiare la diffusione di bufale e fake news, soprattutto in riferimento a particolari emergenze in cui sono coinvolte figure istituzionali rilevanti, visto e considerato anche l’aumento di aggressività della comunicazione rivolta dai cittadini alle amministrazioni. Questo ha avviato una disintermediazione a spesa della sacralità del ruolo delle istituzioni.

La comunicazione in emergenza

La Pubblica amministrazione e l’Amministrazione centrale dello Stato hanno dovuto affrontare emergenze, catastrofi naturali o/e di tipo sanitario, integrando totalmente i social media quali strumenti di comunicazione istituzionale. Nei giorni in cui ha preso piede la pandemia del Covid19, abbiamo assistito a un’incessante comunicazione istituzionale fatta sui canali social di membri dei governi centrale e regionali, e, soprattutto, dei sindaci. La veicolazione di corrette informazioni in un ambito così delicato come la salute, in caso di pandemia, riveste una strategica importanza, così come la gestione delicata dei media nella piena applicazione dei protocolli di quella che chiamiamo comunicazione in situazioni di rischio e di crisi, atti a bloccare la genesi di infodemie.

Cos’è l’infodemia

Cosa si intende esattamente per “infodemia”? Alcuni fatti, mescolati alla paura, alla speculazione e alle voci, amplificati e trasmessi rapidamente in tutto il mondo dalle moderne tecnologie dell’informazione, hanno influenzato le economie nazionali e internazionali, la politica e persino la sicurezza in modi assolutamente sproporzionati rispetto alle realtà radicali.

Secondo il sito della Treccani, il termine prende origine, dall’ingl. infodemic, a sua volta composto dai s. info(rmation) (‘informazione’) ed (epi)demic (‘epidemia’).

Secondo quanto documentato da Licia Corbolante nel suo blog Terminologia etc., in inglese infodemic è una parola d’autore, coniata da David J. Rothkopf, il quale ne ha trattato in un articolo comparso nel quotidiano «Washington Post», When the Buzz Bites Back[5] (11 maggio 2003). 

Il termine “Infodemic” ricorre nei documenti ufficiali dell’Organizzazione mondiale della Sanità.

Già nei testi di Franco Berardi Bifo, filosofo, nel 1985, si ritrova i concetti di “infovirus” – come malattia di una mutazione delle attività cognitive – e di “epidemia mentale”: l’infosfera, in quanto ecosistema mentale, produce e modifica le condizioni dell’attività cognitiva, l’attività di proiezione e percezione, dunque l’essere sociale dell’uomo[6]. Ma la nozione dei media come virus attinge a una discussione più ampia, nata negli anni Novanta, in cui si paragonano i sistemi di distribuzione culturali ai sistemi biologici.

I virus più virulenti oggi sono composti da informazioni. Un’infodemia non è la rapida diffusione di semplici notizie attraverso i media, né è il semplice pettegolezzo su voci, gossip e false dicerie. Si tratta di un fenomeno complesso causato dall’interazione di media mainstream, media specializzati e siti Internet; e media “informali”, vale a dire telefoni senza fili, messaggi di testo, sistemi di messaggistica, e-mail, post sui social media che trasmettono tutti una combinazione di fatti, voci, interpretazione e propaganda.

Coinvolge i consumatori di informazioni che vanno dai funzionari ai cittadini privati ​​che hanno diverse capacità di vedere l’intero quadro delle informazioni, vari gradi di sofisticazione su cosa fare con le informazioni che hanno, poca opportunità per verificare i dati prima di agire su di essi e poca o nessuna formazione per comprendere o controllare il quadro delle informazioni in rapida evoluzione.

L’infodemia nell’epidemia di COVID-19

Mentre il mondo è alle prese con l’epidemia di coronavirus, i signori dei più grandi canali di comunicazione di Internet sono stati impegnati a condurre una guerra diversa contro la disinformazione. 

L’epidemia di COVID-19 ha rapidamente scatenato un’infodemia non solo attraverso le piattaforme online come Facebook e YouTube, ma anche i mercati, inondandole con una valanga di annunci fuorvianti 24 ore su 24, notizie false, narrazioni su teorie della cospirazione e molto altro ancora.

Nelle ultime settimane, le aziende tecnologiche hanno introdotto una serie di iniziative per arginare questo scatto di disinformazione. Google e Apple hanno iniziato attivamente a reprimere le app relative al coronavirus che non provengono da organizzazioni sanitarie ufficiali e hanno bloccato i risultati di ricerca per query simili sui loro app store. Facebook, Google e Twitter hanno intensificato i loro sforzi di verifica dei fatti per contrassegnare i post che presentano bufale, teorie della cospirazione e altre informazioni sbagliate, come annunci pubblicitari che vendono e promuovono, ad esempio, cure e prodotti sanitari per il coronavirus.

Le ricerche su queste piattaforme sociali presentano automaticamente informazioni da fonti verificate, nonché richieste di ricerca di assistenza medica ogni volta che qualcuno cerca parole chiave basate sulla parola coronavirus.

Facebook e Twitter offrono anche crediti pubblicitari gratuiti all’Organizzazione Mondiale della Sanità per diffondere consapevolezza: “Sappiamo da emergenze precedenti – e da luoghi in cui si sono già verificati focolai di coronavirus in tutto il mondo – che in tempi di crisi le persone fanno affidamento sugli strumenti di comunicazione ancora più del solito. Ciò significa che oltre ad aiutare le persone ad accedere alle informazioni, abbiamo la responsabilità di assicurarci che i nostri servizi siano stabili e affidabili per gestire questo carico e lo prendiamo anche sul serio ”, ha scritto il CEO di Facebook Mark Zuckerburg in un lungo post di Facebook.

Tuttavia la domanda che dovremmo farci è: in un Paese a democrazia evoluta, chi deve parlare in eventi potenzialmente catastrofici, che possono generare un danno collettivo enorme? Qualcuno potrebbe rispondere: “tutti, visto che è un diritto costituzionale”, confondendo il diritto alla libera espressione con la responsabilità delle informazioni e delle decisioni. Confusione che si è generata, anche, grazie alle opportunità del web e dei social network, che ci hanno ormai abituato a una comunicazione “fra pari” e, in parte, deresponsabilizzante e disintermediata.

Un’emergenza come quella del Covid19 si dovrebbe invece affrontare anche a livello comunicativo con gli stessi principi e le medesime procedure tipici del risk/crisis management.

Comunicazione del rischio e salute pubblica: il ruolo della PA

In “Communicating risk in public health emergencies”[7], nel 2017, l’OMS dichiara: “La comunicazione del rischio è un elemento di vitale importanza per la salute pubblica. Durante le emergenze di salute pubblica, le persone devono sapere quali rischi per la salute affrontano, la natura e l’entità dell’evento e quali azioni possono intraprendere per proteggere la propria salute e la propria vita”.

Nell’epoca della disintermediazione e della sovrainformazione, anche le istituzioni, come già fanno tante aziende, devono dotarsi di piani di gestione del rischio che prevedano procedure chiare e condivise di comunicazione, secondo i principi che abbiamo esposto, che raccordino e impegnino Governo centrale, Regioni, Comuni e autorità verticali (es. Istituto Superiore di Sanità).

Solo così alla capacità di intervento sulle emergenze, spesso eccellente nel nostro Paese, si potrà affiancare anche un’adeguata responsabilità nella gestione della comunicazione e del flusso informativo.

Nelle situazioni di rischio, di emergenza e di crisi, ma potremmo anche aggiungere nella lotta contro le fake news e la misinformation[8], è indispensabile che l’informazione sia certificata, puntuale e capillare.

La Pubblica Amministrazione ha il dovere di inviare informazioni certificate, in termini di continual communication social improvement, dove e quando servono, attivando una comunicazione virtuosa bidirezionale con i cittadini, nel totale rispetto delle normative privacy.

La Pubblica Amministrazione è la fonte certificata per eccellenza, al netto degli esperimenti che altri player, non di tipo pubblico, come ad es. l’Ordine dei Giornalisti, provano a mettere in campo con PIC – Protocollo Informazione Certificata, o come i social media dal bollino blu, o NewsGuard[9] per le valutazioni di affidabilità di per i siti web.

La Pubblica Amministrazione e le Amministrazioni centrali dello Stato dovrebbero capire e favorire l’applicazione di un decalogo di regole semplici e sempre valide per i new media quali:

  1. verificare sempre le informazioni e l’attendibilità delle fonti;
  2. segnalare le pagine che riportano informazioni sbagliate;
  3. non mandare memi (immagini, video, audio) a tema coronavirus nelle chat di whatsapp o in altre app di messaggistica istantanea;
  4. non utilizzare emoji che segnalano “emergenza”;
  5. non visitare in modo compulsivo i siti di informazione;
  6. oscurare le pagine che utilizzano un tono di voce allarmistico, risaltando i siti istituzionali preposti;
  7. parlare con amici e colleghi anche di argomenti diversi;
  8. non fare foto quando si esce per andare al supermercato;
  9. non avventurarsi in battaglie nei commenti di Facebook;10) staccare il telefono e lavare la mente con libri, film e serie tv dedicandosi ai propri affetti.

Comunicazione in emergenza: le Linee guida dell’OMS

Le direttive dell’OMS[10] sulla comunicazione delle epidemie sono state sviluppate in risposta alle sfide poste alla comunicazione dalla grave epidemia di sindrome respiratoria acuta (SARS) del 2003.

Le linee guida consistono in cinque principi per guidare la comunicazione durante le epidemie e altre emergenze:

  • costruire fiducia;
  • annunciare tempestivamente;
  • essere trasparenti;
  • rispettare le preoccupazioni del pubblico;
  • pianificare le azioni in anticipo.

A questi principi non dobbiamo dimenticare di applicarne altri cinque strategici come:

  • centralizzare le informazioni;
  • evitare le informazioni in eccesso;
  • evitare le previsioni, in assenza di certezze e alla presenza di dati incerti;
  • evitare personalismi e gesti eclatanti;
  • coordinare il sistema delle informazioni abilitando flussi certificati e coordinando i media.

A prima vista, queste linee guida sono semplici e dirette, ma – come hanno dimostrato l’esperienza della SARS e dell’H1N1 – il controllo e la comunicazione dell’epidemia sono raramente un processo puro e pulito per ottenere la fiducia del pubblico e trasmettere informazioni in modo obiettivo, (vigile) e aperto.

Comunicazione e percezione del rischio

Nel campo della comunicazione delle epidemie, il paradigma psicometrico è il dominante nella comunicazione del rischio per la salute.

Le linee guida dell’OMS, così come i piani di comunicazione nazionali di molti paesi, si basano sulla visione di come il rischio viene percepito e comunicato.

Sulla base di studi psicometrici sulla percezione del rischio, Paul Slovic et al. ha sviluppato un modello base di percezione del rischio, elencando diversi fattori che hanno indotto le persone ad avvertire gli eventi come ad alto rischio, anche quando gli esperti li hanno giudicati a basso rischio.

Peter Sandman ha utilizzato i risultati di Slovic e altri per sviluppare una formula che spiega bene i danni della cattiva comunicazione del rischio: R = H + O, dove R è il rischio percepito, H il rischio misurabile (hazard) e O è l’outrage, cioè il senso di offesa, oltraggio, ingiustizia patita che il pubblico prova ogniqualvolta non viene informato adeguatamente di un pericolo.

La formula gli serve per rendere consapevoli le autorità pubbliche dell’importanza di una buona comunicazione sui rischi di varia specie e natura con i quali quotidianamente ci troviamo a vivere – dalla pandemia al terremoto, dall’inquinamento alla sorte dei voli aerei e dei ben più pericolosi viaggi in auto.

L’esperienza insegna che l’outrage va alle stelle – e con esso il rischio percepito – quando non si danno le informazioni.

Ancora peggio se si negano informazioni che un tempo si davano, magari per paura di “allarmare” la popolazione.Nulla è peggio di dare l’idea di nascondere informazioni importanti; scatta immediatamente la sindrome “censura”, e l’allarme, anziché ridursi, esplode.

Alcune regole per la comunicazione durante le epidemie

Per una applicazione delle regole di comunicazione in epidemia dobbiamo tenere conto che:

  • in circostanze normali, le persone si fidano di coloro che mostrano competenza nella materia di cui stanno parlando;
  • in situazioni di forte stress, le persone attribuiscono un valore maggiore alla compassione e all’empatia rispetto alla competenza o all’esperienza;
  • ancora più importante, le persone in situazioni di forte stress di solito decidono in meno di 30 secondi se il portavoce è empatico, compassionevole e affidabile;
  • quando le persone sono stressate e turbate, spesso hanno difficoltà a sentire, comprendere e ricordare più di tre messaggi alla volta;
  • il rumore mentale causato da negazione, stress emotivo e traumi, tra le altre cose, può ridurre la capacità di una persona di elaborare le informazioni sulla situazione fino all’80%;
  • il numero di messaggi che le persone possono ascoltare, comprendere o ricordare è fortemente limitato;
  • il tempo disponibile per la comunicazione potrebbe anche essere limitato;
  • un messaggio importante dovrebbe essere ripetuto per aumentare le possibilità che le persone li ricordino;
  • in situazioni di forte stress, le persone tendono a prestare maggiore attenzione alle informazioni negative rispetto a quelle positive;
  • le persone che sono turbate tendono a pensare negativamente;
  • la ripetizione di un negativo rafforza e ribadisce il negativo;
  • parole come “NO”, “NON PUOI”, “NON”, “MAI”, “NIENTE” e “NESSUNO” aggravano il dominio negativo. Per cui va applicata una proporzione: un termine negativo per tre termini positivi;
  • le parole negative dovrebbero essere evitate se possibile.

Conclusioni

Il problema della “fake news pollution” permane nei media professionali, la cui illusione di rappresentare l’unico e insostituibile canale di informazione certificata per i cittadini e l’argine contro le fake news e i troppi ciarlatani che imperversano nella rete, appare più una guerra di propaganda che di oggettività.

L’utilizzo del metodo scientifico costituisce un valido rimedio alla fallacia delle percezioni idiosincraticamente orientate, dato che i pregiudizi e le misperceptions[11] sono più frequenti allorché si lavori su materiali ambigui e spesso discordanti.

L’eccesso informativo diventa sempre più spesso causa di opacità e confusione, piuttosto che facilitare la comprensione della realtà.

L’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione che consuma l’attenzione. E non solo.

Per questo lo Stato e la Pubblica Amministrazione devono assurgere a un ruolo fondamentale di gestione e promozione, attraverso la produzione di informazione dimostrata e la definizione di un sistema di fonti certificate, dei processi della comunicazione istituzionale in situazioni di rischio e di crisi, e sono da considerarsi l’unico attore di riferimento per separare i fatti dalle opinioni.


[1]Nell’Oxford Dictionary si trova una definizione di shitstorm in questi termini “a situation marked by violent controversy” e lo si contrassegna come linguaggio volgare. In Italia il termine è diventato parte del linguaggio comune, anche grazie al suo uso su blog e giornali.

[2] Significato mediascape è l’insieme dei messaggi mediali che avvolgono l’individuo e una collettività. Si potrebbe tradurre con ‘paesaggio mediale’ o ‘contesto mediale’, ma in questo modo si perderebbe il riferimento al quadro teorico in cui il neologismo è nato. È stato proposto nel 1990 da Arjun Appadurai, uno studioso della globalizzazione, nel suo articolo Disjunture and difference in the global cultural economy.

[3] Marshall McLuhan (2011), Capire i media. Gli strumenti del comunicare, Maestri del ‘900, Il Saggiatore

[4] Un qualsiasi dizionario indica il significato del termine “fatto“ come: ciò che è concreto, verificato, contrapposto a ciò che è generico, frutto di sole parole, è un dato oggettivo, il significato “denotativo” di una frase.  “Opinione”, invece, significa: idea, giudizio individuale, punto di vista soggettivo.

[5] Washingtonpost.com [Online] Disponibile a questo link [Ultimo accesso 29.03.2020]

[6]Rushkoff scrive in “Media Virus”: «I media virus si diffondono attraverso la datasfera come quelli biologici si diffondono in un corpo o in una comunità». Ma, anziché propagarsi in un sistema di circolazione organica, un media virus attraverso le reti del mediaspazio. Il “guscio proteico” di una media virus può essere un evento, un’invenzione, una tecnologia, un sistema di pensiero, un riff musicale, un’immagine visiva, una teoria scientifica, uno scandalo sessuale, uno stile di abbigliamento o addirittura un eroe pop – basta che catturi la nostra attenzione. Qualsiasi guscio di media virus cercherà le nicchie e gli angolini ricettivi nella cultura popolare e farà presa ovunque verrà notato. Una volta che si è insediato, il virus inietta i suoi programmi più nascosti nel flusso dei dati sotto forma di codice ideologico – non geni, ma un equivalente concettuale che ora chiamiamo “memi”».

Nel 1996 Richard Brodie, nel libro “Virus della Mente” riprende l’argomento scrivendo: «un virus mentale non si trasmette mediante lo starnuto, come succede per l’influenza, o attraverso l’atto sessuale come accade, per l’aids. […] I virus della mente sono trasmessi da cose comuni come l’atto di comunicare. […] In un certo senso i virus mentali sono il prezzo da pagare per la libertà a cui teniamo di più: la libertà di parola. Quanto più esiste libertà di comunicare, tanto più è facile creare l’ambiente adatto per la nascita di virus della mente[…] La missione di un virus è di fare quante più copie di se stesso è possibile».

Di infovirus parla anche Kalle Lasn, fondatore della rivista “Adbusters” nel libro “Culture Jam”, ricostruendo l’intera mutazione della società contemporanea e la sua progressiva trasformazione in un panorama mentale (mindscape) fortemente interconnesso, in cui le macchine di produzione immaginaria colonizzano le menti degli individui.

In questa era guidata dalle informazioni, il modo più semplice per manipolare la cultura è attraverso i media. 

Nel 1994, nei libri “Cyberia” e “Media virus. Hidden agendas in popular culture”, Douglas Rushkoff descrive la cultura in cui navigano le società come una “datasfera” o un “mediaspazio”, “un nuovo territorio per l’interazione umana, l’espansione economica e, in particolare, per la macchinazione sociale e politica che è sorto in conseguenza della rapida espansione delle tecnologie della comunicazione e dei media

[7] WHO Communicating risk in public health emergencies [Online] Disponibile a questo link [Ultimo accesso 29.03.2020]

[8] Terminologiaetc.it [Online] Qui [Ultimo accesso 29.03.2020]

[9] NewsGuard [Online] Disponibile qui [Ultimo accesso 29.03.2020]

[10] WHO Outbreak communication guidelines [Online] Disponibile qui [Ultimo accesso 29.03.2020]

[11] Percezione falsa o inaccurata

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