Riforma Pa, passo indietro su software libero e continuità operativa

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Nel testo recentemente pubblicato sul sito del Governo, se ne vanno
interoperabilità e cooperazione applicativa, che non sono riprese in
altre parti del CAD, e il repertorio dei formati aperti: l’art. 68 appare depotenziato e non è un bene; questo infatti non è un orpello perché obbliga le PA ad effettuare valutazioni comparative serie e scegliere soluzioni libere o in riuso
– a parità di qualità – rispetto al software proprietario

9 Febbraio 2016

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Morena Ragone e Emma Pietrafesa, Stati generali dell'Innovazione, Sonia Montegiove, LibreItalia

La Riforma del Codice dell’Amministrazione Digitale contiene un passo indietro importante sugli obblighi relativi al software libero e alla continuità operativa, per le pubbliche amministrazioni.

Sono novità che rischiano di passare inosservate, nel mare magnum del testo. La prima risulta dalle modifiche apportate dall’art. 68, che regola l’analisi comparativa delle soluzioni in caso di acquisti di software. Nel testo recentemente pubblicato sul sito del Governo, risultano eliminati alcuni commi: il 2, il 2-bis e il 4. Con questi, se ne vanno interoperabilità e cooperazione applicativa, che non sono riprese in altre parti del CAD, e il repertorio dei formati aperti previsto al comma 4. Così come scompare la possibilità per le Pubbliche Amministrazioni di chiedere un parere preventivo ad AGID circa la correttezza delle scelte fatte rispetto all’acquisizione del software. Strada probabilmente poco percorsa, ma che di certo aiutava a veicolare il concetto che l’art. 68 non è un orpello al decreto, bensì obbliga le PA a d effettuare valutazioni comparative serie, come stabilito dalla circolare Agid 63/2013, e scegliere soluzioni libere o in riuso – a parità di qualità – rispetto al software proprietario.

> Questo articolo fa parte del dossier “Speciale CAD, grandi firme commentano il codice della PA digitale”

Una domanda con queste premesse sorge spontanea: che fine fa, dopo il rinnovo del CAD, l’open source in Italia, con una norma che adesso diventa monca e che perde la linearità e contiguità data dallo stretto rapporto tra i commi e dall’espressa previsione di formati aperti obbligatori e del loro repertorio?

Non sarà che l’Italia fa un passo indietro sul software libero proprio mentre il Parlamento Europeo si è espresso in suo favore?

Lo scorso 29 ottobre infatti, il Parlamento europeo, nella Risoluzione che ha dato seguito a quella sulla sorveglianza elettronica di massa dei cittadini dell’Unione ( 2015/2635(RSP)), ha ribadito la propria posizione in merito alla sostituzione sistematica di software proprietari, sostenendo la necessaria migrazione verso soluzioni software open source, attraverso l’introduzione di un criterio di scelta obbligatoria delle soluzioni open a favore di quelle proprietarie in tutte le future procedure di appalto per il settore ICT.

E’ vero che questo punto non è stato toccato all’interno dell’art. 68 – laddove la scelta dell’apertura resta una delle possibili e prevalenti alternative della valutazione tecnico-economica delle soluzioni disponibili sul mercato – ma la mancata previsione dei formati aperti quale significato prospettico ha? E poi, a cosa si interfaccia, ora, la definizione dell’art. 68, comma 3, dove il “formato dei dati di tipo aperto” è “ un formato di dati reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei dati stessi ”?

La posizione del Parlamento europeo è molto chiara: introdurre, laddove necessario modifiche di natura legislativa nel settore degli appalti, al fine di potenziare la sicurezza informatica delle istituzioni dell’UE e soprattutto sottolineando la necessità specifica di sostituzione sistematica di software proprietario con soluzioni open source , quindi controllabile e verificabile, all’interno di tutte le istituzioni dell’Unione Europea. Ovvio che il settore degli appalti e le relative procedure di gara debbano vedere l’introduzione di criteri di selezione open obbligatori.

L’equazione del Parlamento è molto chiara: aperto uguale trasparente, trasparente uguale più sicuro . Allora perché la scelta del Governo di depotenziare l’art. 68?

Nella stessa anomala direzione sembra andare l’abrogazione espressa dell’art. 50-bis, che aveva introdotto la continuità operativa: gli “scenari di rischio” prefigurati dalla norma non sono certo diminuiti, anzi; quali norme, quindi, sostituiranno l’obbligatoria previsione dei piani di emergenza e di disaster recovery? Vedremo quale sarà la scelta definitiva e, soprattutto, cercheremo di capirne le ragioni. Speriamo, però, che non si cerchi di aprire qualche crepa per ragioni politiche o economiche a noi sconosciute nel difficile percorso di valorizzazione del software libero finora fatto.

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