Sulla dirigenza locale: anziché guardare indietro, il coraggio di alzare l’asticella

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Il dibattito proposto da Carlo Mochi Sismondi, sulla necessità di superare le attuali modalità di accesso alla dirigenza, ha acceso una discussione vivace alla quale vorrei contribuire, piantando alcuni paletti e punti fermi e lanciando una proposta operativa, che, senza grandi stravolgimenti degli ordinamenti istituzionali, potrebbe contribuire a produrre immediatamente potenti dinamiche di innovazione all’interno delle amministrazioni pubbliche locali.

4 Dicembre 2012

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Mauro Bonaretti

Articolo FPA

Il dibattito proposto da Carlo Mochi Sismondi, sulla necessità di superare le attuali modalità di accesso alla dirigenza, ha acceso una discussione vivace alla quale vorrei contribuire, piantando alcuni paletti e punti fermi e lanciando una proposta operativa, che, senza grandi stravolgimenti degli ordinamenti istituzionali, potrebbe contribuire a produrre immediatamente potenti dinamiche di innovazione all’interno delle amministrazioni pubbliche locali.

Una proposta operativa per accedere alla dirigenza nelle amministrazioni locali.

Oggi l’accesso alla dirigenza tutela le esigenze dei candidati ma non i bisogni di innovazione delle amministrazioni. Parlando forse con troppa brutalità: chi vince un concorso con un tema e tre domande rimane dirigente a vita nella stessa amministrazione a prescindere dalle reali esigenze future.
Personalmente credo sia sbagliato. E sinceramente non credo sia quello dell’accesso un momento poi recuperabile da ipotetiche successive riconversioni professionali.
Al contempo, credo sia sbagliata l’apertura indiscriminata a incarichi dirigenziali di tipo fiduciario. Credo sia sbagliato che chiunque possa accedere all’amministrazione senza aver prima mostrato prova di possedere i requisiti necessari. Non è un problema di numeri e quote. E’ un problema di coerenza del sistema.

Occorre a mio parere individuare un sistema capace di diverse esigenze:

  • le amministrazioni hanno bisogno di professionalità nuove e adeguate alle amministrazioni che vogliamo, non a quelle che abbiamo,

  • le amministrazioni hanno bisogno di flessibilità e anche di rapporti a durata limitata nel tempo,

  • le amministrazioni hanno bisogno di professionalità certificate e garantite,

  • le amministrazioni locali e i Ministeri non necessariamente devono avere le stesse regole di accesso,

  • le amministrazioni hanno bisogno di poter contare su un mercato del lavoro della dirigenza pubblica aperto.

La proposta che avanzo consiste in un semplice meccanismo concorsuale che riprende quello in uso per l’insegnamento universitario.

Nell’ambito di una cornice nazionale condivisa tra gli attori istituzionali nazionali e prevista da apposita norma, annualmente, a livello di territorio regionale, si raccolgono i fabbisogni organici per tipologia di profilo dirigenziale e si bandiscono concorsi pubblici per entrare nell’albo nazionale dei dirigenti delle autonomie locali. Le amministrazioni, tramite ulteriore selezione e sulla base dei propri fabbisogni occupazionali, scelgono le professionalità ritenute più specificamente adeguate ai propri bisogni organizzativi, offrendo al candidato un posto a tempo determinato rinnovabile. I dirigenti così assunti appartengono all’albo e al ruolo unico nazionale della dirigenza. Per mantenere questo status i dirigenti devono maturare nel corso del periodo di assunzione un numero stabilito di crediti, ottenibili attraverso percorsi formativi o esperienze particolarmente significative dimostrate sul campo. In caso ciò non avvenga il dirigente decade dall’albo e al termine del contratto dal ruolo unico. Qualora al termine del rapporto di lavoro a tempo determinato il dirigente non venga rinnovato o non trovi altra collocazione decade dal ruolo unico, ma mantiene la propria appartenenza all’albo se ha maturato i crediti necessari. In caso di non chiamata da parte di amministrazioni per un periodo superiore ai tre/cinque anni i dirigenti decadono anche dall’albo della dirigenza pubblica, anche nel caso abbiano maturato i crediti richiesti.

Questa proposta alza l’asticella. E di parecchio.

Impone alle amministrazioni vincoli assuntivi maggiori nella certificazione delle competenze e introduce per i dirigenti nuovi fattori di rischio e forti incentivi all’impegno professionale, ma al contempo permette anche molta più flessibilità organizzativa e molte più opportunità professionali di turn over nell’ambito di un mercato del lavoro finalmente aperto.

Cerco di sintetizzare di seguito le ragioni e le riflessioni sottese a questa proposta.

  • Non si stava meglio quando si stava peggio. Corruzione e clientele non si combattono tornando a Tangentopoli.
    Sinceramente non mi pare che prima dell’introduzione delle possibilità di accesso previste dalle leggi Bassanini, le nostre amministrazioni fossero meno clientelari e più meritocratiche. In verità le ragioni sottese a quelle norme furono proprio approvate nel tentativo di rilegittimare le istituzioni a fronte di un clima di devastante disaffezione, provocato dalla precedente stagione di tangentopoli. Attraverso il ricorso a strumenti più dinamici per la dirigenza, si cercò allora di migliorare il buon andamento dell’amministrazione e riallacciare una più stretta relazione di fiducia tra istituzioni e cittadini. Se oggi molti osservatori negano che questo tentativo abbia avuto successo (pur in assenza di oggettive valutazioni sulle performances amministrative, come nella migliore tradizione italiana), non riesco però a capire come il ritorno alla stagione precedente (che aveva visto l’emergere di tangentopoli) possa risolvere il problema e rappresentare una risposta efficace alle esigenze poste dai nostri principi costituzionali. Non capisco come un ritorno al passato risolva i problemi oggettivi di trasparenza e innovazione a cui siamo posti di fronte. Se il tema del buon andamento e dell’imparzialità sono ancora oggi questioni irrisolte, non è comunque costruttivo rincorrere una soluzione richiamandosi ad un improbabile “si stava meglio quando si stava peggio”.

  • I principi costituzionali sono plurimi e non possiamo ricordarne solo alcuni, dimenticando gli altri.
    I principi costituzionali previsti dall’art. 97 sottesi alla scelta di privilegiare l’accesso per concorso alla pubblica amministrazione (salvo i casi previsti dalla legge) sono principi che tendono non solo a tutelare imparzialità di accesso alla amministrazione pubblica, ma anche a garantirne il buon andamento. Una riflessione importante va fatta dunque in questa direzione: le nostre amministrazioni sono oggi in grado di garantire un buon andamento? Lo sono forse state fino a quando il concorso pubblico era l’unico strumento di accesso?

    Cerco di spiegarmi meglio: non ci si può dimenticare che le istituzioni, a fianco del dovere di imparzialità, hanno anche una ragione d’essere e una missione istituzionale da perseguire che viene genericamente racchiusa nel principio del buon andamento (efficienza, efficacia, innovazione). La selezione della propria classe dirigente non è una variabile irrilevante per l’andamento di un’organizzazione (in particolare così labour e knowledge intensive) e, se si ritiene che oggi l’andamento non sia buono, una qualche riflessione sui meccanismi di accesso bisognerà pur farla, senza rifugiarsi semplicisticamente nelle soluzioni del passato.  

  • La politica è espressione della democrazia, non una forza eversiva da cui tutelarsi.
    Una terza riflessione riguarda il rapporto tra politica e burocrazia. A tutti è chiara l’indispensabile esigenza di distinguere ruoli e poteri. Così come necessariamente è in primo luogo la dirigenza a dover garantire il rispetto della correttezza amministrativa. Tuttavia la dirigenza pubblica non rappresenta un “contro potere” rispetto alla politica, ma un “diverso potere” convergente a raggiungere obiettivi comuni. La dirigenza non è chiamata a realizzare obiettivi propri e indipendenti. La dirigenza rappresenta lo strumento che contribuisce ad elaborare ed attuare le politiche pubbliche stabilite dagli amministratori, che non sono pericolosi eversori da ostacolare e temere, ma bensì i soggetti che i cittadini hanno incaricato di governare per la durata del loro mandato. Tutto ovviamente nel più totale rispetto delle norme, della imparzialità, della correttezza amministrativa e del buon andamento. Tutti i dirigenti, ma più in generale tutti coloro che ricoprono cariche pubbliche, devono contribuire allo scopo e alla ragione d’essere delle istituzioni a cui appartengono, nel più stretto e rigoroso rispetto delle leggi. La fedeltà e la lealtà istituzionale nei confronti di chi guida le istituzioni non solo non può essere considerato un difetto della dirigenza pubblica, ma è in realtà un preciso dovere, così come lo è il rispetto e l’osservanza delle norme e dei vincoli di legge. Fare ogni sforzo per perseguire gli obiettivi stabiliti dalla politica e osservare la correttezza amministrativa sono i doveri di chiunque, sia esso dirigente a tempo determinato, a tempo indeterminato, di nomina fiduciaria, reclutato tramite un concorso. Intendo dire che i doveri di lealtà e correttezza valgono per tutti e non è certo il tipo di meccanismo di accesso a definire i doveri dei dirigenti, ma il nostro ordinamento giuridico.  

  • Non ci sono categorie professionali più sane o malate di altre. Solo responsabilità, etica e trasparenza sono antidoti alla corruzione.
    Si dirà che i dirigenti nominati fiduciariamente e a tempo determinato sono più soggetti a pressioni perché più ricattabili nella loro posizione contrattuale. Onestamente mi pare una valutazione priva di qualsiasi fondamento. I casi di illegittimità sono rinvenibili in tutte le categorie, così come lo sono quelli di tutela dell’interesse generale e di comportamenti integerrimi, anche di fronte a forti pressioni esterne. L’onestà è in primo luogo un fatto di responsabilità e di etica pubblica che sono valori non ascrivibili in particolare a nessuna categoria professionale, ma che dovrebbero invece appartenere a tutte. La responsabilità si misura con la trasparenza, la semplicità dei processi, la chiarezza dei poteri e il dovere di render conto del proprio agire (accountability). La responsabilità non è eliminare gli spazi di decisione ai dirigenti, ma al contrario è dare conto delle decisioni e dei comportamenti assunti nella discrezionalità propria del ruolo di dirigente. Non sono certo i mille passaggi e le complicazioni operative a rendere esplicite e visibili le responsabilità, che al contrario possono a volte diventare sempre più opache e attenuate da un meticoloso quanto opportunistico rispetto formale degli adempimenti. Responsabilità ed etica non sono garantite dalla modalità di accesso, ma dal valore delle persone, dalla chiarezza del sistema organizzativo (ruoli e procedure), dalla totale trasparenza dei comportamenti e delle decisioni (total disclosure). 

  • Occorre ridare centralità alle esigenze del datore di lavoro (le amministrazioni) e non solo a quelle dei candidati. 
    Nel dettato costituzionale sul concorso si fondono in un unico strumento due esigenze: la parità delle opportunità di accesso alle amministrazioni e l’esigenza di scegliere le professionalità migliori per l’amministrazione. Il concorso in questo senso tutelerebbe due esigenze nel mercato del lavoro pubblico: una propria dell’offerta di lavoro (i candidati) e l’altra propria della domanda (l’amministrazione come datore di lavoro). Come dimostrano le pratiche abitualmente adottate dalle organizzazioni private non necessariamente le due esigenze coincidono, tanto è che nessuna azienda si sognerebbe mai di reclutare il proprio personale con un concorso. L’esigenza primaria che garantisce il concorso non è infatti quella del reclutamento della migliore professionalità da parte del datore di lavoro, ma quella del candidato e delle sue pari opportunità di accesso. In altre parole la prima attenzione dei concorsi è alla regolarità formale delle procedure e all’oggettività delle valutazioni proprio per dare concretezza a questa sua precipua finalità. Non è dunque sorprendente se si osserva che nella maggior parte dei casi i concorsi si risolvono in quiz, temi e domande orali presso una commissione. Si tratta in tutti i casi di prove (pseudo) oggettive e in grado di reggere di fronte ai ricorsi, ma capaci solamente di far emergere le conoscenze dei candidati. Per nulla queste prove sono invece atte a valutare capacità o competenze organizzative. Oltre a non considerare la rapidissima obsolescenza delle conoscenze in ingresso, questo meccanismo dimentica che, laddove le amministrazioni hanno superato la fase dello stato liberale, la conoscenza tecnica rappresenta sempre più solo una delle skills richieste. L’incongruità della tradizionale modalità concorsuale appare evidentissima. A mio parere, pur cogliendo l’esigenza di pari opportunità per i candidati, è necessario mettere più al centro, nei processi di selezione, la posizione del datore di lavoro pubblico e i fabbisogni professionali specifici delle organizzazioni. Se vogliamo innovare le amministrazioni abbiamo bisogno di personale adeguato alle esigenze specifiche dei diversi ruoli nelle diverse organizzazioni e non di persone che un’asettica commissione, orientata principalmente ad evitare ricorsi, ha valutato migliori in astratto, rispetto a profili inevitabilmente ampi e generici.  

  • Abbiamo bisogno di classe dirigente flessibile e specificamente competente 
    Oggi le amministrazioni sono poste di fronte a fabbisogni di innovazione molto forti e spesso contingenti.
    Senza entrare nel dettaglio, solo accenno a come cambia la dimensione professionale a seconda del contesto organizzativo in cui opera. Ad esempio è differente dirigere contesti autorizzatori, o funzioni di produzione di beni e servizi, o ancora politiche pubbliche che richiedono un forte orientamento alla governance ed alla sussidiarietà orizzontale. Si tratta di modelli direzionali diversi e raramente le amministrazioni sono dotate delle competenze necessarie ad esempio per l’esercizio del terzo modello di riferimento. O ancora, si pensi ai fabbisogni di professionalità necessari per realizzare un progetto o una specifica politica pubblica particolarmente emergente in una determinata fase storica, ma poi magari non più prioritaria per ragioni sociali o di diversa sensibilità politica dell’amministrazione successiva. In tutti questi casi flessibilità e nuove competenze direzionali sono esigenze fondamentali e peraltro incompatibili (se non con un consolidamento dei costi) con il ricorso a rapporti a tempo indeterminato.  

  • Ministeri e autonomie hanno esigenze diverse e perciò diverse possono essere le regole. 
    In questo senso la diversità tra Ministeri e amministrazioni locali è decisiva e soprattutto queste ultime sono poste di fronte al bisogno di rispondere in modo tempestivo a queste esigenze. La presenza di differenze nei sistemi di accesso alle diverse amministrazioni, nell’ambito di principi generali comuni, non va letto come un problema del sistema pubblico, ma come un segnale di intelligenza nel comprendere che differenti contesti richiedono differenti logiche di azione organizzativa. Il principio non è particolarmente originale per le scienze sociali e per il buon senso, eppure il percorso che si è portato avanti in modo convulso negli ultimi anni è andato nella direzione opposta, nel tentativo di “ministerializzare” le autonomie. 

  • Concorsualità e tempo determinato sono principi compatibili.
    Spesso si fa confusione tra variabili in realtà diverse tra loro. Un conto è il meccanismo di selezione (intuitu personae con carattere di fiduciarietà o procedura concorsuale), altra è la durata del rapporto di lavoro che può essere a tempo indeterminato o a tempo determinato. Il fatto che un’organizzazione abbia bisogno di rapporti dirigenziali a tempo determinato non significa affatto che debba ricorrere a meccanismi selettivi fiduciari. Nulla vieta di bandire concorsi per dirigenti a tempo determinato.
    Riportando tutto il sistema nell’alveo della tradizionale dirigenza a tempo indeterminato, se da un lato si è tutelato il principio della imparzialità della selezione, dall’altro però si è anche eliminata la flessibilità nella durata del rapporto di lavoro, cancellando la possibilità di dar vita a un mercato del lavoro della dirigenza pubblica che infatti oggi è inesistente. Certamente le amministrazioni hanno bisogno di professionalità garantite e certificate e non di professionalità sprovviste di requisiti fondamentali e non di meno questa possibilità di accesso deve essere garantita a tutti. 

  • Serve un mercato aperto della dirigenza pubblica.
    Oggi non esiste un mercato del lavoro aperto della dirigenza pubblica. Non esiste mobilità, non vi sono percorsi di carriera. Siamo di fronte ad un mercato del lavoro bloccato, caratteristica questa che, come è noto, non aiuta i processi di sviluppo professionale, di maturazione di competenze, di apertura al rischio e al cambiamento. Al contrario cristallizza le posizioni dirigenziali, crea rigidità e rendite di posizione.
    Occorre sbloccare il mercato del lavoro della dirigenza pubblica e introdurre incentivi professionali forti alla mobilità, all’apprendimento e alla crescita professionale, per poter avere una dirigenza che guardi avanti, che stia al passo coi tempi, che renda la pubblica amministrazione italiana all’altezza di un confronto con l’Europa e con un mondo che cambia a velocità impressionante.

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