La salvaguardia del patrimonio culturale e ambientale: un volano per lo sviluppo urbano sostenibile

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Manca ancora sul piano nazionale, regionale e comunale una volontà politica chiara di incentivare gli strumenti normativi e le attività di sperimentazione che mettano al primo posto la salvaguardia dei patrimoni culturali e ambientali. Un contributo di Claudio Gnessi, presidente Associazione per l’Ecomuseo Casilino Ad Duas Lauros

21 Marzo 2018

Nell’immaginario collettivo le città sono, da sempre, il luogo delle opportunità, dello sviluppo sociale, economico, delle idee e della cultura. Un’immagine che spesso si scontra con una realtà ben più dura, fatta di comunità disgregate, ingiustizie sociali, marginalizzazione, esclusione. Criticità che spesso sono più al centro dell’agenda dei city makers, degli innovatori sociali, delle associazioni e dei comitati locali che della politica locale e nazionale.

In questo contesto l’Agenda 2030 propone, nel punto 11, una serie di soluzioni possibili per affrontare le sfide che la città contemporanea ha di fronte, in una prospettiva assolutamente condivisibile: rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili.
Ma com’è la situazione nelle città e in particolare nelle periferie? Quali strumenti normativi approvati o in corso d’approvazioni sono coerenti con l’Agenda 2030, il punto 11 e in particolare l’azione 11.4 che prevede la salvaguardia del patrimonio culturale e naturale delle aree urbane?
Provo a tracciare un quadro della situazione, rimanendo ancorato all’esperienza romana che conoscono bene con qualche puntatina “fuori porta”.

Cosa abbandonare: degrado e rigenerazione, ovvero la predazione del patrimonio culturale e ambientale dei territori

Negli ultimi quarant’anni le scelte di pianificazione urbanistica della città sono state chiaramente orientate alla valorizzazione della rendita fondiaria, calate dall’alto senza alcun processo di coinvolgimento delle comunità locali, finalizzate alla produzione di un valore aggiunto non diffuso. Una “politica della predazione” che ha sconvolto la fisionomia del tessuto urbano delle città, depauperandole di ricchezze culturali e ambientali, principalmente nelle cosiddette periferie.

Negli ultimi 15 anni questa speculazione – complice la mutata sensibilità generale – ha cambiato narrazione e rappresentazione, mascherandosi dietro le cosiddette politiche della rigenerazione e presentandosi come estrema soluzione contro il degrado. In questo periodo è nata così un’equazione tanto fantasiosa quanto vincente che parte dall’assunto secondo cui le periferie siano il luogo elettivo della manifestazione del degrado e, per logica transitiva, il degrado sia il connotato distintivo delle periferie. Una narrativa che fa presa su molti, anche spiriti nobili, e che velocemente si diffonde come un virus nei corpi sociali che abboccano all’amo di un racconto che non gioca la carta dello sviluppo, ma della risoluzione di un problema.

Il primo effetto di questo processo è la cristallizzazione nell’immaginario collettivo un’equivalenza dal portato devastante: periferia=degrado. Gli impatti di questa riduzione ai minimi termini del dibattito sulle periferie non sono stati mai quantificati, l’effetto sulle coscienze dei cittadini e sull’immaginario collettivo mai stimata. Improvvisamente in primo piano sono scomparsi i temi del diritto all’abitare, dei servizi, della socialità, scalzati da questo macro-tema (degrado) che idealmente li contiene tutti, ma definisce uno status quo praticamente endemico che può essere risolto solo attraverso quelli che vengono chiamati processi di rigenerazione urbana. In tal modo tutto ciò che insiste nella periferia urbana diventa comunque connotato negativamente come viziato o prodotto del degrado. Intere comunità locali, basta pensare ai cittadini di origine straniera, diventano esse stesse una forma di degrado. Gli spazi verdi non edificati, polmoni verdi di aree con una qualità dell’aria da emergenza sanitaria, diventano improvvisamente luoghi del degrado, della criminalità, del delitto. Tutto in periferia è “da buttare” e da “rigenerare”.

A conti fatti parliamo di una speculazione in piena regola che viene presentata sotto le spoglie gentili di un’attività quasi filantropica. I costruttori spesso presentano il proprio operato o i propri progetti come tentativi di migliorare luoghi ammalorati, marginalizzati. Il livello massimo di questo stravolgimento della realtà è l’Assemblea dei Costruttori Romani (Acer) il cui titolo è Rigeneriamo la Capitale con una serie di interventi ai limiti del grottesco ma tutti incentrati sul tema del rigenerazionismo e dell’innovazionismo: il nuovo che cancella il vecchio brutto rigenerando i territori. Una sorta di pulizia razziale declinata in ottica immobiliare di cui vediamo i primi risultati addirittura nelle aree di pregio della capitale, con villini liberty e quartieri d’eccellenza (come Coppedè) che rischiano di essere stravolti in nome, appunto, della rigenerazione urbana.

Proprio quello che sta accadendo nei quartieri di pregio della Capitale evidenzia come questa strategia altro non sia che la predazione del territorio e sistematica cancellazione del suo patrimonio culturale e ambientale, finalizzata (come sempre) alla valorizzazione immobiliare della rendita fondiaria. Il tutto sotto l’egida di narrazioni edificanti, fatta a suon di rendering, cespugli sfrici, asili nido e servizi per la comunità. A ben vedere ci troviamo di fronte ad una strategia di una raffinatezza unica. Da un lato si cancellano, sotto il peso della parola “degrado”, le vere ragioni delle criticità, dall’altro si racconta l’azione di valorizzazione immobiliare attraverso una parola dal sentiment ampiamente positivo: “rigenerazione”. Così facendo scompaiono d’un colpo le responsabilità politiche di quelle criticità e le perdite ingenti subite dalle comunità e dal territorio dal punto di vista ambientale, culturale e sociale.

Lo stato delle cose: assenza di strumenti reali di partecipazione civica sul disegno del territorio, ampi margini di incertezza in tema di tutela e salvaguardia dell’ambiente

Ciò che si sta presentando davanti ai nostri occhi è chiaramente un futuro non brillante, certamente distante da quanto proposto nell’Agenda 2030. Dal punto di vista normativo – rimanendo sul piano della Regione Lazio – non possiamo ritenerci soddisfatti dello “stato delle cose”, sebbene qualche segno positivo ci sia.
La cosiddetta Legge sulla Rigenerazione urbana – che pur supera le oscenità del cosiddetto Piano Casa – crea le condizioni per poter incidere ferite profondissime nel patrimonio culturale e ambientale dei territori. Un rischio che diventa quasi inevitabile se combinato all’ennesimo slittamento nell’approvazione del piano territoriale paesistico regionale (PTPR), all’applicazione “a fantasia” della legge Galasso, dei vincoli (basti ricordare la vicenda LIDL in Via Acqua Bullicante) e delle prescrizioni. Se poi a questo uniamo l’assenza di pianificazione urbanistica di ampie fette di territorio urbano e l’assenza di strumenti reali di partecipazione civica sul disegno del territorio, rendiamo conto che ci troviamo in un vicolo cieco. Eppure la via d’uscita la vediamo, ma non abbiamo strumenti per arrivarci.

Eppure proprio la Regione Lazio ha approvato due leggi importanti lo scorso anno: la legge sugli Ecomusei e la legge sui Cammini. La prima, una delle più avanzate sul tema, offre strumenti concreti alle realtà di base per poter finalmente proporre progetti di salvaguardia e non solo richiedere norme di tutela.

Un decisivo passo avanti nella condivisione del “potere decisionale” sui destini dei territori urbani, nonché l’inversione di una tendenza tutta italiana alla “immobilizzazione” del patrimonio culturale e ambientale, che viene solo visto come qualcosa da “salvare” e non anche come uno strumento di riscatto e sviluppo dei territori. La seconda – di concerto con quella nazionale – offre prospettive di sviluppo legate al turismo culturale e ambientale lento, sostenibile, etico tutt’altro che superficiali. Investe sul paesaggio, sulla sua salvaguardia e valorizzazione, sulla creazione di percorsi urbani lenti, sulla scoperta e non sul consumo. Sono due leggi, queste, che cambiano la prospettiva più che sull’idea del turismo, su quella del turista. Seminano, infatti, l’idea buona che il turista debba trasformarsi sempre più in un residente temporaneo e non in un consumatore distratto di luoghi. Una decisa inversione di tendenza che si allinea alle esperienze Danesi e Catalane.

Parliamo di leggi, insomma, che ci raccontano di un patrimonio culturale e naturale come asse centrale per pianificare un territorio, svilupparlo, salvaguardarlo. Sono punti di arrivo di battaglie importanti che andrebbero però potenziati nelle risorse e resi operativi attraverso gli strumenti amministrativi necessari (in particolare la legge sugli Ecomusei che ancora attende la pubblicazione dei regolamenti).

Ma da soli questi strumenti non possono bastare, bisogna necessariamente cambiare il passo su temi quali il consumo del suoloe la salvaguardia dei beni culturali e del paesaggio. Temi su cui la Legge sulla rigenerazione, di fatto, apre a deroghe importanti mentre la mancata approvazione del PTPR lascia margini di incertezza troppo ampi.

Dal nostro punto di vista, sul primo aspetto, ci appare decisiva la proposta del Forum Salviamo il Paesaggio di una legge contro il consumo di suolo, che se perseguita integralmente comporterebbe l’inversione di una tendenza drammatica. Il testo infatti punta tutto sul recupero del patrimonio edilizio esistente, sulla bonifica e riconversione ecologica delle aree dismesse e abbandonate, sulla valorizzazione urbanistica, sociale, economica e culturale sia dei centri storici e sia delle periferie. Un approccio di altissimo livello progettuale che oltre a frenare la drammatica tendenza al consumo di suolo (si stimano 4 metri quadri al secondo), offrirebbe strumenti concreti di vivificazione degli spazi urbani, rigenerazione “vera” e prospettive di sviluppo durature e condivise.

Per quanto concerne il secondo tema dobbiamo necessariamente parlare della riforma dei Beni culturali di Franceschini che riteniamo abbia bisogno di urgenti correttivi in quanto, in base alla nostra lettura, promuove un processo di delegittimazione delle Soprintendenze che ha come portato immediato il cedimento di alcuni presidi di tutela essenziali del nostro paesaggio e dei nostri beni culturali. La legge, inoltre, ha il demerito di introdurre una pericolosa valutazione esclusivamente “economica” dei risultati delle istituzioni culturali che non tiene conto nella valutazione complessiva delle capacità di queste di generare valori “altri”, non monetizzabili, ma parimenti importanti.
Da questo quadro sommario credo appaia chiaro che, sia sul piano regionale sia su quello nazionale, siamo parecchi distanti rispetto allo spirito del punto 11 e in particolare alla sostanza dell’azione 11.4 che declina il tema dello sviluppo sostenibile alla salvaguardia del patrimonio culturale e naturale delle aree urbane.

Cosa vorrei per il 2018: potenziare gli sforzi per proteggere e salvaguardare il patrimonio culturale e naturale attraverso strumenti di diritto amministrativo

Quello che manca sul piano nazionale, regionale e comunale è una volontà politica chiara di incentivare tutte le esperienze, gli strumenti normativi, le attività di sperimentazione che mettono al primo posto la salvaguardia dei patrimoni culturali e ambientali, che si fondano sulla partecipazione attiva delle comunità, che producono effetti duraturi, promuovono welfare di comunità e non privatistico. Se da un lato appare ormai urgente l’approvazione di una normativa di salvaguardia del suolo, dall’altro appare importante un quadro normativo che renda cogente la partecipazione civica in merito alla pianificazione urbanistica dei territori. Allo stesso tempo non può attendere sia una legge che definisca un quadro di norme per la gestione dei beni comuni, sia un decisivo rafforzamento del ruolo delle soprintendenze che, oltre ai pareri di tutela, dovranno però dotarsi anche di strumenti di proposta operativa, sollecitando piani di intervento per la salvaguardia e promozione del patrimonio culturale e ambientale.

Da molti anni, come Ecomuseo Casilino, abbiamo basato la nostra attività proprio sulla salvaguardia dei patrimoni culturali e ambientali, intendendo questa azione come presupposto irrinunciabile per avviare processi pianificazione fondati sulla partecipazione attiva delle comunità, capaci di creare lo sviluppo di nuove economie sostenibili, dialogo interculturale, promozione di un welfare di comunità.
In questa nostra attività abbiamo scontato una perfetta solitudine, che non può riscattarsi nei premi o nelle pacche sulle spalle. Se da un lato auspichiamo un quadro normativo sano, che finalmente abbandoni i salvacondotti per la rendita fondiaria, allo stesso tempo pretendiamo un quadro normativo che premi l’attività di base di chi lavora in prima linea, sui territori, per salvaguardare il patrimonio culturale e naturale dell’Italia. Parliamo di associazioni, cooperative, imprese sociali, comitato che lottano quotidianamente contro chi sacrifica il patrimonio culturale e ambientale al “mercato delle vacche” urbanistico, alla borsa delle compensazioni, al discount del suolo.

Arrivati a questo punto non possiamo più tollerare scorciatoie amministrative nei confronti di chi, con un approccio predatorio, ha determinato effetti devastanti su tutti i fronti: sociali, culturali, ambientali, paesaggistici, identitari, economici. Pensiamo abbia senso non solo potenziare lo strumento del reato ambientale estendendolo al paesaggio naturale e culturale, ma anche di dotare i comuni di strumenti agili che consentano un maggiore controllo di salvaguardia del territorio.
Abbiamo bisogno di un quadro organico – questo sì allineato all’ispirazione dell’azione 11.4 – che finalmente riconosca come la complessa tessitura che lega persone, paesaggio e patrimonio culturale (materiale e immateriale) sia il fondamento delle comunità locali, e ne definisca perimetro, orizzonte e vocazione.

Abbiamo bisogno di un quadro organico – questo sì esecutore del contenuto dell’azione 11.4 – che premi quegli approcci alla pianificazione territoriale che sappiano rilevare, nell’intimo rapporto tra territorio, patrimonio culturale e comunità, il nucleo di un sistema di sviluppo ecologicamente sostenibile, rinnovabile nel tempo, scalabile in diversi contesti.


*Presidente dell’Ecomuseo Casilino, Interaction Designer Manager, Communty Planner Consultant, co-fondatore del Karawanfest, da 10 anni si occupa di innovazione partecipativa. Lavora soprattutto nei territori della cosiddetta periferia (urbana e non) promuovendo l’idea che il patrimonio culturale e la partecipazione siano gli strumenti ideali per facilitare il dialogo interculturale e costruire modelli di sviluppo locale sostenibili.

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