Pa senza carta, Penzo Doria: “Basta stop&go. Una tregua normativa per fare sistema”

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Gli enti devono aggregarsi e redigere piani comuni e condivisi di digitalizzazione nativa. Quanti enti pubblici hanno oggi un Manuale di gestione adeguato e allineato alle nuove normative appena entrate in vigore? Nessuno. Bene, allora risulta necessario proporre modelli per trovare una massa critica di soluzioni, di buone pratiche e tentare di andare nella stessa direzione

27 Settembre 2016

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Gianni Penzo Doria, direttore generale dell’Università degli Studi dell’Insubria

Il digitale non ha mai avuto bisogno di normativa speciale, se non cenni di carattere generale, peraltro contenuti già nella Costituzione e nella normativa primaria. Semmai, ha sempre avuto la necessità imprescindibile di regolamentazione tecnica, adeguata ai principi internazionali e aggiornata alle nuove tecnologie. Anzi, per come è stato modificato e integrato dopo il D.Lgs. 179/2016, il Codice dell’amministrazione digitale poggia le proprie basi più solide nel Codice civile, che rimane tuttora la norma fondamentale per l’introduzione dell’informatica nelle amministrazioni pubbliche e nei rapporti con cittadini e imprese.

La rivoluzione digitale ha bisogno, in primo luogo di certezze giuridiche e tecnologiche. Le seconde ci sono e ci dicono che un documento digitale si trasforma continuamente nel tempo, in una sorta di mutazione genetica che serve a preservarne il contenuto indipendentemente dalla forma. Per la tradizione scritta si tratta di un cambio epocale, ma inevitabile.

Le certezze giuridiche, invece, continuano a dare segni di cedimento e di incoerenza. In poco più di dieci anni, ad esempio, gli artt. 20-23 del CAD sono stati oggetto ossessivo di riformulazione compulsiva, addirittura in modo ciclico. Il legislatore, infatti, spesso è tornato sui propri passi e ha lasciato pochi mesi per far sedimentare le novelle per poi rinnegarle o per modificarle. Abbiamo assistito a un bradisismo normativo che è proseguito non tanto con una logica incrementale, quanto piuttosto per approssimazioni successive in maniera scomposta.

Per fortuna, oggi abbiamo un insieme di regole tecniche che hanno messo un punto fermo nella produzione, nella gestione e nella conservazione dei documenti digitali e, soprattutto, degli archivi come complessi unitari inscindibili. In particolare, mi riferisco al DPCM 13 novembre 2014 (Produzione), al DPCM 3 dicembre 2013 (Gestione) e all’altro DPCM 3 dicembre 2013 (Conservazione). Senza questa regolamentazione, redatta in maniera puntuale e accurata, avremmo un’amministrazione digitale allo sbando e alla ricerca dell’ ubi consistam. Abbiamo anche un presidio autorevole, o meglio, lo avremmo in AgID. Per farlo, il Governo dovrebbe scegliere la rotta e affidarla a un unico comandante, limitando gli interventi della Funzione pubblica e del Legislativo allo stretto necessario e potenziando le risorse umane di AgID, attualmente molto qualificate ma esigue.

Il Paese delle Milleproroghe e del “di norma”

Abbiamo, ora, un nodo da sciogliere. Uno strappo alla tradizione non accompagnato da formazione e da un tempo di sedimentazione adeguato. Il DPCM 13 novembre 2014, art. 9, comma 2, infatti, ha previsto il digitale nativo, cioè la produzione esclusivamente digitale dei documenti delle amministrazioni pubbliche dal 12 agosto 2016. Come sappiamo la scadenza è stata posticipata al gennaio 2017, ma con ragionevole certezza, sarà prorogata.

In primo luogo perché il digitale non si introduce a colpi di Gazzetta ufficiale, ma attraverso la formazione del personale. In molti hanno gridato alla scandalo, alla beffa del rinvio; in moltissimi hanno tirato un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo. Invece è stato saggio differire una norma che avrebbe messo “fuori norma” il 90% delle amministrazioni pubbliche (detto in difetto e con eufemismo). In seconda battuta, il fattore tempo in maniera diacronica (pochi mesi) e sincronica (sotto Ferragosto) non ha giocato a favore.

Ad esempio il regolamento che ha introdotto, a pena di nullità, il protocollo informatico (DPR 20 ottobre 1998, n. 428, poi confluito nel DPR 28 dicembre 2000, n. 445) aveva assegnato un termine di cinque anni (1° gennaio 2014) per eliminare le repertoriazioni cartacee. Si trattava solo di un registro, non dell’intero complesso documentale prodotto da tutte le amministrazioni pubbliche.

E’ vero che a volte serve uno strappo, ma questo deve essere credibile, non un insieme di stop&go all’ultimo secondo. In caso contrario finisce con il diventare uno spot boomerang. Già, perché questa fenomenologia altro non fa che alimentare le convinzioni dei digitalscettici, in una sorta di resilienza negativa, di involuzione accompagnata da autocompiacimento emotivo.

Accadde così anche alla norma, contenuta nella legge 69/2009 art. 32, sull’albo on-line, differita un paio di volte proprio perché non accompagnata da formazione e dalla variabile tempo. E così anche per la fatturazione elettronica, scaglionata in base delle tipologie di ente.

Nel caso in commento, inoltre, dovremmo anche risolvere una questione giuridica di non poco conto. Il D.Lgs. 12 febbraio 1993, n. 39 art. 3 comma 1, recita: “Gli atti amministrativi adottati da tutte le pubbliche amministrazioni sono di norma predisposti tramite i sistemi informativi automatizzati”. Già immagino i sofisti sottigliare su quel “predisporre” in luogo di “formare”, ma la sostanza non è apparenza formale. Sappiamo, inoltre, che il D.Lgs. è norma di rango superiore al DPCM e che quel “di norma”, tanto amato quando fa comodo, mette il cuore in pace. Già, perché l’Italia, oltre a essere il Paese in cui tutto è prorogabile perché abbiamo inventato una norma pigliatutto che si chiama, appunto, Milleproroghe, è anche il Paese del “di norma”. Ma come? Quel sintagma dovrebbe avere – letteralmente – un significato opposto a quello comune. Dovrebbe, infatti, significare “lo prevede la norma” e non “lo prevede la norma, ma è possibile derogare”. Stranezze italiche.

Sullo sfondo, infine, rimane anche il DPCM 21 marzo 2013, che permette alle amministrazioni pubbliche di continuare a formare gli originali su supporto tradizionale. E si tratta di una norma di pari rango a quella che ha previsto il digitale nativo, non in contrasto, ma in affiancamento equilibrato. Insomma, abbiamo un fuoco di fila di norme e contro-norme, ma ora l’amministrazione digitale italiana ha estremo bisogno di una tregua normativa, di un cessate il fuoco.

Cosa fare prima della scadenza del gennaio 2017

La prima cosa da agire è fare sistema. Gli enti devono aggregarsi e redigere piani comuni e condivisi di digitalizzazione nativa. Quanti enti pubblici hanno oggi un Manuale di gestione adeguato e allineato alle nuove normative appena entrate in vigore? Nessuno. Bene, allora risulta necessario proporre modelli per trovare una massa critica di soluzioni, di buone pratiche e tentare di andare nella stessa direzione.

Esiste una mappatura dei documenti vitali (intesi in senso tecnico)? Ne ho viste poche e tutte approssimative. Anche in questo caso, serve capacità di lavorare insieme, di cum-laborare e di trovare la quadra su questioni strategiche.

Esistono piani di conservazione, rectius Massimari di selezione, che prevedano lo scarto dei documenti digitali dichiarati inutili? Conserviamo troppo e molto male. Invece il digitale, soprattutto in virtù di una massa ingente e informe di dati, deve essere selezionato per la conservazione a lungo termine.

Abbiamo una mappatura dei procedimenti amministrativi tipici per tipologia di ente, adeguata e non redatta con mentalità pragmatica ma giuridica? Poche, pochissime. E, in molti casi, le procedure, le attività e i processi si confondono con i procedimenti amministrativi, che sono azione-funzione delineata con rigore dall’ordinamento giuridico. Solo così arriveremo pronti alla scadenza del 2017 o a quella probabilmente contenuta nel prossimo Milleproroghe.

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