Legge sharing economy e PA collaborativa: perché partire da gestione associata ed Enti locali

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Ora che la proposta di legge sulle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi propone un filone di lavoro sugli enti locali, la prima domanda è se e a che condizioni le piattaforme possano semplificare il lavoro della PA e renderlo più efficiente. La seconda, come queste possano svilupparsi ed essere adottate dalla PA italiana, a legislazione vigente.

21 Marzo 2016

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Chiara Buongiovanni

In principio fu MuniRent
L’esempio più gettonato, quando si parla di piattaforme modello sharing economy ad uso di enti pubblici, è MuniRent, piattaforma statunitense che offre la possibilità di condividere attrezzature pesanti, con l’obiettivo dichiarato di facilitare il lavoro di manager pubblici che si trovano a dover garantire il livello di servizio a fronte di budget ristretti. Qualcuno in un recente gruppo di lavoro diceva “Forse la sharing economy, ridotta all’osso, altro non è che un urlo: fateci fare cose semplici con strumenti semplici”. Raccogliendo alcuni spunti del Tavolo Piattaforme della Sharing economy, avviato lo scorso autunno ragioniamo sul se e perché le piattaforme collaborative potrebbero avere un impatto dirompente sull’innovazione della nostra pubblica amministrazione.

La proposta di legge in consultazione pubblica
La premessa alla proposta di legge “Disciplina delle piattaforme digitali per la condivisione di beni e servizi e disposizioni per la promozione dell’economia della condivisione” sottolinea alcuni dei tratti del fenomeno va sotto il cappello di sharing economy, che pure rifugge stringenti descrizioni tassonomiche. Gli estensori mettono l’accento su: preminenza dell’uso sul possesso; forza trainante della tecnologia, relazione preminentemente “orizzontale”, ovvero peer–to–peer.

Un articolo da cui partire
In un timido articolo, precisamente il n.8 intitolato “Linee Guida”, la proposta di legge parlamentare ribattezzata Sharing Economy Act, attualmente in consultazione pubblica, stabilisce (testualmente) che “Il Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro per la semplificazione e la pubblica amministrazione, sentite l’AGCM e l’Associazione nazionale dei comuni italiani, entro centoventi giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, emana linee guida, destinate agli enti locali, per valorizzare e diffondere le buone pratiche nell’ambito dell’economia della condivisione al fine di abilitare processi sperimentali di condivisione di beni e servizi nella pubblica amministrazione”. Questo articolo, come evidenziato anche dai primi commenti on line, di per sé non risolve e non propone molto, dal momento che suggerisce un processo abbastanza vago e definisce un obiettivo tutto sommato debole. Però, apre su un filone di lavoro possibile, spingendo su un approccio che potrebbe essere dirompente per la PA locale e perfino (in prospettiva) per la PA centrale.
Secondo Mario Collevecchio, a cui abbiamo chiesto un primo commento, esistono due ordini di considerazioni preliminari riguardo alla PA collaborativa, di cui la proposta di legge sembra voler porre a terra il “primo” mattone.

La prima considerazione è di contesto. “Questa proposta di legge – sostiene il prof. Collevecchio – è molto interessante ma da un certo punto di vista, ancora una volta, non tiene conto della situazione complessiva della PA in Italia. A questo stadio, non si considera che il più grande ostacolo a un approccio di questo tipo non è rappresentato da mancanza di Linee guida ma dalla presenza di inadeguati modelli organizzativi per enti locali e regioni, per non parlare della PA centrale”. Già direttore generale della programmazione, organizzazione e coordinamento del Ministero dei trasporti, segretario generale della conferenza Stato -Regioni, alto dirigente delle Regioni Veneto e Abruzzo, direttore generale della Provincia di Pescara, il prof. Collevecchio conosce l’ecosistema non facile di cui parliamo, “Rimanendo nell’ambito degli enti locali – continua – la sharing economy o più in generale la possibilità di usare modelli di condivisione nell’uso di beni e servizi rende evidente l’esigenza di creare delle interrelazioni tra gli enti in un mondo ancora molto caratterizzato, soprattutto al Sud, da polverizzazione di Comuni e forti campanilismi, basti pensare alle difficoltà di realizzazione delle Unioni dei Comuni”.

La seconda considerazione è di “metodo”. In primo luogo, le Linee guida sono uno strumento debole. Questa è l’opinione di Collevecchio che sostiene che “questa materia, in termini di obiettivi da fissare e di monitoraggio degli avanzamenti dovrebbe costituire oggetto di attenzione da parte delle Regioni attraverso strumenti legislativi più forti a cui si accompagnino investimenti, contributi e incentivi”. “La Regione – continua – ha oggi un compito importantissimo: ricomporre le funzioni a livello del territorio, approfittando della coesione e del riordino delle Province”. In secondo luogo, bisogna aver chiaro che anche in questo caso la norma non è sufficiente. Sono i fatti a parlare: la norma sulle Unioni dei Comuni ad esempio è disattesa perché, insiste Collevecchio “non coincide con la consapevolezza del notevolissimo beneficio che invece deriverebbe da un’Unione ben organizzata”.

“Dal mio punto di vista – conclude – il primo limite all’adozione e a volte anche al solo manifestarsi di interesse da parte della PA verso questi modelli è di natura culturale ma la situazione è resa oggettivamente più complicata dalla presenza di una legislazione, quella degli Enti locali che continua ad avere carattere di grande frammentarietà nonostante lo sforzo di creare testi unici e soprattutto di una insopportabile omogeneità”. In parole povere non è possibile applicare, ancora oggi, testi normativi che valgano per il Comune di Roma e per il Comune più piccolo di Italia.

Gestione associata: perché collegarla alla sharing economy
Secondo il prof. Collevecchio forme associative interessanti ai fini della proposta di legge sono già previste in maniera abbastanza compiuta dalla normativa in materia di gestione associata di funzioni e servizi. Introdotte già nel 1990 con la legge sulle autonomie locali, inserite nel Testo Unico sugli Enti Locali al capo V e infine riprese dalla legge Delrio del 2014 (L.56/2014), le Unioni di Comuni e le Convenzioni rappresentano forme giuridiche che incontrano grande difficoltà a realizzarsi nel concreto. “Parlando di sharing economy nei termini in cui ne parla la proposta di legge, direi che queste forme giuridiche sono utili. Soprattutto considererei le Convenzioni, più flessibili e quindi maggiormente adatte per la gestione di alcuni servizi sul territorio che già per loro natura si prestano a dinamiche di “condivisione”, penso ad esempio ai settori di trasporto e turismo”.

Chieti – Pescara: un cantiere aperto?
“Un esempio interessante – sostiene il professore – è quello a cui stiamo lavorando in Abruzzo, nell’ambito dell’attuazione della legge Delrio, importante, profonda e estremamente difficoltosa per i territori. In questo contesto, le province di Chieti e Pescara, prevedendo che in futuro ci sarà la rottura di questi confini provinciali per riassestarsi verso altri confini territoriali, stanno già lavorando per svolgere alcuni servizi fondamentali in comune, attraverso Convenzioni . Tra questi c’è la grande attività di supporto ai servizi generali dei comuni da svolgere attraverso supporti informatici. Qui il ruolo delle piattaforme mi sembra centrale, perché si configurano come strumento agile per la gestione associata, utile agli oltre 150 comuni delle due province. Abbiamo appena iniziato ma io credo che questa direzione possa essere rafforzata dalla prospettiva della sharing economy, con cui è assolutamente in linea, perché un processo del genere punta a sostituire l’acquisto con l’accesso”.

Gestione associata: di cosa parliamo
Seguendo il ragionamento di Mario Collevecchio è utile ricordare, facendoci aiutare dalla sintesi della Corte dei Conti – Sezione delle Autonomie nella sua relazione all’audizione del 1 dicembre 2015 in Commissione Affari Costituzionali, che i Comuni con popolazione inferiore a 5.000 abitanti (fino a 3.000 se appartengono o sono appartenuti a Comunità Montane) sono obbligati all’esercizio associato delle funzioni fondamentali (1), mediante Unione di Comuni o Convenzione. Le Unioni di comuni definite dalla Legge 7 aprile 2014, n. 56 (legge Delrio) come enti locali costituiti da due o più Comuni per l’esercizio associato di funzioni o servizi di loro competenza sono state rilette dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 50/2015 come forme istituzionali di associazione tra Comuni per l’esercizio congiunto di funzioni o servizi di loro competenza e non costituiscono un ente territoriale ulteriore e diverso (o di “secondo grado”) rispetto all’ente Comune. Le Convenzioni (disciplinate dall’art. 30 del T.U.E.L.) rappresentano la forma più flessibile, ma meno stabile, di gestione associata delle funzioni e dei servizi comunali. Si tratta infatti di accordi – volontari o, in casi particolari e specifici, obbligatori – che devono avere durata almeno triennale e un numero di enti che può essere predeterminato (nelle Convenzioni di tipo “chiuso”) o suscettibile di variazioni tramite adesioni successive (nelle Convenzioni di tipo “aperto”). Obiettivi prioritari della gestione associata, non a caso ribaditi dalla Corte dei Conti, sono il contenimento complessivo della spesa delle pubbliche amministrazioni e l’ottimizzazione della gestione delle funzioni fondamentali dei Comuni.

La scarsa “propensione” degli enti locali alla gestione associata
In linea con le considerazioni del prof. Collevecchio, i dati ufficiali confermano la scarsa propensione all’esercizio associato di servizi e funzioni da parte dei piccoli comuni il cui termine, inizialmente previsto per il 1 gennaio 2016 (dal decreto legge 78/2010), ha incassato con il decreto Milleproroghe la proroga al 31 dicembre 2016. Secondo i dati della Cote dei Conti, riferiti al 2014, si tratta in generale di un fenomeno incompiuto, considerato che – per le Unioni – solo il 30% dei comuni con popolazione inferiore ai 5.000 abitanti ha associato le funzioni fondamentali. I dati più aggiornati, divulgati da Anci registrano a marzo 2016 un totale di 465 Unioni che interessano un totale di 2469 Comuni e una popolazione di 10.151.899. Per numero di Unioni, al primo posto Regione Lombardia (76), per numero di Comuni interessati Regione Piemonte (354) per numero di abitanti coinvolti Regione Emilia-Romagna (2.508.808)

… e nella PA centrale?
A questa domanda Mario Collevecchio risponde con un sorriso e riprende: “Qui in termini di utilizzo razionale immobili, sedi ed edifici che sono abbandonati e per cui si pensa all’alienazione e non all’uso comune – che invece potrebbe essere la chiave di volta – si aprirebbero delle grandissime opportunità. Detto questo, guardiamo la realtà: abbiamo dei regolamenti che dettano le misure della scrivania a seconda della funzione ricoperta. Arrivare da questa concezione a quella di un uso comune di arredi, mobili, computer etc. richiede ancora una volta una rivoluzione di tipo culturale. Dunque, mi sentirei di dire che, anche qui, occorrono massicci e qualificati interventi di formazione e un buon grado di ottimismo, confidando molto nella nuova generazione di amministratori e operatori pubblici”.

In conclusione
Insomma, l’approccio delle piattaforme dell’economia collaborativa per la PA apre prospettive di grandissimo interesse, ma per non trasformarsi in un claim o poco più, dobbiamo considerare che le notevoli difficoltà degli operatori e degli amministratori pubblici derivano sostanzialmente da due fattori: impreparazione e spesso il rifiuto nell’usare i nuovi strumenti informatici, da un lato; un ordinamento prigioniero di eccessi di normativa e di burocrazia, dall’altro. “Nella PA – ricorda Mario Collevecchio –purtroppo è così per ogni tipo di innovazione. Attenzione dunque perché questa proposta di lavoro sulla sharing economy non viaggia per conto suo, ma è una sfida che si collega strettamente all’esigenza irrinunciabile di aprire la strada alla concreta realizzazione di una PA digitale”.

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PS: in vista di FORUM PA 2016 (24 – 26 maggio) stiamo cercando le piattaforme della PA collaborativa: piattaforme in uso o utilizzabili dalle pubbliche amministrazioni. Se ne conosci, segnalale attraverso questo breve modulo. Grazie! La Redazione FPA

(1) Per funzioni fondamentali da svolgersi obbligatoriamente per tutti i Comuni, indipendentemente dalla loro dimensione demografica si intendono: a) organizzazione generale dell’amministrazione, gestione finanziaria e contabile e controllo; b) organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito comunale, ivi compreso i servizi di trasporto pubblico comunale; c) catasto, ad eccezione delle funzioni mantenute allo Stato dalla normativa vigente; d) pianificazione urbanistica e edilizia di ambito comunale nonché la partecipazione alla pianificazione territoriale di livello sovracomunale; e) attività, in ambito comunale, di pianificazione di protezione civile e di coordinamento dei primi soccorsi; f) organizzazione e gestione dei servizi di raccolta, avvio e smaltimento e recupero dei rifiuti urbani e la riscossione dei relativi tributi; g) progettazione e gestione del sistema locale dei servizi sociali ed erogazione delle relative prestazioni ai cittadini, secondo quanto previsto dall’art. 118, quarto comma, della Costituzione; h) edilizia scolastica per la parte non attribuita alla competenza delle province, organizzazione e gestione dei servizi scolastici; i) polizia municipale e polizia amministrativa locale; l) tenuta dei registri di stato civile e di popolazione e compiti in materia di servizi anagrafici nonché in materia di servizi elettorali, nell’esercizio delle funzioni di competenza statale. l-bis) i servizi in materia statistica

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