Lo Stato – piattaforma di immaginazione civica. La politica e le istituzioni nel secolo del “co-“

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Serve un programma di sperimentazione su larga scala per la rigenerazione istituzionale. Un programma che rafforzi la capacità delle amministrazioni di governare il cambiamento senza soffocarlo o volerlo dirigere

20 Dicembre 2016

C

Christian Iaione, Coordinatore LABGOV*

Sta finendo l’epopea di Barack Obama al vertice dello Stato ritenuto più efficiente e degno di emulazione.
Una delle cose che non ho apprezzato delle politiche pubbliche di Barack Obama è l’idea di puntare, moltissimo e a volte in maniera acritica, sulla moda della nudge regulation. In estrema e forse troppo brutale sintesi, si tratta di diritto e politiche comportamentali, che cercano dall’alto di stimolare e orientare il comportamento degli individui verso costumi e usanze che non confliggerebbero con un interesse generale, sintetizzato in qualche ufficio di dirigente, assessore o ministro, magari con l’accompagnamento di esperti e professori.
La persona che decide di studiare o disegnare politiche pubbliche fortemente orientate al cambiamento, “innovatrici” o, come dirò meglio più avanti, “immaginatrici”, deve avere timore di tutto ciò che tratta e trasforma le persone in tanti “criceti” da far girare in una ruota tanto ben congegnata da non consentire neppure al criceto di accorgersi che sta girando in tondo. E il meccanismo è già molto invalso, perché, a ben pensarci l’economia di mercato è congegnata per trasformare il cittadino in consumatore.
Il marketing e la comunicazione vengono utilizzati per indurre le persone a fare determinate scelte, che in passato erano scelte di consumo, oggi con la nudge, si dice, sarebbero scelte fatte nell’ottica dell’interesse generale. Ora, io non sono ideologicamente contrario a nulla. Vorrei solo che la materia fosse trattata con attenzione, per non ritrovarci a combattere contro un altro teorema che si dimostri infondato. Non vorrei ritrovarmi da qui a dieci anni in una situazione in cui, a fronte dell’attuale moda dello “spingere in maniera gentile” le persone verso obiettivi di politica pubblica, finiamo per dimenticarci “chi” quegli obiettivi li deve definire. Queste teorie nascono in ambiente di conservatorismo compassionevole, in un’epoca in cui si tratta il cittadino come un “beota” cui il politico o burocrate onnisciente deve indicare la strada giusta, indicare la direzione per evitare scelte sbagliate. Potrebbe trattarsi del mero aggiornamento di quei modelli razionalistici, che sono stati alla base dell’economia di mercato, i cui i meccanismi di funzionamento erano disegnati attorno alla figura astratta dell’homo oeconomicus che agisce solo in virtù di una presunta razionalità economica. Non è così. Allora che si faccia maggiore attenzione ai modelli di comportamento reale.
Da studioso, ho approfondito questa direzione e mi sono reso conto che qui si nasconde un possibile pericolo per la democrazia e soprattutto per le libertà individuali. C’è la possibilità per chi governa di trincerarsi dietro un presunto astratto, teorico, ideologico interesse generale cui uniformare i comportamenti di tutti.

Quello che ho cercato di fare, nella mia attività di studioso e praticante del diritto e delle politiche pubbliche negli ultimi dieci anni, è stato cercare di capire come essere utile all’amministrazione e alle comunità che intendono muovere anche solo primi timidi passi per uscire dal paradigma statuale tradizionale. Penso di aver capito che il varco per “hackerare le istituzioni” sta nell’abilitare le pratiche sociali innovative – anche note come innovazione sociale – che generando innovazioni economiche stanno generando una pressione forte sulle istituzioni, inducendo quelle più attrezzate a imboccare la strada di innovazioni istituzionali, le altre a tentare di fare diga. Ormai si parla di economia della bellezza, economia della fiducia, della conoscenza, della cultura, della felicità, della collaborazione e della condivisione, di economia circolare, di economia sociale e solidale, di economia civile, finanche di economia della fiducia.
Tutte queste “nuove” forme di economia hanno alla base un’innovazione sociale, cioè ruotano attorno alla figura centrale dell’individuo o cittadino che guadagna una nuova forma di protagonismo non più solo come autore di acquisti o consumo, bensì come autore di risposte di interesse generale. Tutti questi accorgimenti linguistici mi fanno poi pensare al fatto che siamo in fondo in un periodo non di crisi, bensì di transizione da un paradigma sociale, istituzionale, economico e giuridico ad un altro. E dovutamente scandisco questi passaggi perché vorrei che fosse chiara la consecutio logica. In questo il payoff di LabGov – LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni, il progetto di formazione-intervento e ricerca-azione sulla re-immaginazione civica delle istituzioni che dirigo alla LUISS Guido Cari di Roma, è piuttosto cristallino: “La società corre, l’economia insegue, il diritto e le istituzioni (ri)disegniamole insieme”.
Ogni processo di innovazione è guidato da un aggiornamento, avanzamento, cambiamento delle pratiche sociali. Il cambiamento è sempre e prima di tutto un cambiamento sociale. Gli studiosi della storia della tecnologia raccontano di come anche l’avanzamento tecnologico sia sempre frutto di un cambiamento nelle pratiche sociali, non viceversa.

L’innovazione è una “rottura gentile” di un paradigma dominante fino a quel momento e cito qui un grande politologo, Edmond Burke, che dice che in realtà l’innovazione si caratterizza rispetto alla riforma – e questo ci deve aiutare a ripensare il ruolo del riformismo nel XXI secolo – per il carattere di forte discontinuità. Segnala un cambiamento qualitativo rispetto allo stato degli affari. Questa è l’innovazione. Allora nel XXI secolo forse la battaglia non sarà più fra riformisti e conservatori, ma tra collaborativi e competitivi, ossia tra individui ma anche attori economici, istituzionali, sociali, cognitivi, che si mettono in relazione su un piede di parità per superare i divide sociali, economici, tecnologici sfidando il paradigma esistente per re-immaginarlo, da un lato e soggetti che cercano di continuare a competere soprattutto per difendere privilegi e rendite acquisite, avendo d’occhio solo la massimizzazione del proprio utile individuale, dall’altro.

Veniamo così al tema del cambio di paradigma istituzionale, che stiamo ereditando dal cambio di paradigma economico e sociale, che secondo me sarà centrato sul concetto di collaborazione. Forse siamo nell’età del “co-“, in cui le parole chiave sembrano essere community, collaborazione, cooperazione, comunicazione, condivisione, conoscenza, commons, co-working, co-design, co-produzione, co-gestione, co-housing, co-progettazione, ecc. Allora l’amministrazione, come organizzazione, deve ripensare se stessa intorno a questo concetto del co-. Del resto anche le grandi organizzazioni di impresa si stanno modellando in maniera diversa perché capiscono che la gran parte del valore della loro organizzazione può venire dalla leva sulle energie che stanno all’esterno, dalla condivisione di risorse e conoscenza e dalla collaborazione che questa condivisione può abilitare.
Le istituzioni vanno ripensate in questa chiave, nell’ottica di diventare amministratori di relazioni, di circuiti o ecosistemi relazionali in cui la risposta non è più soltanto pubblica in senso soggettivo, è pubblica in senso oggettivo. In cui pubblico, privato, terzo settore, istituzioni culturali come scuola e università, cittadini singoli e innovatori sociali, lavorano insieme per dare una risposta ai problemi della società, della collettività. L’ho definita la governance a quintupla elica perché costruisce e ribatte rispetto alla governance a tripla elica (anche qui in estrema e brutale sintesi pubblico-privato-università) forgiata a Stanford per spiegare il successo della Silicon Valley.
Non può esistere Stato minimo o massimo in grado di dare risposta ai bisogni delle persone, che sono diventati bisogni disomogenei. L’amministrazione era stata concepita nell’800 come un corpo elitario, una scatola in grado di dare le risposte alla collettività, anch’essa concepita come non in grado, incapace, analfabeta, che non aveva conoscenza. Oggi è completamente diverso. È totalmente invertito il rapporto. L’istruzione, la conoscenza e le possibilità di risposta stanno fuori, non stanno all’interno e, quindi, ci ritroviamo con un’Amministrazione totalmente inequipaggiata, inadeguata a intercettare, assecondare e governare il cambiamento. Certo non per colpa di tutti coloro i quali lavorano per servire lo Stato e il cittadino. E per quanti corsi di formazione noi faremo, per quanti ringiovanimenti dei ranghi, che poi non facciamo, non saremo mai in grado di consegnare alla società delle istituzioni in grado di avere e dare tutte le risposte. Ecco perché va ripensata l’organizzazione e la cultura delle istituzioni in questa ottica circolare, open source: uno Stato piattaforma che si mette non alla guida del processo ma al di sotto e a sostegno di un circuito di relazioni e fa in modo che le persone diventino autori e attori di interesse generale.


Questo articolo è uno degli approfondimenti raccolti nel FPA Annual Report 2016. La pubblicazione è gratuita, ma per scaricarla è necessario essere iscritti alla community di FPA. Scarica FPA Annual Report 2016.


Uno Stato che rompe il monopolio della cura pubblica dell’interesse generale, non arretra nella cura degli interessi imprescindibilmente pubblici, e si fa amministratore di sistema come succede nel web. Da qui la necessità di ripensare il diritto amministrativo italiano, sbilanciato sulla legalità formale, sulla difesa della regolarità amministrativa, sulla produzione di atti e provvedimenti, sull’esecuzione a volte priva di intelligenza del comando e sull’assolvimento pedissequo ma cartolare di capitolati d’appalto e protocolli di servizio, raramente centrato sull’azione o produzione coordinata di risposte e di risultati che diano una soddisfazione completa, vera, misurabile e misurata ai cittadini. Forse il vincolo di legalità non basta o non serve più, viste tutte le volte e gli espedienti legali, sofisticati, denotanti grande capacità di immaginazione con cui si riesce a bypassare la legalità.
E allora non atti ma azioni. Questo vuol dire anche che, siccome siamo in una fase di transizione, ci dobbiamo rassegnare al fatto che non esiste una soluzione valida per tutto. Non esiste un modello pronto. Ci abbiamo messo venti, trenta anni per avere lo stato sociale che abbiamo ereditato, che è nato esattamente come sta nascendo lo stato collaborativo, negli spazi di coworking, nelle imprese e cooperative di comunità, nei fablab, negli impact hub, nelle imprese o nei collettivi culturali e creativi, nelle gestioni collettive di beni comuni, e via dicendo. Sto parlando delle migliaia di persone che stanno cercando di fare non una cosa nuova bensì una cosa unica, che dovrebbe essere motivo di orgoglio di rivalsa per l’Italia perché stiamo settando uno standard di eccellenza a livello internazionale: queste persone stanno ricostruendo e rigenerando lo Stato ripartendo dalle sue fondamenta.

Ecco, lo Stato sociale è nato nella società, nelle associazioni di quartiere, nelle libere società, nelle società di mutuo soccorso, nelle mutue autogestite, nel mondo della cooperazione e dei sindacati di prima generazione. Si tratta di capire come le istituzioni di oggi possono costruire su questo cambiamento che sta avvenendo perché altrimenti verranno trascinate via dalla corrente, travolte da quello che è successo in Grecia, Spagna, USA e forse succederà in Francia e Germania. Si tratta di capire come possiamo sperimentare, rassegnandoci al fatto che sperimentare significa sbagliare. Che si può sbagliare, che l’errore non significa fallimento ma che può essere occasione di miglioramento nella comprensione del nuovo paradigma e nella identificazione delle soluzioni pratiche che possono implementarlo, spunto per l’avvio e il riavvio di cicli successivi e iterativi di politica pubblica.

Serve cambiare la morfologia dello Stato, finanche nel design architettonico delle sue sedi. Meno sportelli burocratici, più spazi di coworking amministrativo mi verrebbe da dire. Meno presunzione di sapere come si fa perché ci si ritiene depositari di una razionalità legale, economica, burocratica. Più umiltà e inclinazione a lavorare intorno a un tavolo con chi nella società è portatore di questa capacità di immaginazione e re-immaginazione del paradigma visto che non è la “razionalità” che distingue la specie umana dalle altre specie, bensì proprio la capacità di immaginare come sfidare i meccanismi stupidi della razionalità. Bisogna dunque trovare il modo per liberare la creatività dei tanti immaginatori civici che sono nei ranghi della nostra burocrazia e nelle comunità delle nostre città e dei nostri territori, chiedere al legislatore di fermarsi un attimo e, prima di legiferare, forgiare gli strumenti per liberare l’immaginazione di chi sta nelle amministrazioni e ha voglia di sperimentare.

Queste persone devono avere la possibilità di sbagliare e liberarsi dalla paura amministrativa di sbagliare. C’è bisogno del coraggio di entrare in questa nuova logica, controbilanciare la collaborazione con la massima trasparenza, ben oltre il Decreto 33, mettere nell’ottica di collaborazione e co-progettazione le forze civiche e imprenditoriali. A Bologna come a Roma, a Reggio Emilia come a Battipaglia, in Toscana come a Palermo o a Terni abbiamo capito che le forze imprenditoriali locali che costruiscono la propria attività sul genius loci, sulla vocazione territoriale, non sono solo imprenditori, ma attori di interesse generale e sono disponibili ad avere una relazione pulita, adamantina, stabile e duratura con partner istituzionali e sociali credibili.

Non si chiedono salti mortali all’amministrazione, solo di essere utile, di non essere protagonista del cambiamento solo di farlo succedere. Una delle cose che stiamo facendo come LabGov è dunque costruire dei progetti adattivi e iterativi in giro per l’Italia e farlo con le forze della società civile, del civismo, della cultura, dei saperi e dell’impresa locale sana che si vogliono incamminare su questo sentiero. In Italia sta nascendo dalla periferia un nuovo metodo di governo, centrato sulla collaborazione, il terzo pilastro di quello che è stato definito il governo aperto: lo stiamo interpretando, cercando, allo stesso tempo, di colmare il gap di pensiero su come riorganizzare la comunità amministrativa in funzione delle innovazioni tecnologiche che richiedono innovazioni organizzative.

Le forze della collaborazione sono le migliori forze economiche e sociali sui territori e le migliori forze politiche, burocratiche e tecniche nelle istituzioni, che si mettono insieme e lavorano fianco a fianco per l’interesse generale. Non ci devono stare tutti, non c’è bisogno di tutti. Non è partecipazione, è collaborazione, progettualità concreta per creare nuove forme di occupazione e lavoro sui territori. Perché ogni territorio deve trovare la propria strada verso la collaborazione e costruire sulle proprie vocazioni, non esiste un principio uguale per tutti. Dobbiamo applicare il principio di differenziazione interpretandolo come principio abilitante l’auto-differenziazione o “diversità istituzionale” – come lo chiamava Elinor Ostrom, premio Nobel per l’economia grazie ai suoi studi sui beni comuni – per immaginare una nuova forma di Stato, uno Stato pluralizzato perché distribuito. Serve dunque un programma di sperimentazione su larga scala per la rigenerazione istituzionale. Un programma che rafforzi la capacità istituzionale delle amministrazioni di governare il cambiamento senza soffocarlo o volerlo dirigere.
Uno Stato-piattaforma che metta a disposizione il tempo, le competenze, le risorse umane, tecniche e logistiche per organizzare processi o laboratori territoriali in cui le cose poi cominciano a succedere anche a prescindere dall’amministrazione, certo in maniera controllata e legittimata, più che legittima. Garantita la possibilità per tutti di poter sperimentare, consentito a tutti di poter conoscere quello che gli altri stanno facendo e di potersi unire agli altri, verificato il rispetto di norme basilari su sicurezza e inclusione, si dovrebbe dare una libera licenza di sperimentare e immaginare. La messe di errori commessi e soprattutto le lezioni imparate dovrebbe essere la base per ripensare lo Stato nel XXI secolo. Le risorse ci sono, si chiamano PON Governance. Utilizziamole bene. Non avremo un’altra chance.

*LABoratorio per la GOVernance dei beni comuni, LUISS Guido Carli

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