EDITORIALE

Luci e ombre della legge delega “miglioramento della PA”

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Lo scorso 14 febbraio il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge che delega il Governo a riformare in più punti la legislazione vigente in tema di lavoro pubblico. Seppure non si tratta di una riforma “monstrum” come quella della precedente legislatura, è comunque una riforma importante e di cui parleremo ancora. In questo articolo qualche considerazione su quello che è probabilmente il clou della delega, l’articolo 4, che si occupa della dirigenza

21 Febbraio 2019

Carlo Mochi Sismondi

Presidente FPA

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Lo scorso 14 febbraio il Consiglio dei Ministri ha approvato in via definitiva il disegno di legge, presentato dal Ministro Giulia Bongiorno, che delega il Governo ad adottare uno o più decreti legislativi per riformare in più punti la legislazione vigente in tema di lavoro pubblico. Il testo, largamente disponibile in rete, si compone di otto articoli e tratta di cinque temi principali: accesso al pubblico impiego e riforma dei concorsi; valutazione e premialità; riforma della dirigenza; mobilità del personale; relazioni sindacali e rapporto tra legge e contratto di lavoro. Il disegno di legge ha già passato il vaglio della Conferenza Unificata e sarà a breve discusso in Parlamento.

Seppure non si tratta di una riforma “monstrum” come quella della precedente legislatura (la riforma Madia ha prodotto 24 decreti legislativi, più due decaduti, tra cui appunto quello sulla dirigenza su cui ora interviene il ddl delega del Ministro Bongiorno), si tratta comunque di una riforma importante, che fa seguito ai decreti cosiddetti “concretezza” e “semplificazioni” e di cui parleremo ancora. Per oggi mi limito a qualche considerazione su quello che è, a mio parere, il clou della delega, l’articolo 4, che ha come titolo “Principi e criteri in materia di riordino della disciplina della dirigenza”.

La dirigenza era il pilastro mancante della Riforma Madia e la bocciatura del decreto legislativo da parte della Corte Costituzionale, per un vizio di consenso da parte delle Regioni, aveva in sostanza “coperto” una situazione di grave conflittualità tra Governo, Consiglio di Stato e, soprattutto, tutto il corpus dei dirigenti pubblici che ne avevano rilevato gravi pericoli. In sintesi infatti la riforma del Governo Renzi aveva preso di petto alcuni temi chiave e li aveva risolti attraverso un’innovazione “disruptive”: niente più fasce della dirigenza, niente più ruoli separati per amministrazioni, ma solo tre ruoli (PA centrale, locale e regionale) e per di più largamente permeabili, più libertà da parte della politica di scegliere, all’interno dei ruoli, a chi attribuire incarichi di vertice, incarichi a tempo intervallati da rinnovi con concorsi ad evidenza pubblica. L’idea di fondo era di creare un “mercato” della dirigenza pubblica dove si potessero scegliere di volta in volta i migliori o i più adatti a specifici ruoli. Tre commissioni per la dirigenza statale, regionale e locale avrebbero garantito la correttezza e la “neutralità” delle scelte. Chiaro che buona parte dei dirigenti non ne fosse contenta. Temevano infatti una subordinazione eccessiva alla politica e una diminuzione del loro ruolo, del loro status e, anche, dei loro diritti acquisiti.

A questo vuoto legislativo risponde, in uno status quo caratterizzato comunque dalla vigenza di 24 decreti legislativi della riforma Madia, questo disegno di legge delega che riprende il bandolo della matassa, ma lo srotola in tutt’altra direzione.

Già il primo comma mette in chiaro che l’obiettivo è di aumentare la produttività migliorando l’immagine della PA attraverso anche (ma è l’unico esempio fatto) la lotta all’assenteismo. Le azioni contro i “furbetti” (oddio quanto odio questo termine!) si confermano essere una costante preoccupazione del Governo. A questo proposito non si può non notare che un rigido controllo degli accessi, reso più ostile dal controllo delle impronte digitali, come se il problema fosse che gli impiegati entrino in ufficio e ci rimangano per tot ore e non quel che lì facciano, è in aperto contrasto con tutto il corpus scientifico sul moderno sviluppo delle persone nelle organizzazioni, di cui il lavoro agile e lo smart working sono solo la punta dell’iceberg. Certo i truffatori vanno scovati e puniti, ma assurgere a re sua maestà il tornello è, in un’epoca di spinta digitalizzazione e in organizzazioni basate sulla conoscenza, solo un fossile del fordismo, per altro obsoleto anche nelle aziende private.

Il disegno di legge prosegue con altre giuste e condivisibili asserzioni: che abbiamo bisogno di competenze specializzate, che vanno valorizzate meglio le capacità professionali anche di carattere organizzativo, che vanno meglio specificati i compiti e le responsabilità della dirigenza amministrativa e dei vertici politici, che vada definito un codice di condotta che da una parte indichi chiaramente le ipotesi di responsabilità disciplinare, dall’altra garantisca il dirigente rispetto alle possibili inadeguatezze delle sanzioni.

Al di là però di queste corrette norme, che potremmo chiamare di aggiustamento rispetto allo status presente, quello che mi lascia molto perplesso è la conferma sostanziale del corpo legislativo precedente, ribadendo proprio quei punti che la mancata riforma Madia aveva pesantemente rivisto. Partiamo dai ruoli dei dirigenti che rimangono di pertinenza di ciascuna amministrazione, con il rischio della permanenza della giungla salariale che già oggi li contraddistingue e di una sostanziale stanzialità dei dirigenti. Continuiamo con la conferma delle due fasce di dirigenza che non dipendono dall’incarico ma che sono, per i dirigenti di prima fascia, uno stato acquisito (semel abbas semper abbas). Creiamo così una pesante contraddizione tra i privilegi anche salariali dei vertici apicali e la loro protezione da un rischio[1] che, invece, non può che essere prerogativa di queste posizioni, così come lo è nel privato. Infine, il disegno di legge è molto attento a garantire una strada di favore per chi è già nell’amministrazione attraverso concorsi riservati e limita ulteriormente l’accesso alla dirigenza degli esterni all’amministrazione, ossia proprio di quei manager che, venendo da altre esperienze, potrebbero portare aria nuova nelle stanze spesso asfittiche delle nostre PA.

Quale è quindi alla fine l’impressione che traggo da questo articolo 4 della legge delega? Che si rischia di tornare ad una classe di dirigenti pubblici stabili, preservati dal rischio (a meno che non siano essi stessi assenteisti o non siano attenti a sanzionare i furbetti), rinchiusi nei recinti più o meno protetti dei ruoli delle singole amministrazioni, certi che una volta conquistato un ruolo lo terranno a vita. So bene che una parte consistente della dirigenza, della politica, ma anche del diritto amministrativo volevano proprio questo risultato, una specie di resurrezione dei commis d’etat in stile francese, ma a me pare un arretramento in contrasto con la necessaria apertura di un’amministrazione che, per essere in linea con i bisogni di una società complessa e variegata, deve imparare a “governare con la rete”.


[1] Su questo cfr l’articolo che scrissi nel 2015 al momento della pubblicazione del decreto Madia sulla dirigenza

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