Come educare ad una cittadinanza matura e non eterodiretta

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Scuola e università, istruzione, educazione e formazione dovrebbero essere poste, concretamente, al centro di ogni progettualità e processo innovativo e nell’affrontare le sfide della cittadinanza e di una innovazione inclusiva, che sono le sfide della (iper)complessità ma anche della responsabilità. Ecco come

17 Marzo 2016

D

Piero Dominici

L’obiettivo del presente contributo non è tanto quello di sottolineare le stretta, strettissima correlazione – a mio parere, si tratta perfino di un nesso di causalità – esistente tra un’istruzione e un’educazione di qualità (concetto complesso che va sciolto) e la qualità della cittadinanza e della stessa democrazia; quanto quello di evidenziare il ruolo strategico di scuola e istruzione

  1. nell’educazione, preparazione e formazione di cittadini, non soltanto consapevoli dei loro diritti, ma partecipi del bene comune (civismo);
  2. nella costruzione di una cittadinanza piena, matura, fondata su relazioni quanto più simmetriche possibile tra Stato e cittadini;
  3. nella definizione e realizzazione di condizioni sociali, politiche, economiche e culturali – le “variabili” complesse del nostro discorso – che di fatto abilitano i cittadini nell’esercizio dei loro diritti e che sono (pre)requisiti fondamentali preesistenti alle questioni, altrettanto importanti, riguardanti la cittadinanza digitale.

In termini estremamente semplici: non ci può/potrà essere alcuna “cittadinanza digitale” se, prima, non vengono garantite le condizioni minime della “cittadinanza”, che evidentemente precedono, nella sostanza, le altre e che ne rappresentano la più essenziale delle garanzie. Allo stesso tempo non ci può/non ci potrà essere “vera” innovazione (quella sociale e culturale) senza garantire le condizioni di un’inclusione che non può essere esclusiva (torna la coppia inclusività vs. esclusività). La scuola riveste da sempre un ruolo di vitale importanza per i regimi democratici e lo stesso Piero Calamandrei, in uno storico discorso del 1950 (che ricordo molto spesso), non esita a parlarne addirittura in termini di “organo costituzionale”: «Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue […]. La scuola, organo centrale della democrazia, perché serve a risolvere quello che secondo noi è il problema centrale della democrazia: la formazione della classe dirigente. La formazione della classe dirigente, non solo nel senso di classe politica, di quella classe cioè che siede in Parlamento e discute e parla (e magari urla) che è al vertice degli organi più propriamente politici, ma anche classe dirigente nel senso culturale e tecnico: coloro che sono a capo delle officine e delle aziende, che insegnano, che scrivono, artisti, professionisti, poeti. Questo è il problema della democrazia, la creazione di questa classe, la quale non deve essere una casta ereditaria, chiusa, una oligarchia, una chiesa, un clero, un ordine. No. Nel nostro pensiero di democrazia, la classe dirigente deve essere aperta e sempre rinnovata dall’afflusso verso l’alto degli elementi migliori di tutte le classi, di tutte le categorie».

Parole così chiare e significative da non richiedere ulteriori commenti anche rispetto allo loro straordinaria attualità. Riconosciuta e accettata (?) la rilevanza strategica di scuola e istruzione, dobbiamo tuttavia porci un quesito: possiamo anche soltanto parlare di “cittadini digitali” se prima non educhiamo/formiamo le Persone ad essere, in primo luogo, “cittadini”? E la scuola – lo ripeto – è davvero strategica, più di altre istituzioni formali e informali. Certamente, in questa fase così delicata di mutamento (cambio di paradigma, economia della condivisione, società della conoscenza etc.), la scuola assume un ulteriore, oltre che delicato, ruolo di accompagnamento, mediazione, preparazione e supporto ai cambiamenti determinati dalla rivoluzione digitale. Tale aspetto, peraltro, non può essere assolutamente sottovalutato e pone in primo piano anche la “vecchia”, ma sempre attuale, questione della formazione dei formatori (su questioni e criticità legate al PNSD ed alla Legge 13 luglio 2015, n. 107, rinvio ad un interessante contributo di Giuseppe CorsaroPiano scuola digitale: azioni di cura par la digifobia”)

L’importanza di “costruire” socialmente e culturalmente la Persona e il cittadino

La costruzione sociale e culturale della Persona, prima, e del cittadino, poi, sono processi complessi che devono (dovrebbero) essere attivati/innescati/accompagnati fin dai primi anni di vita e che non dovrebbero essere rimandati nel tempo: si tratta di pre-requisiti fondamentali e, allo stesso tempo, funzionali al tentativo di ricostituire/rafforzare un tessuto sociale estremamente indebolito, creando di fatto le condizioni – potremmo dire – “empiriche” per contrastare l’assenza di civismo e quel vuoto etico e di senso che, al di là delle rappresentazioni mediatiche e delle relative fiammate emotive, sembra diffondersi sempre di più, non soltanto tra le nuove generazioni. I “germi” della ben nota “questione culturale” che costituiscono i veri ostacoli all’affermazione di una vera innovazione (sociale e culturale) e di sistemi sociali più aperti e inclusivi. Questioni e problematiche che hanno profonde implicazioni perfino nella stessa ideazione/progettazione/definizione di qualsiasi modello o pratica di cittadinanza e partecipazione.

Come avrete compreso, ritengo tali questioni a dir poco strategiche ma, allo stesso tempo, credo sia di fondamentale importanza inquadrarle in un discorso più complesso, e generale, di ripensamento di quello che ho definito “nuovo contratto sociale” (2003), per non parlare del concetto stesso di cittadinanza; un ripensamento/riformulazione che deve portare, a sua volta, ad una traduzione operativa funzionale alla definizione, progettazione e realizzazione di proposte e strategie educative. Perché questo è il livello cruciale del cambiamento culturale che è in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare quello economico, politico, sociale. E, come dico sempre, non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione e/o le scorciatoie: il livello strategico è quello concernente i processi educativi (la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione).

Perché, la questione è culturale e riguarda, in primo luogo, l’educazione, anche alla libertà che comporta responsabilità! E, oltre alla dimensione sociale, relazionale, etica, i nostri giovani – fin dai primi anni di scuola – hanno sempre più bisogno di conoscere, vivere, praticare e applicare la “logica” (all’università è davvero difficile modificare una forma mentis già strutturata; p.e. insegnare a sviluppare/verificare logicamente le argomentazioni); hanno un disperato bisogno (scusate la ripetizione) di un “metodo” con il quale pensare, ragionare, sintetizzare, dare sistematicità alle tante (troppe?) informazioni ricevute (filosofia); di una formazione alla complessità e al pensiero critico, che appunto formi ed educhi – quasi “addestri” – ad individuare le connessioni tra i fenomeni e i processi, tra i saperi e la vita vissuta…che metta in condizione, per esempio, di valutare criticamente le origini storico-sociali di norme e modelli culturali, di riflettere e distinguere ciò che è “natura” da ciò che è “cultura” e frutto di convenzione (dicotomia che andrebbe superata una volta per tutte!); di riconoscere nella diversità e nel pluralismo dei “valori” fondamentali e non dei “pericoli”. Come scritto anche in passato, per realizzare obiettivi così complessi, servono politiche di lungo periodo e un rilancio in grande stile degli studi umanistici e della formazione umanistica, a tutti i livelli (scuola, università, ricerca etc.), provando magari a superare una volta per tutte – anche se tutt’altro che semplice – quelle che ho chiamato le “false dicotomie” (teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills); il resto arriverebbe quasi di conseguenza.

La formazione umanistica insegna a pensare con la propria testa ma, soprattutto, insegna a pensare con quella degli altri, con quella di coloro che hanno modelli culturali differenti. Da questo punto di vista, anche l’acquisizione e il possesso delle cd. competenze tecniche e digitali (assolutamente importanti, chiariamolo) avrebbero ricadute ancor più significative su “teste ben fatte”, criticamente formate e curiose della complessità che le circonda. Serve urgentemente un “nuovo Umanesimo” che ponga la Persona, la sua formazione e la sua relazione con l’altro, al centro (rinvio anche ad altri post, oltre che a saggi pubblicati). Ad essere in gioco sono le identità e le soggettività e, in questa prospettiva, non possiamo non rilevare l’assenza di modelli teorico-interpretativi e, più in generale, culturali adeguati al mutamento in atto, oltre che la sostanziale inadeguatezza dei percorsi didattico-formativi scolastici e universitari. Ormai sembrano tutti d’accordo (meglio tardi che mai!) nell’esaltare il valore del pensiero critico e di un’educazione/formazione alla complessità ma, per il momento, l’impressione è che si tratti di formule e slogan di successo, parole-chiave che non possono non essere adottate. Il problema è che mancano le azioni/strategie corrispondenti, che non possono che essere di lungo periodo, anche perché la Politica, da sempre, pensa al “breve periodo” e persegue altre logiche.

Educare alla complessità per affrontare i dilemmi della società ipercomplessa

L’urgenza di un’educazione/formazione alla complessità e al pensiero critico (logica) non è soltanto un elemento strategico e decisivo per il complesso processo di costruzione, sociale e culturale, della Persona e del cittadino; ma riveste un ruolo di fondamentale importanza anche in considerazione di come stia rapidamente modificandosi il contesto, locale e globale, di riferimento. Infatti, il processo evolutivo degli ecosistemi sociali (1996) sta progredendo verso una ridefinizione degli spazi relazionali e delle asimmetrie, che porta con sé l’esigenza di un “nuovo contratto sociale” (2003). Di conseguenza, diventa ancor più urgente una riformulazione del pensiero e dei saperi (in chiave aperta e multidisciplinare) che deve, successivamente, concretizzarsi in proposte e strategie educative funzionali alla costruzione sociale del cambiamento. Un cambiamento che, ricordiamolo, se imposto esclusivamente dall’alto è (e sarà) sempre un cambiamento esclusivo, per pochi e di breve periodo. Occorre prendere definitivamente coscienza che questo è il vero “fattore” strategico del cambiamento e dei processi di innovazione: il “fattore” culturale, una variabile complessa in grado, nel lungo periodo, di innescare e accompagnare i processi economici, politici, sociali. E non c’è alcuno spazio per l’improvvisazione…non sono sufficienti (necessarie, sì) campagne di comunicazione, il continuo e incessante ricorso al marketing degli eventi, campagne più o meno virali e/o hashtag più o meno indovinati: il livello strategico è quello concernente i processi educativi di cui sono protagoniste (dovrebbero esserlo) la scuola, sopra ogni cosa, e le altre agenzie di socializzazione; è il livello cruciale dove è possibile costruire, oltre che “teste bene fatte” (pensiero critico, pensiero sistemico, educazione alla complessità), la cultura della legalità, della prevenzione, della responsabilità, del rispetto, della non-discriminazione e determinare le condizioni socioculturali per un ridimensionamento dell’egemonia dei valori individualistici ed egoistici, che hanno significativamente contribuito all’indebolimento del legame sociale e della Comunità, oltre che a rendere la cosiddetta “questione culturale”, “la” questione e non una delle questioni. Ma a cosa intendiamo riferirci quando affermiamo che “la questione è culturale”? Una questione che riguarda da vicino l’ipercomplessità sociale e costituisce di fatto un indicatore (complesso) prezioso da non sottovalutare nell’analisi dei sistemi sociali e della loro resilienza al mutamento.

Una cosa è certa: siamo di fronte ad una complessità sociale che sfugge ai tradizionali dispositivi di controllo e sorveglianza e che richiederebbe, come in passato ho avuto modo di argomentare più volte, una riformulazione del pensiero ed una ridefinizione dei saperi che dovrebbero contribuire proprio a ridurre tale complessità, definendo, quanto meno, condizioni di prevedibilità dei comportamenti all’interno ed all’esterno delle organizzazioni e dei sistemi: in tal senso, Edgar Morin parla di “riforma del pensiero”: «La riforma del pensiero esigerebbe una riforma dell’insegnamento (primario, secondario, universitario), che a sua volta richiederebbe la riforma di pensiero. Beninteso, la democratizzazione del diritto a pensare esigerebbe una rivoluzione paradigmatica che permettesse a un pensiero complesso di riorganizzare il sapere e collegare le conoscenze oggi confinate nelle discipline. […] La riforma del pensiero è un problema antropologico e storico chiave. Ciò implica una rivoluzione mentale ancora più importante della rivoluzione copernicana. Mai nella storia dell’umanità le responsabilità del pensiero sono state così enormi. Il cuore della tragedia è anche nel pensiero».

L’argomento, d’altra parte, è estremamente delicato e difficile da sciogliere per le tante implicazioni. Certamente possiamo partire da un assunto: come detto, esiste una stretta correlazione tra scuola/istruzione e una cittadinanza realmente attiva e partecipata (ne abbiamo parlato spesso-> come possibilità di una relazione meno asimmetrica), a maggior ragione in sistemi sociali, come il nostro, caratterizzati da scarsa (per non dire inesistente) mobilità sociale verticale e da un familismo (im)morale diffuso che rendono ancora questa società fortemente corporativa e resiliente al (vero e profondo) cambiamento e all’innovazione sociale. Non a caso, da tanti anni, parlo di egemonia di un modello sociale – e culturale – feudale ma, soprattutto di “società asimmetrica (per chiarezza preciso che si tratta di concetti e definizioni operative da me proposti #CitaregliAutori). Nelle società avanzate (non solo), scuole, istruzione e formazione rappresentano da sempre le uniche possibilità di riscatto sociale e di miglioramento della propria condizione sociale di partenza; ancora di più lo potrebbero/dovrebbero essere in una società rigidamente strutturata. Si tratta insomma degli unici “ascensori sociali”, ormai (purtroppo) quasi del tutto bloccati e che, di conseguenza, non svolgono più da tempo questa loro funzione vitale: la crisi dei sistemi di welfare completa un quadro estremamente problematico che, nel rendere la precarietà condizione esistenziale, ha determinato un indebolimento dei meccanismi di solidarietà, mettendo in discussione anche il diritto alla conoscenza delle persone (cittadini).


Etica e morale non si impongono: perché è importante educare e formare i cittadini

Insomma, in altre parole, stiamo ragionando, non soltanto sulle condizioni che possono rendere effettivi processi complessi come quelli riguardanti l’inclusione e la cittadinanza, ma anche sull’opportunità e la necessità di lavorare, all’interno di una prospettiva sistemica e di logiche di rete, sulla definizione e costruzione di una “cultura della cittadinanza e dell’inclusione”. La stessa crescita del Paese (ma di qualsiasi Stato-Nazione), che è questione cruciale non spiegabile e gestibile ricorrendo al solo paradigma economicistico (la globalizzazione l’ha ampiamente dimostrato), ne trarrebbe enormi vantaggi. Il nostro Paese è segnato da una “questione culturale” che – mi ripeto – si pone al di là del quadro giuridico, normativo e deontologico-professionale e che chiama in causa la libertà e, con essa, la responsabilità (concetti relazionali) degli attori sociali, individuali e collettivi: il civismo, l’educazione alla cittadinanza, un’etica condivisa e un modello culturale e identitario forte sono “dispositivi” fondamentali per la stessa sopravvivenza dei sistemi sociali e organizzativi. Anche, e soprattutto, perché ETICA e MORALE NON SI IMPONGONO. Si tratta di processi che – come detto – chiamano in causa molteplici variabili e richiedono profili e competenze costruite sul campo. Tali questioni, peraltro, non riguardano sole le tematiche dell’inclusione e della cittadinanza: ad esempio, continuo a pensare che anche la “vera” prevenzione si fa, si costruisca a scuola e servono politiche (lungo periodo). Propongo, in questa linea di discorso, alcune considerazioni per sottolineare l’assoluta rilevanza delle questioni riguardanti educazione e istruzione. Per motivi di chiarezza, procederò per punti.

  1. Il nostro è un Paese dal quadro normativo e legislativo complesso e articolato: esistono molte leggi (forse, troppe), codici professionali, carte deontologiche, linee guida, sistemi di regole formali, sistemi di orientamento valoriale e conoscitivo. Eppure questi “strumenti” continuano a rivelarsi condizione necessaria ma non sufficiente proprio perché esiste una dimensione, cruciale e fondante allo stesso tempo, che è quella della responsabilità: un concetto che va assolutamente ridefinito in chiave relazionale; una dimensione che sfugge a qualsiasi tipo di “gabbia” e/o sistema/dispositivo di controllo, perché attiene alla libertà delle Persone (altro discorso da approfondire, legato al tema dell’emancipazione nella modernità: interessante il concetto dilibertà generativa”). E da questo punto di vista, come non essere d’accordo con la definizione di “società degli individui”: una società (noi) nella quale molti individui (appunto) sentono di non dover rispondere a nessuno dei loro atti, tanto meno ad una “comunità” i cui legami si sono fortemente indeboliti (e, non a caso, c’è chi parla di fine del legame sociale). Qualche anno fa, intitolai un mio libro “La società dell’irresponsabilità” proprio per connotare questa condizione critica, ricollegabile solo in parte alla crisi economica (o ad indicatori di tipo economico): la “questione culturale” mette in luce, ancora una volta, non solo la crisi delle istituzioni formative, ma anche la debolezza dei vecchi apparati e delle vecchie logiche di controllo e repressione che non hanno mai risolto i problemi alla base; che sono sempre strategie di “breve periodo” (cultura dell’emergenza vs. cultura della prevenzione, a tutti i livelli e in tutti i settori della prassi). Un Paese che, ai limiti del paradosso, è fondato culturalmente sul “principio di irresponsabilità” (Dominici 2003 e 2009), oltre che su una diffusa incoerenza dei comportamenti (ricordo sempre la formula etica vs etichetta); un’irresponsabilità diffusa in tutti i settori, compresi quelli della comunicazione e dell’informazione, a dir poco vitali per la qualità della stessa democrazia; un’irresponsabilità diffusa vera cifra della “questione culturale”, che legittima chi aggira le leggi, le regole e, perfino, le norme sociali condivise (cultura della furbizia); un’irresponsabilità diffusa che trova il suo ecosistema ideale in un contesto storico e in clima culturale che esaltano sempre chi antepone l’interesse particolare a quello generale e al “bene comune”. Si pensi, in tal senso, anche alla metastasi della corruzione che, come la cronaca degli ultimi decenni ha messo in luce, coinvolge non soltanto la cd. “casta”, bensì ampi settori della società civile che, probabilmente, continuano a credere nonostante tutto di poter avere vantaggi dalla “casta” stessa; un’irresponsabilità che si articola anche in comportamenti eticamente scorretti e non attenti neanche al principio di precauzione. Dunque, un’irresponsabilità diffusa che rende socialmente accettabile la violazione di leggi e norme e che affonda le sue radici anche in una certa “cultura della furbizia” che, talvolta, inconsapevolmente viene elaborata e diffusa proprio nei luoghi deputati alla socializzazione ed all’educazione della Persona. Accade così che la soluzione ai problemi, per certi versi inevitabile (ma, evidentemente, non è l’unica strada percorribile), sia sempre la medesima: il continuo ricorso a leggi e normative sempre più rigide e stringenti: intendiamoci bene, si tratta in molti casi di condizioni necessarie, addirittura fondamentali ma, come ampiamente dimostrato dalla storia sociale, politica ed economica non soltanto di questo Paese, si tratta di condizioni/fattori non sufficienti. Dobbiamo confrontarci con una “natura” intrinsecamente problematica e complessa dei sistemi sociali, non più riconducibile alle sole categorie (significative) di rischio, incertezza, vulnerabilità, liquidità etc. A ciò si aggiunga che, quasi paradossalmente, mai come in questi anni si è discusso (e si discute) di etica e di responsabilità in tutti i campi dell’azione sociale (dalla politica alla cultura, dall’informazione all’innovazione scientifica e tecnologica etc.). Si potrebbe semplificare tale paradosso con la “formula”: trionfo dell’etichetta sull’etica. Paese di paradossi e contraddizioni (non soltanto sul piano culturale): da una parte, per ogni “nuovo” problema si invocano subito nuove leggi, nuovi codici deontologici, nuove prescrizioni, nuovi divieti; dall’altra, culturalmente, consideriamo quelle stesse leggi, norme, “regole” come un ostacolo alla nostra autoaffermazione ed al nostro successo/prestigio sociale. D’altra parte, ciò che spesso sembra venire a mancare è proprio la coerenza dei comportamenti che, comunicativamente parlando, risulterebbe (è!) molto più efficace delle parole e dei principi spiegati attraverso un linguaggio, più o meno, politicamente corretto. Appare evidente come siamo di fronte ad una vera e propria “emergenza educativa” – anche se non amo questa parola che ben rappresenta quella cultura, tuttora egemone, che sa affrontare qualsiasi problema soltanto con provvedimenti eccezionali e saltuari (dalla sicurezza al lavoro, dalla salute alla violenza, dalle forme di discriminazione al bullismo, dalla corruzione all’illegalità) – legata ad una molteplicità di fattori e variabili, che hanno determinato una trasformazione profonda dei processi di socializzazione ed una crisi delle tradizionali agenzie/istituzioni deputate all’interiorizzazione dei valori ed alla formazione delle personalità/identità (riconoscimento-rispetto-altruismo-senso civico-cittadinanza vissuta e non subita/eterodiretta).Mi riferisco, in tal senso, al concetto di “policentrismo formativo” ed alla divaricazione del ventaglio dell’offerta educativa e formativa. Questo Paese non riuscirà a ripartire senza affrontare seriamente tali problematiche. Stiamo discutendo, in altri termini, dei “cittadini di domani” che corrono seriamente il rischio di continuare a crescere e socializzarsi ad una cultura della furbizia, dell’illegalità e/o del familismo amorale (apparentemente?) dominante: e tutto questo all’interno di quel famoso modello sociale e culturale “feudale” di cui abbiamo parlato, che ha sempre lasciato poco spazio alla mobilità sociale verticale.
  2. La “questione culturale”, qui più volte richiamata, è legata come detto anche, e soprattutto, ad un problema di interruzione/crisi della comunicazione tra le generazioni (concetto che andrebbe sciolto e sviluppato). Tuttavia, in questa prospettiva di analisi, non possiamo non registrare come i media (vecchi e nuovi, per non parlare dei social networks) – con il famoso “gruppo dei pari” – si siano letteralmente divorati lo spazio comunicativo e del sapere (?) gestito, in passato, della tradizionali istituzioni e agenzie educative e formative.
  3. Sugli attori sociali e sulle professionalità protagoniste del processo educativo e formativo, non riesco a non essere radicale, pur considerando che scuola e università sono state pesantemente penalizzate da tagli e controriforme (eccesso di riformismo). Esistono lavori/professioni che andrebbero fatti/scelti anche, e soprattutto, perché si avverte una vocazione e non soltanto per una forma di prestigio sociale e/o perché permettono magari di esercitare forme di micropotere sugli altri. Prendersi cura di una persona (concetto complesso), insegnare, formare, condividere ed elaborare non significa soltanto trasmettere e/o impartire nozioni: i figli, gli studenti e, più in generale, i giovani – come dire – ti aspettano al varco, osservano “come ti comporti”. Insomma, contano i “fatti”, non le “parole”. La “tua” (nostra) credibilità e autorevolezza si fonda sui comportamenti e sulla loro coerenza rispetto a quanto affermiamo (problema che riguarda anche la politica). Se chiedi correttezza, devi darla per primo, se pretendi rispetto e senso di responsabilità, devi prima di tutto essere rispettoso dell’Altro e responsabile etc., anche se la relazione è asimmetrica a causa del ruolo e della gerarchia. E non puoi fingere, non nel lungo periodo. Ecco perché certi “ruoli” e certe “attività” richiedono, a mio avviso, consapevolezza, partecipazione, passione, perfino empatia (oltre alla preparazione!). E’ necessario “mettersi in gioco” puntando sull’inclusione (effettiva) dell’altro.

Fondamentale, quindi, ripartire da educazione e istruzione, basandole però su una ridefinizione della “qualità” della relazione tra gli attori dell’ecosistema formativo e comunicativo – nel rispetto dei reciproci ruoli (genitore, insegnante, docente etc.) – oltre che, evidentemente, sulla preparazione e sulle competenze. E, nel lungo periodo, per far questo abbiamo bisogno di “teste ben fatte” (Montaigne), e non di “teste ben piene”, che sappiano organizzare le conoscenze all’interno del nuovo ecosistema cognitivo (2005), altrimenti non si tratterà di “vera” innovazione, cioè quella sociale e culturale. E, come scrissi qualche anno fa, sarà la “società dell’ignoranza” e dell’incompetenza (non solo digitale…): una società edificata sul paradosso e, a livello culturale, su una mancata e fuorviante distinzione tra libertà ed uguaglianza.

In tal senso, pagheremo ancora a lungo la sostanziale inadeguatezza dei nostri percorsi didattico-formativi, tuttora progettati e realizzati sulla miope, oltre che disastrosa, separazione tra le “due culture”, quella scientifica e quella umanistica, sia a livello scolastico che universitario. A livello pratico e operativo, non posso non tornare a richiamare l’urgenza di politiche di lungo periodo in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale e, anche in questo caso, la centralità strategica di scuola, istruzione, università è fuori discussione! Da questo punto di vista, per ciò che concerne quella che ho definito la “società interconnessa”, l’orizzontalità e la democraticità delle procedure e dei sistemi non possono essere garantite dalla tecnologia in sé e per sé, dal momento che a fare la differenza sono/saranno sempre il fattore umano e la qualità delle relazioni sociali e dei legami di interdipendenza, dentro e fuori i sistemi sociali; dentro e fuori le organizzazioni complesse.

Epilogo

Nell’affrontare tali questioni, occorre fare attenzione a non cadere nella tentazione delle soluzioni semplici, delle spiegazioni deterministiche e dei facili riduzionismi. Abbiamo urgentemente bisogno di spiegazioni e analisi fondate su dati e ricerche, ma abbiamo anche terribilmente bisogno di un approccio teorico critico alla complessità, che ci metta in condizione di uscire dalle sabbie mobili del determinismo monocausale ma anche, ad un livello meno impegnativo, di un nuovismo acritico di maniera che ci ha portato a convincerci, in questi anni, che tutto era fantastico solo perché “nuovo”.

Lo ribadisco con forza ancora una volta: scuola e università, istruzione, educazione e formazione (continua) devono (dovrebbero) essere poste, concretamente (!), al centro di ogni progettualità e processo innovativo (visione sistemica); e, nell’affrontare le sfide della cittadinanza e di una “innovazione inclusiva”, che sono le sfide della (iper)complessità ma anche della responsabilità, è necessario essere consapevoli «…non soltanto a parole e nel discorso pubblico – che il futuro (come ripetiamo sempre, la “vera” innovazione, quella sociale e culturale) è di chi riuscirà a ricomporre la frattura tra l’umano e il tecnologico, di chi riuscirà a ridefinire e ripensare la relazione complessa tra naturale e artificiale; di chi saprà coniugare (non separare) conoscenze e competenze; di chi saprà coniugare, di più, fondere le due culture (umanistica e scientifica) sia a livello di educazione e formazione, che di definizione di profili e competenze professionali». Si avverte, in tal senso, l’urgenza di superare quelle che, in tempi non sospetti, ho definito le «false dicotomie»: teoria vs. ricerca/pratica; formazione scientifica vs. formazione umanistica; conoscenze vs. competenze; hard skills vs. soft skills (proprio in questa prospettiva cfr., in particolare, “Quadro europeo delle qualifiche per l’apprendimento permanente – EQF” e Descrittori di Dublino, riferimenti importanti ma poco conosciuti, anche in ambito accademico). Facendo attenzione, anche con riferimento alle tematiche riguardanti la scuola e l’università, alle continue tentazioni delle vie brevi, delle soluzioni semplici, delle strade giù percorse e, per questo, rassicuranti che spesso nascondono soltanto interessi economici e di potere, visioni ideologiche rese ben visibili, oltre che accettabili e condivisibili, attraverso un’incessante attività di promozione e marketing degli eventi. Questa, la definizione che da sempre ho utilizzato: “Innovare significa destabilizzare”. Ma occorre, prima di tutto, educare e formare criticamente le persone a pensare con la loro testa (a porsi e a fare domande, non accontentandosi soltanto delle solite risposte/soluzioni) e a vedere gli “oggetti” come “sistemi” (e non viceversa)**(cfr. anche Per un’innovazione inclusiva). #CitaregliAutori

N.B. Condividete e riutilizzate pure i contenuti pubblicati ma, cortesemente, citate sempre gli autori e le fonti anche quando si usano categorie concettuali e relative definizioni operative. Condividiamo la conoscenza e le informazioni, ma proviamo ad interrompere il circuito non virtuoso e scorretto del “copia e incolla”, alimentato da coloro che sanno soltanto “usare” il lavoro degli altri.

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