Democrazia partecipativa: quando il cittadino è protagonista

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Negli ultimi anni è cresciuta, anche in Italia, l’attenzione delle amministrazioni locali nei confronti della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali.

14 Gennaio 2009

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Negli ultimi anni è cresciuta, anche in Italia, l’attenzione delle amministrazioni locali nei confronti della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali. Si stanno diffondendo forme innovative di democrazia partecipativa, come il bilancio partecipativo, che presuppone un coinvolgimento forte nelle scelte principali di governo del territorio, in quanto le proposte avanzate dai gruppi di cittadini possono incidere su una certa percentuale del bilancio comunale.

Di questa e di altre forme di coinvolgimento (laboratori di progettazione partecipata, Agenda 21, giurie dei cittadini, e così via) se ne è parlato a Modena, nel corso della prima edizione di ParteciP.A. il salone della Democrazia Partecipativa, organizzato dall’Ufficio Partecipazione del Comune di Modena in collaborazione con la Regione Emilia Romagna, la Provincia di Modena, la Fondazione Cassa di Risparmio di Modena e Agenda 21 Italy.

Attraverso workshop formativi, presentazioni, stand espositivi e un convegno basato sullo schema dell’Open Space Technology (che occuperà tutta la giornata di giovedì 22), si è cercato di fare il punto sulle esperienze realizzate in Italia e all’estero e di lanciare spunti e progettualità per il futuro.

Partecipazione e cambiamento

Partendo da una domanda: come può la partecipazione produrre vero cambiamento, generare nuova coesione sociale e decisioni condivise capaci di incidere davvero sulle scelte politiche e sul governo del territorio?

FORUM PA 2009 un’intera sezione espositiva e congressuale è stata dedicata ai servizi on line per i cittadini e al nuovo modo di concepire il servizio pubblico. (Vai allo Zoom Amministrare 2.0.)

Questa domanda l’abbiamo posta a Giovanni Allegretti, architetto, attualmente ricercatore senior presso il Centro di Studi Sociali della Facoltà di Economia – Università di Coimbra, dove dirige anche l’Osservatorio delle pratiche partecipative ed è coordinatore esecutivo del dottorato “Democrazia nel secolo XXI”. Autore di numerosi contributi dedicati al bilancio partecipativo e alla pianificazione territoriale condivisa, sarà tra i partecipanti al convegno di Modena del 22 gennaio.

L’intervista

“Affinchè si possa davvero parlare di partecipazione sono necessari alcuni elementi di base – ci dice Giovanni Allegretti –. Prima di tutto, non avere già fatto tutte le scelte. Sembra banale, ma la realtà è che spesso ci si trova vincolati da modalità di finanziamento che obbligano a tempistiche talmente rapide da non avere tempo per la partecipazione. Pensiamo al caso della Val di Susa, in cui la mancanza di informazioni, persino nei confronti dei sindaci, era giustificata con il fatto di dover sfruttare velocemente i finanziamenti europei”.

Organizzare gli spazi

“Il secondo elemento, molto importante, è organizzare gli spazi giusti. Gli spazi di assemblea non sono necessariamente spazi di partecipazione. Bisogna costruire ambienti in cui le persone abbiano desiderio di parlare, anche quelle che non sono abituate a farlo. Bisogna fare tanti incontri, farli con persone diverse, mettere ognuno a proprio agio, spesso andare a cercare i propri interlocutori sul territorio magari organizzando eventi speciali nelle aree in cui i cittadini vivono.

Mostrare i risultati

Poi bisogna dare coerenza a tutti questi incontri, riuscire a produrre, da tanti input diversi, un progetto coerente. Da una parte tutto questo processo comporta un grande impegno, anche in termini di tempo; dall’altra, dopo un certo periodo di confronto, bisogna anche mostrare dei risultati concreti.

Vedere realizzate le proprie istanze serve a dare al cittadino una grande iniezione di fiducia sull’azione dell’amministrazione e sull’utilità dei processi di partecipazione”.

Conoscenza delle tecniche partecipative

“Ci vuole poi, da parte di chi organizza e segue questi processi, una conoscenza delle tecniche partecipative che permetta di usarle in modo non piatto: infatti, da un lato, se non si possiedono le tecniche si rischia di mettere in piedi un processo improvvisato e intuitivo; ma, dall’altro, una conoscenza troppo didascalica può portare ad applicare le tecniche in modo banale, modellistico, senza dare anima al processo. Insomma, io temo quei kit, quei manuali su come si fa partecipazione, che servono solo se si è in grado di andare un passo più in là, trovando un equilibrio tra forma e contenuto, tra metodologia e valore politico della partecipazione”.

L’urbanistica partecipata

Su Saperi PA approfondimenti sul tema della partecipazione dei cittadini ai processi decisionali A Giovanni Allegretti abbiamo chiesto, in particolare, un’opinione sull’urbanistica partecipata in Italia, anche alla luce della sua esperienza all’interno della scuola territorialista toscana (che negli anni novanta ha avviato un dialogo con i cittadini per capire quali elementi di identità geografico-paesaggistica determinano il senso di appartenenza al territorio) e come coordinatore del Piano Regolatore del Comune di Dicomano e consulente di quello di Scandicci.

“Direi che, a parte qualche esperienza interessante (legata, per esempio, ad Adriano Olivetti nella prima metà del secolo e al Villaggio Matteotti di Terni, curato negli anni settanta dal gruppo di Giancarlo De Carlo), in Italia un’introduzione più massiccia del concetto di urbanistica partecipata si ha intorno alla seconda metà degli anni novanta – precisa Allegretti -. Da segnalare il bando di Concorso Nazionale di Progettazione Partecipata e Comunicativa, realizzato dall’Inu insieme al WWF (prima edizione 1996-1998), e i contratti di quartiere.

Per queste nuove forme di pianificazione strategica, pensate per zone della città in cui i problemi sociali si aggiungevano a quelli urbanistico-architettonici, la partecipazione degli utenti era quasi una necessità. Secondo me, la fase di massificazione dell’urbanistica partecipata è legata a un momento in cui, da un lato entra in crisi la capacità di rappresentanza degli abitanti da parte della politica, dall’altro si è cominciato a capire che in una società complessa è necessario tenere conto di moltissimi bisogni differenti”. 

Le difficoltà

Sono molte le difficoltà che si incontrano nello strutturare processi partecipativi, specialmente nei piccoli Comuni, come ci spiega Allegretti: “Qui ci sono due problemi: l’abitudine dei cittadini al contatto quotidiano con gli amministratori, per cui appare superfluo organizzare spazi comuni di discussione; la difficoltà a comprendere la nuova idea di progettazione territoriale. Con la riforma della legge urbanistica (la Toscana è stata la prima regione ad attuarla, nel 1995) si introduce infatti il Piano strutturale, uno strumento strategico che crea una visione del territorio da qui a 30 anni e in cui non tutto è dettagliato e immediatamente realizzabile.

Di contro, è ancora diffusa tra i cittadini la vecchia idea di piano vincolante, in cui c’è già scritto esattamente cosa si può o non può fare in tutte le aree”.“Coinvolgere i cittadini sulla pianificazione generale del territorio – aggiunge Allegretti – è difficile anche perché i tempi sono lunghi e i risultati non si vedono subito. Maggiori riscontri si possono ottenere, invece, se guardiamo all’urbanistica come gestione di un’area piccola. In questo senso ci sono state esperienze molto interessanti, ad esempio a Roma. Certamente il rischio è che i processi partecipativi restino a livello microlocale o di quartiere, senza riguardare le scelte strategiche”. 

Le risposte dei decisori

Ma quali sono poi le risposte dei decisori, dei tecnici e della politica, alle istanze che arrivano da questi processi di partecipazione?“La mia esperienza – sottolinea Allegretti – mi dice che i politici danno molto più peso alle osservazioni collettive che non a quelle individuali (espressione spesso di interessi egoistici), quindi alle osservazioni già negoziate nella società prima di arrivare a loro.

Sommare tanti dialoghi individuali non equivale a fare un dialogo pubblico: in quest’ultimo le persone si incontrano, discutono, si sviluppano meccanismi psicologici di competizione, apertura e chiusura, che creano un conflitto produttivo in termini di progetto. E cambia l’ottica: si chiedono cose di cui beneficia una comunità, dei gruppi, non il singolo”.

Il feedback

Il feedback è fondamentale. Chi entra in un processo di democrazia partecipativa si attende delle risposte e un riscontro effettivo alle richieste e alle osservazioni sollevate. Ed è proprio questo che manca, troppo spesso, come sottolinea Allegretti. Sviluppare un dibattito pubblico prima della realizzazione di un’opera e fornire spiegazioni e risposte chiare ai cittadini serve anche a indirizzare le critiche in senso costruttivo.

Un esempio

Allegretti fa l’esempio della TAV: “Nel tratto francese Parigi-Lione non è stata così criticata come in Italia, perché c’era stato fatto sopra un dibattito pubblico, spiegando le compensazioni previste, il meccanismo, i vantaggi. In Italia, invece, mancava la conoscenza e anche questo ha scatenato la protesta. L’opposizione è composta di nuclei diversi: ci sono quelli che sono avversi alla cosa in sè, perché hanno una filosofia di sviluppo completamente diversa, e resteranno sempre critici; ci sono quelli che protestano per interesse privato; ma c’è anche chi protesta perché vuole prima capire bene cosa sta accadendo.

Fare processi trasparenti significa decomporre le masse critiche, affinché siano critiche a ragione”. 

ParteciP.A. è stata un’occasione importante per riflettere su questi temi e per cercare, tra discussione teorico-scientifica e modelli di applicazione pratica, la strada verso nuovi strumenti di partecipazione.

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