Federalismo sì, ma perché?

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A volte un assioma dato per scontato è in realtà più schermo alla riflessione che utile orientamento all’indagine. Così succede che un obiettivo politicamente centrale come il federalismo sia troppo spesso considerato “buono in sé” senza necessità di ulteriori prove. Proviamo a fare chiarezza e torniamo a parlarne stimolati dall’importante incontro “Il federalismo alla prova dei fatti” che Legautonomie propone a Viareggio il prossimo 1 e 2 ottobre.

22 Settembre 2009

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

A volte un assioma dato per scontato è in realtà più schermo alla riflessione che utile orientamento all’indagine. Così succede che un obiettivo politicamente centrale come il federalismo sia troppo spesso considerato “buono in sé” senza necessità di ulteriori prove. Proviamo a fare chiarezza e torniamo a parlarne stimolati dall’importante incontro “Il federalismo alla prova dei fatti” che Legautonomie propone a Viareggio il prossimo 1 e 2 ottobre.

Da grande sostenitore di una politica basata sull’aumento della responsabilità, congiunto con un conseguente aumento dell’autonomia e della partecipazione, non posso che essere “federalista” per principio, ma questo non mi esime dal chiedermi cosa e chi ci guadagna in un complesso percorso che, comunque, non sarà senza costi.

Allora federalismo perché? Le prime risposte (e scusate la semplificazione, ma a volte credo valga la pena di tornare ai fondamentali) attengono, a mio parere, a tre ambiti importanti e distinti:

  • Federalismo sì, purché esso aumenti la partecipazione dei cittadini alla gestione della cosa pubblica e faccia crescere, così, la democrazia reale nel Paese;
  • Federalismo sì, purché avvicinando l’erogatore dei servizi ai suoi fruitori (ed anche ai suoi “prosumer” nell’ottica della sussidiarietà orizzontale di cui abbiamo spesso parlato) esso ne migliori la qualità e la quantità;
  • Federalismo sì, purché accorciando le filiere delle organizzazioni e aumentando la responsabilità degli Enti, esso permetta di raggiungere significativi obiettivi di efficienza attraverso una razionalizzazione costante della spesa pubblica.

Tutti e tre questi nobili obiettivi nascondono, come sappiamo, pericoli e contrappassi:

  • La maggiore partecipazione delle popolazioni locali può trasformarsi in un localismo esasperato che perda di vista l’interesse dell’intero Paese.
  • La spinta per un miglioramento della qualità dei servizi, se non omogenea sul territorio nazionale e non preceduta da una determinazione dei livelli di servizio da garantire sempre a tutti, può nascondere gravi disuguaglianze.
  • Infine una ricerca miope degli equilibri di bilancio, specie se portata avanti con patti di stabilità troppo mutevoli nella loro stessa impostazione, può penalizzare gravemente gli enti più virtuosi. Inoltre può rendere difficili, se non impossibili, gli investimenti degli Enti locali, i soli che possano consentire, in forma diffusa sul territorio nazionale, quel recupero di competitività di cui tanto si parla.

Proviamo allora a leggere insieme, sulla base di queste premesse, il testo chiave della riforma federalista, quello che invero avrebbe dovuto precedere, e non seguire, la legge delega sul federalismo fiscale: lo “Schema di disegno di legge recante disposizioni in materia di organi e funzioni degli enti locali, semplificazione e razionalizzazione dell’ordinamento e carta delle autonomie locali” che è stato approvato in consiglio dei Ministri lo scorso 15 luglio.

Già una prima lettura ci rivela una duplice faccia del ddl. Su alcuni temi, infatti, esso costituisce in sé un  provvedimento compiuto, mentre in altri fondamentali aspetti si rivela essere una “legge delega” che impegna il governo all’emanazione di successivi decreti legislativi.

Così se nei primi due Capi individua e disciplina le funzioni fondamentali di Comuni, Province e Città metropolitane, nel terzo Capo dà delega al Governo di individuare quali altre funzioni amministrative vadano trasferite e di specificare quali sono, invece, irrinunciabilmente in capo allo Stato.
All’art. 13 dello stesso Capo III fa poi la sua comparsa la delega per la adozione della “Carta delle Autonomie locali” che finalmente coordini e razionalizzi tutta la legislazione in coerenza con la riforma costituzionale del 2001.
Al Capo IV una nuova delega impegna il Governo a razionalizzare (e quindi in sostanza ridurre) il numero delle Province e a riordinare gli uffici periferici dello Stato secondo il paradigma degli Uffici Territoriali di Governo su base provinciale.

Con il Capo V sono, invece, date disposizioni per l’abolizione di quasi tutti gli enti  intermedi che non siano quelli previsti dalla Costituzione riformata: dalle Comunità montane ai difensori civici comunali (mi sembra una scelta bizzarra), dalle circoscrizioni per i comuni sotto i 250.000 abitanti ai Consorzi di Enti locali compresi i Bacini Imbriferi Montani (quelli di cui tanto si parla durante i fenomeni di siccità).
Il Capo VI regola la composizione dei consigli comunali e provinciali riducendo radicalmente il numero dei consiglieri, e delle Giunte, anche qui operando tagli decisi.

Il Capo VII definisce come “piccoli Comuni” quelli al di sotto dei 5.000 abitanti e prevede, per questi, importanti semplificazioni ed obblighi di aggregazione.
Il Capo VIII individua il triennio come base di riferimento per il calcolo dei saldi finanziari che costituiscono l’obiettivo del patto di stabilità interno e regola i comportamenti verso gli Enti che sforano e verso quelli in regola, che potranno conservare parte dell’eccedenza riportandola al successivo esercizio.

Il Capo IX, correggendo una prima versione draconiana che avevamo duramente criticato, riserva la possibilità di nominare il Direttore Generale non più solo alle città metropolitane come nella prima versione, ma anche alle Province e ai comuni al di sopra dei 65.000 abitanti.

Il Capo X è una complessa rivisitazione del Testo Unico degli Enti Locali rispetto al tema dei controlli. È una parte troppo tecnica e complessa per darne conto in poche righe. A mio parere la novità più significativa è l’introduzione dell’obbligo di  usare anche la contabilità economica per evidenziare i risultati di gestione e insieme l’obbligo di redigere i documenti di bilancio in modo da consentirne la lettura per programmi, servizi ed interventi.
Infine il Capo XI prevede le consuete abrogazioni delle norme non compatibili con l’impianto della legge.

Che dire? Si tratta certamente di una costruzione importante ed ambiziosa che taglia alcuni nodi in maniera netta, ne rimanda molti altri a successive determinazioni tramite deleghe, invero un po’ lasche, lascia sul tavolo anche qualche interrogativo che mi pongo sulla base della premessa sull’utilità del federalismo.

Siamo certi che sia una buona idea, nell’ottica dell’incremento della partecipazione dei cittadini e della crescita della democrazia l’abolizione delle circoscrizioni?

Siamo certi che sia necessario in questo campo una norma statale che detti legge e che equipari nella cancellazione città che hanno una struttura per circoscrizioni da sempre (vedi l’esempio di Modena) con città che le hanno appena costituite?

Siamo certi che il tessuto politico ci guadagni? Siamo certi di non confondere in semplificazioni giacobine i costi della politica – da tagliare – con i costi della democrazia – da rendere sempre più efficienti, ma al limite da aumentare in un Paese sempre meno affezionato alla cosa pubblica – ?

Che pensare di una legge che vede nell’affidamento alle Province di molte funzioni fondamentali (ambiente, istruzione, servizi per l’impiego, reti, ecc.) un cardine, ma che si affianca in Parlamento, ad opera della stessa maggioranza, ad un gran numero di proposte che tendono all’abolizione delle Province stesse?

Siamo certi che il patto di stabilità così disegnato (con una base di calcolo triennale) permetta agli Enti locali una maggiore autonomia soprattutto nelle spese in conto capitale che sono state quelle di gran lunga penalizzate negli ultimi anni con una situazione di sfascio infrastrutturale sotto gli occhi di tutti (pensiamo solo allo stato di insicurezza cronico degli edifici scolastici)?

Infine siamo certi che il combinato tra un federalismo fiscale, molto federalista a parole, ma che non dà grande autonomia nelle entrate agli enti locali, e un ddl sul riordino degli enti che norma dettagliatamente quasi tutto con una maniaca (e spesso encomiabile) attenzione ai risparmi, ma che lascia politicamente aperti interrogativi enormi quali la sopravvivenza delle province o il reale assetto delle città metropolitane, serva a quel federalismo utile di cui accennavamo all’inizio? 

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