Lotta alla corruzione: evitiamo l’incartamento

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L’idolatria normativistica che affligge il Belpaese colpisce ancora. Su un terreno di grande importanza per il funzionamento dell’amministrazione pubblica: il contrasto dei fenomeni di corruzione. Un tema intriso di enormi valenze, perché investe l’intero tessuto civile. È ovvio che, nella trama dei rapporti tra istituzioni pubbliche e cittadini, il corrotto presuppone il corruttore; questi, a sua volta, si può proporre in tale veste, se ritiene di poter contare su una potenziale disponibilità del pubblico funzionario ad attuare comportamenti illeciti. Questo l’incipit del contributo a firma del prof. Stefano Sepe, che pubblichiamo a seguire.

9 Aprile 2014

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Stefano Sepe

L’idolatria normativistica che affligge il Belpaese colpisce ancora. Su un terreno di grande importanza per il funzionamento dell’amministrazione pubblica: il contrasto dei fenomeni di corruzione. Un tema intriso di enormi valenze, perché investe l’intero tessuto civile. È ovvio che, nella trama dei rapporti tra istituzioni pubbliche e cittadini, il corrotto presuppone il corruttore; questi, a sua volta, si può proporre in tale veste, se ritiene di poter contare su una potenziale disponibilità del pubblico funzionario ad attuare comportamenti illeciti. Questo l’incipit del contributo a firma del prof. Stefano Sepe, che pubblichiamo a seguire.

Il fenomeno è in Italia preoccupante. Lo dicono gli indicatori a livello mondiale, lo si sa per semplice buon senso. Fronteggiarlo era d’obbligo, ma occorreva indirizzare le politiche di intervento, partendo dalla radice dei problemi, non illudendosi che – tagliate le foglie – l’albero malato (perché irrigato con acque malsane) possa tornare a essere vigoroso. Al solito, invece, si parte dai grandi castelli di carta delle norme. Alla legge 190 del 2012, sono seguiti i decreti attuativi e, nel settembre 2013, il piano nazionale anticorruzione, al quale devono far seguito i piani triennali delle singole amministrazioni, e via costruendo una montagna di adempimenti. Previsti sulla carta e su questa, in larga parte, destinati a restare, a cominciare dai piani triennali che molte amministrazioni non riescono a ancora redigere. L’insieme rischia seriamente di produrre rallentamenti ulteriori nelle macchine amministrative. Effetto che potrebbe essere tollerato – come quando si chiude temporaneamente un’arteria stradale per allargarla – a patto che lo strumento usato sia efficace a realizzare il miglioramento dell’azione. Ma così non sembra. Di ciò sono consapevoli – il che è un bene, ma anche un sintomo di anomalia – gli stessi soggetti pubblici chiamati a dirigere l’orchestra delle migliaia di musicisti che dovrebbero presidiare il terreno minato della legalità dell’amministrazione. L’Anac, per voce di uno dei suoi componenti, prefigura il grave rischio di enorme aggravi burocratici; lamenta la presenza di troppi soggetti che affollano il campo e di troppi adempimenti; rileva, con buona ragione, che le norme hanno isolato il problema, come se fosse presente soltanto nelle amministrazioni pubbliche e/o fosse soltanto da esse causato.

Insomma, il tema è cruciale, gli intenti sono ottimi, gli strumenti adottati sembrano inadatti. Credere che esista una diretta proporzionalità tra quantità/gravosità delle norme e soluzione di un problema è una stortura che sconfina, nella legislazione italiana, nell’ossessione. Male difficile da curare. Eppure occorre provarci, cominciando dal ribaltare il metodo. Poche norme, semplici e di principio, devono essere la bussola della rotta della nave. Il resto lo devono fare i marinai, che hanno da essere capaci e ben addestrati. Per evitare di ricadere per l’ennesima volta nel vortice di norme inapplicabili, inapplicate, dimenticate con il conseguente effetto boomerang nella qualità dell’azione pubblica e – aspetto non meno rilevante – nella cattiva reputazione delle amministrazioni si potrebbe cominciare a guardare alle “filiere” attraverso le quali si può intervenire.

Prima filiera: soggettiva. Far leva su tre criteri base:

  • Competenza (nel senso di  “sapere professionale”, non di attribuzioni formali)
  • Responsabilità (intendendo, responsabilizzazione riguardo a risultati e modo di ottenerli, non soltanto preoccupazione di regolarità formale)
  • Esercizio del controllo (come modalità costante e ordinaria di esercizio del ruolo di chi governa una struttura; il che implica in radice rapporti di lealtà e di reciproco rispetto tra chi dirige e chi collabora, nella distinzione di compiti).

Seconda filiera: oggettiva. Strutturare in modo costante:

  • Semplificazioni procedurali (che quasi sempre possono essere ottenute senza nuove norme, ma usando quelle esistenti in modo intelligente e orientato a un equilibrato bilanciamento tra compiti e risultati)
  • Trasparenza (nei percorsi decisionali, nell’uso delle risorse, nella distribuzione dei compiti)
  • Formazione del personale (mirata soprattutto a introdurre elementi di riflessione: sull’esigenza sociale di un corretto esercizio della funzione pubblica; sull’etica del servizio; sui modelli di comportamento)
  • Controllo civico (attraverso la costruzione di momenti di partecipazione non generica o generalizzata, ma focalizzata su pochi ma specifici elementi rilevanti nelle singole amministrazioni o situazioni di fatto).

A ciò andrebbe accomunato il recupero di antichi strumenti dell’azione amministrativa, che potrebbero essere riesumati e riadattati nelle modalità di esercizio. Si pensi, ad esempio, a un tradizionale strumento di controllo “interno”: le ispezioni. Strumento che ha perso quasi del tutto valenza per come ne viene concepito l’uso. Che senso hanno le ispezioni programmate e, peggio ancora, annunciate il giorno (o addirittura la settimana prima)? Uno stretto collaboratore di Francesco Crispi, sosteneva che l’ispettore dovesse sorprendere “sul fatto l’andamento di un ufficio” per controllarne l’esercizio e correggerne i difetti. Roba d’altri tempi, si dirà. Ma da prendere come spunto di riflessione tuttora valido.

L’inversione di tendenza nelle politiche di contrasto dei fenomeni corruttivi dovrebbe cominciare dalle parole. Saggiamente Luciano Vandelli ha suggerito di limitare l’uso del termine “anticorruzione”, sostituendolo con “buona” o “corretta” amministrazione. Oppure, si potrebbe aggiungere, richiamando il concetto di legalità sostanziale. Tutti connotati di matrice costituzionale di quello che dovrebbe essere il normale agire delle istituzioni pubbliche, chiamate – per definizione – a prendersi cura del bene comune. Le leggi – specialmente quando vanno a regolare fenomeni di grande complessità sociale – dovrebbero essere “congegni funzionali” non camicie di Nesso, che imbrigliano senza difendere. Non pezzi di carta, che incartano l’amministrazione, ma strumenti per l’azione.

 

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