Saremo nuovi cittadini attivi e partecipi o saremo sudditi: ecco il bivio

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Il cambiamento sociale e culturale è il “prodotto” complesso di processi e meccanismi dal basso. Ecco perché

8 Giugno 2016

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Piero Dominici

La costruzione di una governance democratica, con i relativi processi di partecipazione e coinvolgimento ( engagement) dei cittadini, è processo estremamente complesso e caratterizzato da ambivalenza. Un processo che chiama in causa numerose variabili, approcci, metodi di analisi e rilevazione ma che richiede anche, e soprattutto, immaginazione, capacità di “fare rete” (e “fare sistema”) e, allo stesso tempo, di visione sistemica di lungo periodo. Un processo che può trovare una sua effettiva traduzione soltanto se supportato da una cultura della complessità e della condivisone che fatica ancora molto ad affermarsi dentro e fuori le organizzazioni (pubbliche e private). E, come affermato più volte, non saranno certamente le tecnologie della connessione (Dominici, 1998) e/o nuove leggi/normative a risolvere tutte le criticità; al contrario, le continue accelerazioni, nel determinare nuove opportunità, innescano e radicalizzano problemi di gestione e controllo.

In uno scenario così complesso, nel “nuovo ecosistema” (1996), si rivela tutt’altro che semplice definire e costruire le condizioni di una partecipazione pubblica che non è, e non può essere, semplice acquisizione di consenso – magari ottenuto anche attraverso sofisticate strategie di marketing – su modelli, azioni, pratiche, servizi che sono stati, in ogni caso, definiti, progettati, calati/imposti dall’alto da parte di saperi esperti ed élite. Si pensi, in tal senso, anche alla questione di una tecnocrazia sempre più invasiva che occupa, ogni giorno di più, quegli spazi sociali e politici (della πολις) lasciati vuoti da una Politica sempre più marginale, soprattutto quando deve confrontarsi con poteri economici.

La partecipazione è “fatta” di processi di negoziazione, continua e costante, che devono articolarsi dal momento dell ’ideazione fino a quello della decisione; e, a questo livello, non è più possibile continuare a non fare i conti con i “cittadini reali” (passatemi il termine) che, al di là della questione “competenze digitali” (giustamente, molto dibattuta), si discostano in maniera significativa da quella figura quasi idealtipica di “cittadino ideale” (critico, informato, competente, in grado di interagire alla pari con la PA e, più in generale, con il potere), spesso immaginata e presa come riferimento da parte degli stessi decisori; allo stesso tempo, non è più possibile continuare a non fare i conti con variabili e criticità preoccupanti come l’ analfabetismo funzionale , la povertà educativa e, più in generale, le condizioni critiche in cui versano scuola e università che, da tempo, non stanno più svolgendo le loro funzioni di ascensori sociali. La cosiddetta “società civile” è destinata a rimanere anello debole (2000 e sgg.), all’interno delle dialettiche complesse e ambigue della prassi democratica.

Oltretutto, dobbiamo prendere atto di trovarci «[…] all’interno di un orizzonte socioculturale, di prospettive – di discorso e azione – ma, soprattutto, di strategie (di breve periodo) tuttora fondate su una consapevolezza assolutamente parziale della multidimensionalità, dell’ambiguità e dell’imprevedibilità che contraddistinguono i processi di innovazione e cambiamento. Una consapevolezza, spesso soltanto dichiarata, che porta a ridurre, talvolta banalizzare, gli stessi concetti di comunicazione, condivisione, inclusione, cittadinanza, democrazia. Con il rischio, tra i tanti, di determinare, in maniera irrecuperabile, le condizioni strutturali di un’innovazione tecnologica senza cultura. Anche su questo aspetto siamo tornati a più riprese. Ci limitiamo a ribadire che parlare di inclusione, cittadinanza, democrazia digitale senza tentare almeno di contrastare fenomeni e processi che le rendono difficilmente realizzabili (ostacolando l’ innovazione aperta e inclusiva), equivale al legittimare i meccanismi di un contesto storico sociale sempre più segnato da disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale che definiscono in maniera netta la stratificazione sociale, anche a livello globale». Finché non sarà garantita l’eguaglianza delle condizioni di partenza, anche parlare di “cittadinanza” e “inclusione” rischia di diventare un esercizio puramente retorico. E – ci tengo a ribadirlo – non ci potrà essere alcuna cittadinanza digitale senza garantire i diritti di cittadinanza, oltre evidentemente a quelli della Persona. In tempi non sospetti, abbiamo proposto la definizione di “società asimmetrica”(2003), proprio in una fase estremamente delicata di mutamento, in cui le narrazioni egemoni sulla Rete e sulla rivoluzione digitale presentavano, quasi in termini di nesso di causalità, la relazione tra digitale e partecipazione, tra “digitale” e “fiducia” – tuttora confusa, non soltanto in politica, sia con la popolarità on line che con una certa idea/visione dell’immagine e della reputazione – tra digitale e inclusione; infine, tra digitale e cittadinanza.

I concetti stessi di partecipazione e cittadinanza chiamano in causa una questione di carattere più generale, ma di fondamentale importanza: l’urgenza di ripensare il “contratto sociale” (2003) e, conseguentemente, di ridefinire le regole di ingaggio della cittadinanza e dell’inclusione. E, su questo terreno, non possiamo non prendere atto di un ritardo culturale importante, ribadendo con forza una nostra vecchia formula: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza, educati alla libertà ed alla responsabilità. Educati ad una cittadinanza (stesso discorso vale per la costruzione sociale di una cultura della legalità e/o di una cultura della prevenzione: si costruiscono a scuola!) che – bene esser chiari – è fatta di diritti, che devono essere conosciuti ma anche di doveri. In ogni caso, occorre agire e intervenire, con una certa urgenza, là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa “società asimmetrica” e diseguale (scuola e università); là dove si producono, elaborano, distribuiscono informazioni e conoscenza, le “vere” risorse strategiche del nuovo ecosistema. Con la centralità, ancora una volta, posta sui processi educativi e formativi, sul capitale umano e le Persone che, a loro volta, devono contribuire attivamente a co-costruire uno spazio sociale e comunicativo in grado di generare e distribuire valore e, perché no, “fiducia”; vero e proprio dispositivo fondamentale per l’esistenza stessa dei sistemi sociali, ancor prima che democratici.

La/le libertà comporta/comportano responsabilità significative di cui non dobbiamo avere paura. E per (almeno) tentare di realizzare tutto ciò, solo e soltanto nel lungo periodo, istruzione ed educazione devono preoccuparsi di colmare quel preoccupante gap, di cui sopra, tra “cittadino ideale” e “cittadino reale”; devono preoccuparsi di formare Persone e Cittadini in grado di sfruttare le opportunità determinate dall’innovazione tecnologica e della società interconnessa/iperconnessa; ma anche, e soprattutto, Persone e Cittadini in grado di contribuire ad un cambiamento sociale e culturale che non può essere soltanto imposto/guidato e che non può più non fare i conti con la famosa “questione culturale” e l’assenza di un’etica pubblica condivisa.

«Il presupposto forte della presente analisi è che soltanto l’affermazione e la diffusione capillare della cultura della comunicazione (come condivisione della conoscenza), in generale, nei sistemi sociali ed, in particolare, all’interno ed all’esterno delle pubbliche amministrazioni e del sistema delle imprese (concetto di organizzazione come “sistema aperto”) possa effettivamente creare le condizioni per la realizzazione di quei fondamentali diritti/doveri di cittadinanza senza i quali il cittadino-utente-consumatore non può evidentemente trovare nessun tipo di legittimazione/riconoscimento alle sue istanze. Ritrovandosi, di fatto, in una condizione di sudditanza, all’interno di una sfera pubblica del tutto inconsistente. Il profondo convincimento […] è che, a livello della prassi, le categorie del rischio e del conflitto nei sistemi sociali e nelle organizzazioni complesse, siano strettamente in correlazione con una cattiva/inefficace gestione delle conoscenze o, peggio ancora, con l’impossibilità di avere accesso a queste e di farne un uso consapevole e razionale […] Da questo punto di vista, non ci stancheremo mai di ribadire l’importanza cruciale di un principio che, soltanto in apparenza, si presenta banale e/o scontato: chi possiede più conoscenza (in termini di controllo, possesso, accesso ed elaborazione), così come chi controlla più informazioni, ha anche più potere sia a livello di comunicazione interpersonale, che di comunicazione organizzativa o macro-sistemica. In altri termini, a qualsiasi livello di analisi e della prassi, chi possiede più conoscenza – nella fase attuale, anche chi ha più possibilità di elaborazione della stessa – e ha più competenze (si pensi per un sistema-Paese alla rilevanza strategica di istruzione, formazione e ricerca) è senza dubbio più in grado di orientare l’evoluzione delle dinamiche e dei processi che caratterizzano i rapporti sociali, economici, politici. Conoscenza e competenze, cioè, sono in grado di determinare i rapporti di forza in ogni sfera della vita sociale, organizzativa, sistemica con evidenti ricadute per la cittadinanza e le democrazie. “Vecchie” questioni …ma sempre cruciali -> conoscenza=potere» (Dominici, 2003 e 2005).

Preso atto delle caratteristiche dei nuovi ecosistemi sociali (1996) e della ipercomplessità (2000) che li caratterizza, ritengo che la sfida più importante sia, ancora una volta, quella di abilitare le persone, i cittadini (non soltanto nella loro veste di consumatori), a gestire, in maniera quanto più possibile consapevole e competente, i processi e le dinamiche che li riguardano da vicino e che contraddistinguono il nuovo ecosistema. In altre parole, è di vitale importanza creare le condizioni “strutturali” affinché sappiano abitare tali ecosistemi, sappiano abitare quello che di fatto è, non soltanto un nuovo spazio pubblico illimitato – in grado di definire le “identità”, le “soggettività” e lo spazio comunicativo pubblico in cui si realizzano ed evolvono – ma anche, e soprattutto, un Panopticon globale, all’interno del quale le logiche di controllo e sorveglianza totale erano, sono e saranno sempre quelle dominanti.

E come ripeto da anni: per questa ipercomplessità non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza…per abitudine culturale; cittadini in possesso di competenze non soltanto tecniche e/o digitali ma, soprattutto, educati e formati alla complessità e al “pensiero critico”; educati e formati a comprendere l’importanza della condivisione e della cooperazione per poter superare concretamente le vecchie logiche di possesso e controllo: perché condivisione e cooperazione sono essenziali nella produzione (sociale e collettiva) di conoscenza e cultura, i veri motori dell’innovazione; e devono essere educati e formati anche al “sapere condiviso”(2000), non tanto perché questi presupposti – a mio avviso strategici, vitali – rappresentano la “nuova utopia” da inseguire, quanto perché – ed è incredibile come, a tutti i livelli, ancora non ci sia consapevolezza e unità d’intenti – sono l’economia della condivisione (1998) e la società della conoscenza a richiedere elevati livelli di istruzione e formazione, oltre ad un aggiornamento continuo in ambito lavorativo e professionale (dati e ricerche su analfabetismo funzionale e povertà educativa restituiscono un quadro tutt’altro che rassicurante, e la cosa che mi fa più impressione è che ne parlavo quasi vent’anni fa…).

In tal senso, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale profondo sono sempre il prodotto complesso, da una parte, di processi e meccanismi sociali che devono partire dal basso; dall’altra, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate da una politica che ha tolto loro autonomia. Servono politiche (lungo periodo) che, oltre ad essere immaginate in un’ottica globale, vanno progettate e realizzate con una prospettiva sistemica, per poi essere costantemente valutate e monitorate nei loro effetti. Dimensioni completamente disattese, basti pensare p.e. all’assenza di una “vera” politica industriale nel nostro Paese. L’innovazione è processo complesso, anzi è complessità: istruzione, educazione, formazione – evidentemente – ne devono essere gli “assi portanti”, non un qualcosa che arriva “a valle” dei processi di mutamento. Altrimenti, saremo sempre costretti a rincorrere le accelerazioni dell’innovazione tecnologica , con pochissime speranze di raggiungerla e, allo stesso tempo, di metabolizzarne i cambiamenti indotti. I rischi – come dico sempre – rimangono quelli di un’innovazione tecnologica senza cultura e di una illusione della cittadinanza: una cittadinanza e una partecipazione, non negoziate e costruite socialmente e culturalmente all’interno di processi inclusivi, bensì imposte dall’alto senza calarsi, completamente e concretamente, nelle prospettive dei destinatari di queste azioni/strategie. Di coloro che sono chiamati ad esercitare la cittadinanza e la partecipazione, alimentandole costantemente. Saremo sempre più costretti a scegliere tra la “libertà/responsabilità di essere cittadini” e la “libertà/responsabilità di essere sudditi” (Dominici, 2000). In questo caso, una terza via non è data!

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