Apriti standard! Interoperabilità e neutralità per dare nuova linfa all’open source

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L’open source sta lentamente guadagnando terreno rispetto al software proprietario e in molti casi lo ha superato (gli utenti di Firefox hanno recentemente superato quelli di Explorer in Europa), eppure la gran parte delle informazioni presenti in rete circolano in forme e modi del tutto chiusi, proprietari, non trasparenti. Un recente libro di Simone Aliprandi propone una via d’uscita: spostare la lente dell’indagine dal software allo standard, dallo strumento utilizzato per gestire le informazioni alle informazioni stesse.

20 Gennaio 2011

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Tommaso Del Lungo

Articolo FPA

L’open source sta lentamente guadagnando terreno rispetto al software proprietario e in molti casi lo ha superato (gli utenti di Firefox hanno recentemente superato quelli di Explorer in Europa), eppure la gran parte delle informazioni presenti in rete circolano in forme e modi del tutto chiusi, proprietari, non trasparenti. Un recente libro di Simone Aliprandi propone una via d’uscita: spostare la lente dell’indagine dal software allo standard, dallo strumento utilizzato per gestire le informazioni alle informazioni stesse.

Simone Aliprandi è un avvocato esperto di copyleft e diritto d’autore, impegnato da diversi anni in attività di ricerca, formazione e divulgazione. La sua ultima pubblicazione si chiama “Apriti standard!” (scaricabile gratuitamente sul suo sito) e prova a fare luce sui concetti di formato, standard, e open source, proponendo una prospettiva nuova per la diffusione e l’affermazione del software libero: spostare la riflessione dai temi della libertà e dell’apertura a quelli dell’interoperabilità e della neutralità.

Il nocciolo del problema.

Negli ultimi trent’anni abbiamo assistito al crescere di una contrapposizione tra due forze contrastanti: da una parte il bisogno di interazione tra sistemi, macchine, software e documenti, differenti (che potremmo chiamare interoperabilità), dall’altra la tendenza, dei grandi produttori di ICT, a tutelare sempre più rigidamente i propri investimenti e la proprietà intellettuale attraverso forme giuridiche e tecnologiche.

In questo processo si è inserito il movimento del free software, da alcuni anche chiamato open source (per eliminare l’equivoco tra free=libero e free=gratis) e infine con una espressione più ampia FLOSS (Free Libre Open Source Software).

“Già da parecchi anni – ci spiega Aliprandi – il tema dell’open source è entrato a far parte della cultura collettiva e viene condiviso sia a livello teorico che etico. Inoltre esistono normative a livello comunitario, nazionale e regionale che incentivano (o in alcuni casi impongono) l’adozione del software libero nelle pubbliche amministrazioni. Stando così le cose, oggi praticamente tutti dovremmo utilizzare sui nostri computer software non proprietario, eppure non è così, e l’uso del software proprietario e dei formati «chiusi» continua ad essere predominante”. Ciò avviene sia in ambito privato, che, purtroppo, in ambito pubblico, in cui solo il 48,9% delle Amministrazioni Locali ha fatto ricorso almeno una volta all’Open Source[1]. “Io sono dell’idea – continua Aliprandi – che abbiamo preso il problema dalla parte sbagliata”.

Proprietario Vs libero: un falso problema

Fino ad oggi è stato dato troppo peso agli aspetti legati alla libertà e all’apertura, che sono aspetti teorici, spesso ideologizzati, mentre si sono prese progressivamente le distanze dagli aspetti concreti, come la compatibilità e l’efficienza. “Questo è un errore che abbiamo fatto in molti – continua – sia noi divulgatori, che il legislatore. Ora, a fronte degli scarsi risultati, credo sia il momento di cambiare rotta e spostare l’oggetto della discussione sull’interoperabilità e sulla neutralità tecnologica”.

Se l’attenzione viene posta sullo standard, invece che sulle applicazioni, e se quello standard è aperto, ognuno può adattare il proprio software a gestire quello standard e conformare i suoi dati ad esso.

Software libero e formati aperti

Il punto è che la diffusione di formato ha un’influenza fortissima sulla diffusione del software. Se è vero, infatti, che un software proprietario può leggere sia i formati chiusi (cosiddetti opachi) che quelli aperti, non è vero il contrario. Un software open source legge sicuramente tutti i formati aperti, ma non necessariamente tutti quelli opachi, in quanto il proprietario di un formato può imporre un costo di licenza, oppure può tenere nascoste parti delle specifiche che il formato utilizza per codificare le informazioni, aumentando la difficoltà per gli sviluppatori. Questa asimmetria, legata al fatto che ai software proprietari viene quasi sempre associato un formato nativo opaco, per molti autori (fra cui lo stesso Aliprandi) è la causa della difficoltà di affermazione del software open source. «Perché dovrei usare un software che non mi permette di leggere bene i file che il 90% della popolazione produce?»

Secondo Aliprandi “è qui che risiede il vero problema. In più di un’occasione, infatti, il legislatore si è interrogato e ha legiferato su quale dovesse essere il software con cui equipaggiare i computer in dotazione alle pubbliche amministrazioni. Avrebbe, invece, dovuto concentrarsi sui file che la pa produce e mette in circolazione e sui formati di questi file”.
Il compito di una amministrazione efficace è quello di semplificare la vita ai cittadini: il fatto che un cittadino non riesca ad aprire il certificato che il comune gli ha spedito via mail, è un problema. Il tipo di software usato dall’impiegato comunale per produrre quel certificato non lo è.

Trovare la committenza giusta

L’utilizzo dei formati aperti assicura importanti benefici che vanno dall’indipendenza da uno specifico prodotto e fornitore, alla condivisione, dalla neutralità alla salvaguardia storica. Per spostare il baricentro di questo tema, però, è necessario un commitment forte. Se tralasciamo l’ipotesi (per altro plausibile) che un grande player del mercato mondiale si mobiliti in prima persona mostrando come siano possibili modelli di business alternativi a quello attuale, l’altro grande committente rimane la Politica. La Politica, infatti, ha in mano una carta vincente per creare riforme a costo zero: promuovere l’adozione di standard.



[1] I dati sono contenuti nel rapporto “Le tecnologie dell’informazione e della comunicazione nelle amministrazioni locali” 2009 dell’ISTAT http://www.istat.it/salastampa/comunicati/non_calendario/20101103_00/testointegrale20101103.pdf

 


Apriti standard! Interoperabilità e formati aperti per l’innovazione tecnologica

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