Trasparenza e dati aperti: cronaca di un possibile equivoco

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Quale è il fine del rilascio dei dati pubblici in formati aperti e riutilizzabili? Trasparenza? Sviluppo economico? Entrambi? Se non si chiarisce questa ambiguità è difficile impostare politiche pubbliche efficaci. In questo articolo Morena Ragone e Francesco Minazzi forniscono qualche breve spunto di riflessione utilizzando anche il confronto con altri contesti internazionali.

19 Giugno 2013

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M. Morena Ragone e Francesco Minazzi

Quale è il fine del rilascio dei dati pubblici in formati aperti e riutilizzabili? Trasparenza? Sviluppo economico? Entrambi? Se non si chiarisce questa ambiguità è difficile impostare politiche pubbliche efficaci. In questo articolo Morena Ragone e Francesco Minazzi forniscono qualche breve spunto di riflessione utilizzando anche il confronto con altri contesti internazionali.

La premessa è d’obbligo: la discussione sulla natura dei dati aperti, se essi siano espressione della trasparenza amministrativa, o si contraddistinguano per altre caratteristiche è uno dei temi di maggiore attualità all’interno delle community.

Il quadro, già complesso di per sè, appare offuscato anche dagli oscillamenti e le inaccortezze del nostro Legislatore, che, ad avviso di chi scrive, ha alimentato la confusione in atto, adottando, da ultimo, il c.d. “Decreto Trasparenza”  – decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 – il cui testo dà origine ad ulteriori fraintendimenti, miscelando nel medesimo corpo normativo concetti diversi, ancorché coordinati, quali obblighi di pubblicazione, trasparenza, dati aperti.

Si provi, allora, a ripartire dalle definizioni di trasparenza e di dato aperto.

In Italia si parla di trasparenza a partire dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, la quale, all’articolo 1 comma 1, dedicato ai “principi generali dell’attività amministrativa”, prevede che “l’attività  amministrativa persegue  i  fini  determinati  dalla legge ed è retta  da  criteri  di  economicità,  di  efficacia,  di imparzialità, di pubblicità e di trasparenza… omissis”. Una compiuta definizione di trasparenza è stata, però, introdotta nell’ordinamento italiano solo con l’articolo 4 della legge 4 marzo 2009, n. 15, recepita nell’articolo 11 del decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150, che la definiva come “accessibilità totale, anche attraverso lo strumento della pubblicazione sui siti internet delle pubbliche amministrazioni, delle informazioni concernenti ogni aspetto  dell’organizzazione delle pubbliche amministrazioni, degli indicatori relativi agli andamenti  gestionali e all’utilizzo delle risorse per il perseguimento  delle  funzioni istituzionali, dei risultati dell’attività di misurazione e valutazione svolta in proposito dagli organi competenti, allo scopo di favorire forme diffuse di controllo del rispetto dei  principi  di buon andamento e imparzialità”. La delega era focalizzata sulla valutazione di dipendenti e strutture della PA: la trasparenza, quindi, veniva ancorata alle finalità di controllo del rispetto dei principi che sorreggono l’agire pubblico.

Quanto ai dati aperti, prima della normativa italiana, punto di riferimento è costituito dalla open definition, ai sensi della quale “a piece of data or content is open if anyone is free to use, reuse, and redistribute it – subject only, at most, to the requirement to attribute and/or share-alike”, definizione che evidenzia l’esistenza di un “ecosistema dell’open data” al di là del solo riferimento ai dati pubblici.

La normativa italiana ha recentemente introdotto una definizione di dati aperti all’articolo 68, comma 3, del Codice dell’Amministrazione Digitale (decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82), con le definizioni di “formato dei dati di tipo aperto”, ossia “un formato di dati reso pubblico, documentato esaustivamente e neutro rispetto agli strumenti tecnologici necessari per la fruizione dei dati stessi” e di “dati di tipo aperto”, ossia quelli che “1) sono disponibili secondo i termini di una licenza che ne permetta l’utilizzo da parte di chiunque, anche per finalità commerciali, in formato disaggregato; 2) sono accessibili attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, in formati aperti ai sensi della lettera a), sono adatti all’utilizzo automatico da parte di programmi per elaboratori e sono provvisti dei relativi metadati; 3) sono resi disponibili gratuitamente attraverso le tecnologie dell’informazione e della comunicazione, ivi comprese le reti telematiche pubbliche e private, oppure sono resi disponibili ai costi marginali sostenuti per la loro riproduzione e divulgazione.”

E’ proprio partendo da queste definizioni – che, tra l’altro, individuano i tre requisiti giuridico, tecnologico ed economico dei dati aperti –  oltre che dai differenti ambiti applicativi, che si segna il discrimine tra trasparenza e open data.

All’indomani della pubblicazione del Decreto Legislativo 14 marzo 2013, n. 33, alcune voci fuori dal coro hanno già evidenziato la confusione in essere tra i due concetti, segnalandone la diversità di natura e disciplina.

La confusione, in realtà, sembra principalmente una questione italiana: allargando lo sguardo alle esperienze internazionali, può notarsi come la distinzione appartenga sia alle esperienze statunitensi – l’amministrazione Obama ha rilasciato recentemente un Ordine Esecutivo, unitamente ad una Open Data Policy, dove si legge che i dati devono essere “facilmente reperibili per gli imprenditori, ricercatori e altri soggetti che possano usare quei files per generare nuovi prodotti e servizi, fare impresa e generare lavoro”. Parallelamente, sul fronte UE, anche la Public Sector Information Directive 2003/98/CE punta l’attenzione sulla caratterizzazione economica della riutilizzazione delle informazioni, piuttosto che sulle finalità di trasparenza. Non è un caso, d’altronde, posto che l’Unione Europea – e la Comunità Europea prima di essa – pone al centro delle sue funzioni la realizzazione di un mercato unico, l’armonizzazione economica dei Paesi Membri ed il tendenziale coordinamento delle loro attività, onde abbattere le barriere che li separano. Scopo primario, dunque, è lo sviluppo di quel “volano economico” cui fa spesso riferimento anche la commissaria europea all’Agenda Digitale Neelie Kroes .

Se ne trae conferma, tra l‘altro, nel Considerando n. 1 della Direttiva citata, ma anche attraverso i discorsi pubblici della Commissaria Kroes – ad esempio il messaggio con cui ha annunciato, lo scorso 13 giugno, l’adozione della nuova Direttiva Europea sul riuso dei dati pubblici – nei quali resta quasi esclusivamente la sola dimensione economica dei dati aperti.

Il ragionamento alla base è il seguente: se in un’ottica di trasparenza s’intende pubblicare spontaneamente ovvero prevedere l’obbligo di pubblicare determinati dati pubblici, al fine di favorire il controllo sociale diffuso, è opportuno ed efficiente cogliere l’occasione per pubblicare in formato aperto, onde favorire anche il riuso e le potenzialità economiche di quei dati. Non è, tuttavia, vero il contrario: esistono dati pubblici che si adattano perfettamente alla funzionalità degli open data, ma che sono del tutto irrilevanti o addirittura “rumorosi” nel contesto della trasparenza amministrativa.

Questa distinzione, come abbiamo visto, è ben avvalorata dalla revisione della PSI, laddove la “trasparenza dei dati aperti” diviene strumento finalizzato al miglioramento della qualità degli stessi, sempre in funzione del loro riutilizzo (cfr., ad esempio, il Considerando 4, laddove si precisa che “la promozione della trasparenza e della responsabilizzazione e al ritorno di informazione fornito dai riutilizzatori e dagli utenti finali che permette all’ente pubblico in questione di migliorare la qualità dei dati che raccoglie”).

In tale direzione, nonostante l’apparenza contraddittoria, spinge anche il decreto “trasparenza” 14 marzo 2013, n. 33, laddove, nell’introdurre all’articolo 1, comma 1, la nuova definizione di trasparenza, non viene considerata la finalità economica derivante dalla pubblicazione delle informazioni pubbliche, sottolineando, al contrario, la specifica finalità della trasparenza, ossia quella di agevolare il controllo sociale e incrementare l’efficienza dell’attività amministrativa.

Ad ogni modo, un approfondimento su tali tematiche, involgendo una cospicua serie di atti e documenti, è, per sua stessa natura, molto elaborato: il presente articolo, pertanto, ha il solo scopo di introdurre l’argomento e di fornire qualche breve spunto di riflessione, rinviando l’esame completo ad un più corposo approfondimento scientifico sul tema, già in fase di realizzazione. 

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