EDITORIALE

Un Paese alla ricerca della normalità per ridare slancio a creatività e innovazione

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L’anno appena concluso ci restituisce una visione più chiara e coerente di quelle che possono essere le linee di riferimento e il percorso da seguire per aspirare a una nazione in grado di rispondere ai bisogni sempre più complessi e articolati di famiglie e imprese. Ovviamente le contraddizioni non mancano, soprattutto se lo sguardo si sofferma sulle nostre pubbliche amministrazioni ancora troppo lente ad adattarsi agli stimoli esterni. Ecco l’analisi con cui apriamo il nostro ultimo Annual Report

30 Gennaio 2020

Gianni Dominici

Amministratore Delegato FPA

Annual Report 2019 - Foto di FPA


L’anno appena concluso, pur tra le mille contraddizioni che contraddistinguono il nostro Paese, ci restituisce una visione più chiara e coerente di quelle che possono essere le linee di riferimento e il percorso da seguire per aspirare a una nazione in grado di rispondere ai bisogni sempre più complessi e articolati di famiglie e imprese.

Contraddizioni e segnali di cambiamento

Guardare indietro ai dodici mesi appena conclusi, infatti, è come guardare all’interno di un caleidoscopio dove i diversi pezzettini sparsi, rappresentanti le energie vitali diffuse nel Paese, si strutturano e si coordinano insieme per restituirci finalmente un’immagine definita. Ovviamente, si diceva, le contraddizioni non mancano soprattutto se lo sguardo di analisi si sofferma sulle nostre pubbliche amministrazioni ancora troppo lente ad adattarsi agli stimoli esterni.

L’indebolimento delle istituzioni

La prima più evidente contraddizione riguarda il tema dell’indebolimento strutturale delle nostre istituzioni, conseguenza soprattutto della riduzione di oltre 193mila unità di personale registrato in 10 anni (pari al 5,6%) variamente distribuita nei vari comparti del pubblico impiego. Questo, insieme al blocco delle assunzioni, ha comportato un sensibile innalzamento dell’età media dei dipendenti pubblici, conseguenza dello spostamento del personale in servizio verso le classi di età più elevate: gli over 60 nella PA sono 531.585, ossia il 16,4% del totale del personale. Erano il 5,8% nel 2009 e il 4% nel 2001. E di giovani non se ne vedono: gli under 30 sono appena il 2,8% (erano il 10,4% nel 2001). Crescita del ricorso a figure flessibili e precarie di contrattualizzazione e deboli politiche di stabilizzazione: i precari della PA sono 340.116.

A questa situazione strutturale ci sono da aggiungere poi il ritardo e le incertezze sul rinnovo contrattuale e lo stallo del processo di riforma, che risente di un brusco e inaspettato cambio di Governo e della mancata attuazione di molti dei provvedimenti delle precedenti ondate riformatrici.

Nonostante ciò, e nonostante le ulteriori innumerevoli considerazioni di carattere negativo che possiamo facilmente aggiungere e che non vogliamo minimizzare, i mesi passati ci restituiscono, come si diceva, un’immagine più coerente e chiara della strada da percorrere grazie a importanti segnali di iniziative e di processi che, se portati a maturazione, potrebbero finalmente fare la differenza aiutando a mettere a sistema le diverse spinte al cambiamento.

La dimensione politica

Il primo segnale riguarda la dimensione politica. In un Paese troppo spesso schiacciato sul presente e in cui capita anche di dividersi sulla Nutella, sono emersi dei temi di prospettiva, di scenario, indispensabili per condividere la direzione di crescita.

Per primo il tema dello sviluppo sostenibile e, in particolare dell’Agenda 2030, così come del Green New Deal, che si stanno diffondendo sempre di più in termini di consapevolezza e anche di programmi operativi a livello locale. Non si tratta più di temi per iniziati ma di politiche di sviluppo condivise e diffuse finalmente anche in Italia. Non a caso il rapporto Svimez 2019 considera il Green New Deal un’opportunità di rinascita economica del Mezzogiorno dove ci sono le precondizioni favorevoli per una rivoluzione produttiva basata sulla sostenibilità ambientale. Così come va in questa direzione l’impegno dei sindaci metropolitani di dotarsi di una Agenda metropolitana per lo sviluppo sostenibile con Bologna che, lo scorso marzo, ha fatto da apripista presentando per prima la sua Agenda (con la speranza che venga presto seguita dalle altre città). Accanto a questo, finalmente anche in Italia il tema della quarta rivoluzione industriale, e dell’importanza dei processi di digital transformation «come motore che imprime una nuova spinta a tutti i settori dell’economia e della società», ha assunto una dimensione istituzionale con il discorso del Presidente del Consiglio sulla Smart Nation. Con estremo ritardo (ma meglio tardi che mai) nel nostro Paese ci si è resi conto dell’importanza delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione come forces of disruption nel determinare non un semplice adattamento ma un inevitabile cambiamento radicale dentro e fuori le nostre istituzioni. Un ulteriore segnale di consapevolezza è sicuramente da considerare la presentazione, in chiusura dell’anno, da parte della Ministra Pisano, del Piano 2025 – Strategia per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione del Paese in cui, tra le altre cose, vengono dettagliate venti azioni (+ una) per trasformare l’Italia.

La governance dell’innovazione

Il secondo riguarda la governance dell’innovazione. Finalmente anche in Italia c’è una chiara mappa della governance istituzionale dell’innovazione che ci fa sperare che potremmo lasciarci alle spalle quella gestione “da manicomio” degli anni passati. Abbiamo una Ministra dell’innovazione (era dal 2006, con il Governo Berlusconi III, che non avevamo un ministero dedicato), c’è un Dipartimento dedicato che eredita e istituzionalizza l’esperienza del Team per la Trasformazione Digitale, c’è infine un’Agenzia, l’AgID, che deve rispondere al Dipartimento attraverso un contratto di servizio. Abbiamo una società specializzata, come PagoPA, dedicata a quelle che sono le attuali killer application della PA, abbiamo, con lo scadere dell’anno, la nomina di Francesca Bria alla presidenza del Fondo Nazionale Innovazione. Insomma, se non ora, quando?

La centralità delle persone

Il terzo segnale riguarda la diffusa consapevolezza, ai diversi livelli, della centralità delle persone, dell’importanza del fattore umano nel portare avanti processi di cambiamento che si sostanzia nello sblocco del turnover di cui parleremo di seguito, nell’attenzione per le competenze digitali, nel diffondersi della cultura dello Smart Working, nelle iniziative di facilitazione, formazione e mentoring per accompagnare i nuovi assunti nella PA (come l’esperienza della Provincia Autonoma di Trento), nel lancio, da parte della Ministra Dadone, della piattaforma ParteciPA, nella sperimentazione dell’app IO, nelle attività di engagement nei processi di trasformazione digitale istituzionali, nelle esperienze di Human-centred design nello sviluppo dei servizi pubblici che nel corso dell’anno appena concluso hanno trovato sostanza e reale applicazione.

Tre segnali di cambiamento maturati nel corso dell’anno appena concluso che, presi ciascuno separatamente, sono sicuramente perfettibili e probabilmente inadeguati ma che, insieme, definiscono uno scenario condivisibile in grado di orientare e guidare, come abbiamo già detto, le diverse iniziative valorizzandole e accrescendole di valore e di senso, andando a prefigurare una nuova strategia per il cambiamento.

Lo sblocco del turn over e le nuove assunzioni

Entrando nel dettaglio delle diverse iniziative e fenomenologie, dei diversi frammenti che costituiscono la nostra colorata immagine, con il definitivo sblocco del turnover, si sono create le condizioni per quello che potrebbe essere un cambiamento genetico delle nostre PA e che porterà ad assumere tra i 450mila e i 500mila nuovi lavoratori nei prossimi tre anni. I piani di assunzione non dovranno però essere meri rimpiazzi di chi esce, ma essere calibrati sui piani dei fabbisogni del personale, già previsti dalla riforma Madia, e che dovranno essere strettamente legati al piano delle performance dell’amministrazione che assume. In parole povere, dovranno essere coerenti con quello che l’amministrazione si propone di fare per rispondere alla sua missione istituzionale.

Se non vogliamo semplicemente riprodurre l’esistente, le pubbliche amministrazioni devono organizzarsi velocemente per: effettuare la rilevazione dei fabbisogni, bandire i concorsi, predisporre e svolgere le prove selettive e le valutazioni, stilare la graduatoria e procedere all’assunzione. Questo significa definire nuovi profili professionali (adeguati ai bisogni futuri delle PA) e le relative competenze di riferimento; indicare nuove modalità concorsuali in modo da testare anche competenze trasversali (le cosiddette soft skill), immaginando sin d’ora anche ulteriori ambiti di competenza per il lungo termine e, perché no, anche pensando di introdurre test psico-attitudinali per alcuni settori; definire regole, metodologie e strumenti operativi per facilitare la condivisione di graduatorie di concorsi tra più amministrazioni e per velocizzare lo svolgimento di concorsi nazionali (garantire tempi certi è fondamentale).

La formazione del personale

Il rinnovo della PA si lega quindi in modo indissolubile a quello della formazione da considerare in tutti i diversi momenti di interazione con le istituzioni. Già nella fase concorsuale è importante trasmettere le giuste competenze e valori e motivare coloro che ambiscono a entrare nella PA. È il senso e lo scopo, ad esempio, del progetto lanciato nel 2019 dalla FP-CGIL a cui noi stessi di FPA stiamo collaborando e che offre informazioni utili sui concorsi ma, soprattutto, materiali formativi di base e avanzati a supporto di coloro che vogliono partecipare a un bando pubblico, partendo dalla convinzione che «la pubblica amministrazione abbia bisogno di una nuova generazione di lavoratori pronta a migliorare e innovare i servizi pubblici».

Successivamente, per valorizzare l’entrata in servizio dei nuovi dipendenti, oltre a un periodo iniziale di formazione su competenze trasversali, sarebbe necessario mettere in campo anche azioni culturali, contaminazioni tra neoassunti e senior, magari attraverso un tutoring iniziale. Sarebbe inoltre importante attivare dei percorsi di visiting, mostrando ai neoassunti settori d’eccellenza delle pubbliche amministrazioni e delle imprese (attraverso opportune partnership pubblico-privato), con particolare riferimento alla digitalizzazione dei processi e all’innovazione nei vari settori verticali dei servizi. Infine, dobbiamo essere consapevoli della necessità di gestire il personale che attualmente è in servizio, e che molto probabilmente dovrà dedicarsi ad altre attività nel prossimo futuro, per cui saranno sempre più indispensabili competenze digitali e soft skill.

Importanti, su questo tema il documento dell’AgID per lo sviluppo di competenze digitali di base, di e-leadership e specialistiche, e il Syllabus delle competenze digitali per la PA, a cura del Dipartimento della funzione pubblica che, finalmente, nel corso dell’anno ha visto la luce con l’obiettivo generale di fare in modo che tutti i dipendenti pubblici siano in grado di operare attivamente in modo sicuro, consapevole, collaborativo e orientato al risultato all’interno di una pubblica amministrazione sempre più digitale.

La valutazione delle performance

Accanto alla formazione, un’altra leva è importante per motivare i dipendenti, quella della valutazione delle performance che però, fino a oggi, rimane appiattita sulla produttività individuale. L’anno appena concluso ha visto la nascita delle Linee guida sulla valutazione partecipativa nelle amministrazioni, pubblicate il 28 novembre 2019 dal Dipartimento della funzione pubblica che dà così seguito a una delle novità più rilevanti introdotte dal d.lgs. 74/2017, che ha modificato la normativa sulla valutazione della performance (d.lgs. 150/2009). Linee guida che spostano l’attenzione sulle performance organizzative su cui si dovranno esprimere cittadini e utenti. Un passo importante soprattutto dal punto di vista culturale che pone al centro, appunto, il singolo ma in quanto appartenente a un’organizzazione con obiettivi condivisi.

Lo Smart Working

Stesso approccio che vale o che dovrebbe valere per garantire la piena comprensione e diffusione dello Smart Working dentro la pubblica amministrazione. Lo Smart Working troppo spesso viene ancora considerato una soluzione a supporto di situazioni individuali particolari e non, invece, una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una responsabilizzazione sui risultati, appunto, comuni. Nonostante ciò, il 2019 è stato sicuramente un anno importante per lo Smart Working nel settore pubblico.

Sono infatti aumentate nell’ambito della PA le iniziative di sensibilizzazione e accompagnamento a livello nazionale così come la diffusione, anche se ancora rimane un fenomeno quantitativamente marginale. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano c’è stato un significativo aumento in termini di diffusione dei progetti strutturati, che sono raddoppiati rispetto allo scorso anno, passando dall’8% del 2018 al 16%. Aumentano anche le iniziative informali, che crescono dall’1% al 7%. Dati incoraggianti ma, come già anticipato, ancora di nicchia. Anche qui il cambiamento è prevalentemente culturale e chiama in causa la cultura manageriale di quei dirigenti che dovrebbero favorire il passaggio dal meccanismo del controllo a una relazione tra capo e collaboratore basata sulla fiducia.

La dirigenza pubblica

A proposito della dirigenza pubblica, il 2019 non ha portato significativi cambiamenti. Come abbiamo scritto nel testo, la dirigenza era il pilastro mancante della riforma Madia e la bocciatura del decreto legislativo da parte della Corte Costituzionale, per un vizio di consenso da parte delle Regioni, aveva in sostanza ‘coperto’ una situazione di grave conflittualità tra Governo, Consiglio di Stato e, in particolare, tutto il corpus dei dirigenti pubblici, che ne avevano rilevato gravi pericoli. Si rischia così di tornare a una classe di dirigenti pubblici stabili, preservati dal rischio (a meno che non siano essi stessi assenteisti o non siano attenti a sanzionare i furbetti), rinchiusi nei recinti più o meno protetti dei ruoli delle singole amministrazioni, certi che una volta conquistato un ruolo lo terranno a vita, che non diventino, al contrario, protagonisti e facilitatori dei processi di cambiamento in corso.

La trasformazione digitale

Il secondo grande driver di innovazione riguarda la trasformazione digitale. In quest’ambito, ai ritardi strutturali di sempre testimoniati anche dai confronti internazionali, si affiancano i processi in corso che nel 2019 hanno trovato un’occasione di accelerazione. In base ai dati dell’indice di digitalizzazione dell’economia e della società (DESI) della Commissione europea per il 2019, l’Italia si colloca ancora al 24º posto fra i 28 Stati membri dell’UE.

DESI e Open Data Maturity Report

Il Paese è in buona posizione in materia di connettività, dimensione in cui passa dal 26º al 19º posto. Sono in crescita la copertura a banda larga veloce (raggiunto il 90% delle famiglie) e la diffusione del suo utilizzo (24%, ancora sotto la media UE del 41%), mentre sono ancora molto lenti i progressi nella connettività superveloce (24% di famiglie raggiunte, 9% di utilizzatori). Inoltre, tre persone su dieci non utilizzano ancora internet abitualmente, e più della metà della popolazione (56%) non possiede competenze digitali di base. A questi dati si aggiungono quelli dell’Open Data Maturity Report 2019, che fa fare all’Italia un bagno di umiltà, riportandola in 8° posizione (rispetto al quasi-podio dello scorso anno).

Guardando alla situazione italiana generale di quest’anno, caratterizzato da un cambio di governo e conseguenti ritardi nell’ottemperanza delle azioni previste da Piano triennale e Quarto Piano d’Azione OGP 2019-2021, non sarebbe stato comunque semplice mantenere la posizione di trend-setter del 2018, anche fin troppo ottimistica secondo alcuni. Sebbene sopra la media europea in tutte e quattro le dimensioni di analisi del report (policy, portal, impact, quality), i punteggi relativamente più bassi sono da ricondurre alle azioni volte all’interoperabilità dei dati e al monitoraggio sulla qualità dei dataset rilasciati, temi su cui, evidentemente, scontiamo ancora un grosso ritardo. Non a caso su questo argomento la discussione, nel corso del 2019, si è concentrata sulle soluzioni di interoperabilità offerte dalle API (Application Programming Interface) e sui cosiddetti Junk Data frutto di un rilascio poco consapevole di dataset.

La sanità digitale

Ancor più contraddittori i dati riferiti al settore della sanità, un settore dove una maggiore razionalizzazione dei processi grazie alle tecnologie digitali porterebbe a benefici non solo di natura economica, ma anche in termini di qualità della vita dei cittadini. In base ai dati dell’Osservatorio Innovazione Digitale in Sanità della School of Management del Politecnico di Milano, nel 2018 la spesa totale per la sanità digitale, tra quanto investito dal Ministero della salute, dalle Regioni, dalle singole strutture sanitarie e dalla rete dei medici di medicina generale (MMG), raggiunge un valore di 1,39 miliardi di euro. Anche se in crescita del 7% rispetto all’anno precedente, siamo poco sopra l’1% della spesa sanitaria pubblica, pari a 119 miliardi di euro nel 2018. Il rapporto sarebbe ancora più basso se considerassimo anche la spesa privata: 35,7 miliardi di out of pocket delle famiglie e circa 4,2 miliardi di euro di spesa intermediata da assicurazioni private (Rapporto Oasi 2019). Il nostro Paese, con una spesa sanitaria pubblica pro-capite pari a 1.900 euro, che è il 66% di quella francese e l’80% di quella inglese, spende in sanità digitale poco di più di 20 euro per cittadino, mentre il sistema francese o inglese spendono quasi il doppio o il triplo: 60 euro per cittadino la Gran Bretagna e 40 euro la Francia.

I momenti centrali del 2019

A fronte dei ritardi strutturali, il 2019 è comunque un anno complessivamente positivo per ciò che riguarda la digital transformation, anno in cui si sono combinati insieme gli effetti di lunghe derive spinte da inerzie amministrative, l’effort propositivo del Team per la Trasformazione Digitale, il potenziale di una nuova governance dell’innovazione. Proprio l’emanazione della nuova versione del Piano per il triennio 2019-2021 ha rappresentato una delle principali novità dell’anno appena trascorso. La nuova versione del Piano si presenta ambiziosa e articolata: 90 linee d’azione, suddivise in 9 aree tematiche e in 34 paragrafi, cui corrispondono altrettanti obiettivi.

Il Piano triennale ICT 2019-2021

La versione 2019- 2021 del Piano ricalca l’impostazione di massima del precedente, senza clamorose discontinuità, ma con alcune importanti novità: maggiore enfasi sul passaggio delle amministrazioni al Cloud, rinnovata attenzione al tema delle smart cities and communities, maggiore attenzione all’accompagnamento degli attori coinvolti nell’attuazione e alle leve per la governance dell’innovazione sui territori. Tra i risultati più importanti registrati nel 2019, inoltre, vi è il deciso cambio di passo nel percorso di dispiegamento delle principali piattaforme abilitanti (ANPR, SPID, PagoPA), elemento essenziale per fornire a tutte le amministrazioni quelle funzionalità trasversali e riusabili in grado di uniformare le modalità di erogazione dei servizi.

Il Cloud della PA e gli RTD

Il 2019 è stato anche l’anno dell’entrata nel vivo della strategia italiana per il Cloud della PA, cosi come di un deciso cambio di passo nei processi di nomina dei Responsabili per la transizione digitale (RTD) da parte delle amministrazioni pubbliche: a settembre è stata superata la soglia dei 5.000 RTD nominati (erano 3.400 alla fine dello scorso anno).

Il ruolo dei territori

Ma la digital transformation non è solo appannaggio delle amministrazioni centrali, tutt’altro. Per interpretare le dinamiche in atto bisogna andare sui territori e intercettare i progetti che i diversi attori locali stanno portando avanti. Un termometro importante è la nostra ricerca ICity Rank le cui diverse dimensioni di analisi interpretano la capacità delle diverse città di usare al meglio le tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

I risultati di ICity Rank

I risultati, presentati nel novembre del 2019, indicano una spaccatura territoriale nuova, che oltre alla confermata distanza tra Centro-Nord e Sud, evidenzia anche un distacco tra le città del “nuovo triangolo produttivo” (Lombardia, Triveneto ed Emilia-Romagna, a cui si aggiungono le aree di Torino e Firenze) e il resto del Centro-Nord. E un “policentrismo” dell’innovazione, per cui non c’è una vera città leader, le distanze si accorciano e spiccano città e territori diversi, che si differenziano per i settori di innovazione in cui primeggiano. Infatti, otto delle prime dieci città sono collocate in prossimità delle polarità costituite da Milano (Monza, Lecco e Bergamo, cui si può aggiungere Lodi 11º) e da Bologna (Modena, Reggio Emilia e Parma). I due ‘poli’ possono, quindi, essere definiti ‘interconnessi’ visto che sono collegati da circa 60 collegamenti ferroviari giornalieri di durata inferiore ai 75 minuti.

Il governo del territorio e la partnership pubblico-privato

Il modello del Nord-Est si lega, del resto, a un concetto allargato di città, che coinvolge i contesti periurbani, le altre città e territori comunali che si collocano intorno alle città medie, città che già lo scorso anno erano individuate come uno dei motori economici del Paese. Superare il concetto di città per guardare a un governo più ampio del territorio apre nuove prospettive soprattutto per le realtà più piccole, che non possono contare su risorse economiche e professionali sufficienti a sostenere i processi di innovazione richiesti oggi alle comunità locali. Per questo sono fondamentali sia le collaborazioni tra enti, che le partnership tra mondo pubblico e privato per offrire nuovi servizi.

La data governance

Ci sono già, in Italia, esempi di realtà territoriali in cui strategie condivise tra aziende, PA e università hanno messo in moto un processo di sviluppo virtuoso. D’altronde, la collaborazione tra territori e tra diversi attori locali pubblici e privati è indispensabile per governare quella che sicuramente, nel corso del 2019, è maturata come consapevolezza di sfida del futuro, e cioè la capacità dei diversi attori locali di valorizzare i dati e le informazioni prodotti a livello territoriale.

Non è facile, ma è necessario, intervenire in modo ‘equo’ sulla proprietà/disponibilità dei dati che ciascuno (in particolare i gestori dei servizi) può raccogliere, senza disincentivare la ricerca imprenditoriale di nuovi spazi dove creare valore aggiunto, ma anche senza espropriare città e cittadini della valorizzazione di informazioni che nascono dai loro comportamenti (più facile a dirsi che a farsi, ma già cominciare a ragionarci senza pregiudizi ideologici sarebbe importante). L’integrazione dei diversi sistemi di raccolta dati, elaborazione, analisi e decisione nei diversi ambiti dei servizi e dei monitoraggi urbani è tecnicamente possibile ed è alla base dei sistemi unificati di gestione della mobilità (Intelligent Transport System) o del contesto urbano complessivo (Smart City Control Room), ma pone colossali questioni sui modelli sostanziali di governance e la loro traduzione in regole amministrative formali. È questa la vera sfida del prossimo decennio, e non si possono lasciare le città sole ad affrontarla.

Il ruolo dello Stato innovatore

Il 2019, quindi, ci consegna un futuro prossimo definito in linea con i grandi processi di innovazione internazionali? Non proprio. Al di là delle incertezze di un sistema politico in perenne equilibrio instabile, i percorsi di cambiamento devono essere alimentati. Lo abbiamo detto in tante occasioni: non esiste l’innovazione a costo zero. E allora diventa strategico il ruolo dello stato innovatore, il ruolo delle istituzioni locali e nazionali come promotori e acquirenti di innovazione.

La programmazione europea e le politiche di coesione

La programmazione europea nel 2019 fa registrare un avanzamento della spesa pari al 28% delle risorse e si attesta sui 21,3 miliardi rispetto ai 75,1 miliardi di euro complessivamente disponibili per l’insieme dei Fondi strutturali e di investimento europei (SIE), pari a 44,7 miliardi di risorse UE e 30,5 miliardi di cofinanziamento nazionale. È quanto emerge dai dati presentati il 7 e 8 novembre 2019 a Trieste, nell’ambito della Riunione annuale di riesame tra la Commissione europea e le amministrazioni italiane interessate all’attuazione dei programmi cofinanziati dai Fondi strutturali e di investimento europei. I dati delineano un quadro generale che vede più dei due terzi dell’ammontare complessivo delle risorse ancora da spendere nei prossimi tre anni.

Dalla fase di programmazione e definizione dei progetti è necessario convogliare gli sforzi e puntare su un’accelerazione dell’execution. Tale cambio di passo viene invocato a gran voce dalla Commissione europea agli inizi di ottobre, con una lettera al Governo che mette in guardia sulle cifre preoccupanti relative agli investimenti al Sud, che sono in calo e non rispettano i livelli previsti dal principio dell’addizionalità UE. Le politiche ordinarie sono mancate e le politiche di coesione sono state lasciate sole ad affrontare i divari, private della caratteristica di aggiuntività loro propria divenendo sempre più sostitutive.

Oggi si trovano gravate dall’accusa di non aver ridotto il divario e quindi si ragiona sempre più spesso della loro inefficacia senza percepire che il Sud, senza la Coesione, avrebbe registrato nel corso della crisi iniziata oltre dieci anni fa un declino ben più rapido. Il Sud non può rinunciare alla domanda pubblica di innovazione e deve poter sperimentare questo attivatore di crescita necessariamente nel quadro delle risorse della Coesione, le uniche a disposizione.

Deve inoltre accendere un focus specifico sull’innovazione che nasce e si sviluppa sul suo territorio, dove oltretutto per sviluppare i processi industriali innovativi dell’economia circolare, declinazione più puntuale della sostenibilità produttiva, abbiamo a disposizione quasi un green field per la rarefazione del tessuto industriale presente, per la scarsa dimensione imprenditoriale e per la ridotta capitalizzazione delle imprese operanti. Oltretutto, nel 2019 è entrata nel vivo la negoziazione relativa al prossimo periodo di programmazione 2021-2027.

Il quadro delineato dal bilancio approvato dall’Unione Europea prevede, per i sette anni, stanziamenti pari a 1.279 miliardi di euro in settori considerati prioritari e ad alto valore aggiunto: innovazione e agenda digitale, clima e ambiente, ricerca, giovani, difesa e sicurezza interna. Si tratta di molte risorse in gioco, quelle ancora da indirizzare e spendere di questo ciclo e quelle che con indicazioni stringenti in favore della sostenibilità arriveranno per la programmazione 2021-2027: se ben gestite possono portare il Mezzogiorno ad agganciare un trend di sviluppo virtuoso.

La riforma (incompleta) del procurement pubblico

Che le amministrazioni non sappiano spendere, e spendere in innovazione, purtroppo, rimane un dato di fatto. Infatti, chi sperava che il 2019 sarebbe stato l’anno dell’attuazione completa della riforma del procurement pubblico avviata nel 2016 e che avrebbe, quindi, visto l’adozione dei molti provvedimenti attuativi ancora mancanti (con un particolare riguardo a quelli ritenuti maggiormente strategici, e forse proprio per questo più complessi e in ritardo abissale rispetto alle originarie previsioni) è rimasto senza dubbio deluso. Non sono stati, difatti, varati gli attesi provvedimenti attuativi del Codice dei contratti in materia di progettazione (art. 23), qualificazione delle stazioni appaltanti (art. 37), digitalizzazione (art. 44), nuova Banca Dati degli Operatori Economici (art. 81), rating di impresa (art. 83), collaudo e verifica di conformità (art. 102), solo per citarne alcuni dei principali.

Una riforma incompleta che contribuisce a non creare un sufficiente mercato della domanda pubblica di innovazione che permetta alle soluzioni sviluppate di scalare livelli di produzione e mercati altri. L’attuale modello di finanziamento alle imprese innovative e al settore della ricerca ha, infatti, dimostrato i propri limiti esattamente nella possibilità di dispiegare i risultati raggiunti, creando una dipendenza dai finanziamenti pubblici da parte di chi, nella filiera dell’innovazione, trova in essi la propria unica fonte di introiti, nonché disinteresse da parte degli operatori che mirano a realizzare, grazie alla loro capacità d’offerta, profitti reali. La tendenza generale del procurement pubblico sembra confermare la crescita disegnata nell’ultimo triennio, pur con qualche segnale di regressione rispetto ai dati del 2018.

In particolare, i dati Consip (relativi alle gare sopra-soglia, aggiornati al 26 novembre 2019) indicano performance molto simili a quelle del 2017, anno in cui – va sottolineato – ci si era avvantaggiati della ripresa delle operazioni dopo l’effetto negativo dell’entrata in vigore della riforma del Codice l’anno precedente. Nel dettaglio, rispetto alle gare bandite, si registra un picco al 2018 (110 gare) superiore alle 82 dell’anno precedente e alle 73 del successivo. Lo stesso indice, alla luce degli importi, vede passare i 6,7 miliardi di euro del 2017 agli 8,9 dell’anno successivo, fino ai 9,6 miliardi di euro del 2019 (quindi in crescita costante, ma non incisiva). Se si passa alle gare aggiudicate il dato è praticamente lo stesso, in termini di andamento. Per numero di gare abbiamo 70 operazioni per il 2017, 93 per il 2018 e 74 per il 2019. Come importi – anche qui – crescita costante, ma debole: 4,3 miliardi di euro nel 2017, 6,4 nel 2018 e 6,5 miliardi di euro nel 2019. Purtroppo, anche sui temi emergenti la spesa non è sufficiente. La politica nazionale vuole essere più incisiva nel promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili, e un’economia circolare che favorisca una nuova occupazione verde.

Le politiche per lo sviluppo sostenibile

Eppure, non è ancora abbastanza, se nel Rapporto 2019 l’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS) raccomanda: «va data forza e attuazione al Green Public Procurement (GPP), obbligatorio per gli enti pubblici secondo il nuovo Codice sugli appalti, attraverso l’aggiornamento dei criteri ambientali minimi (CAM), la diffusione e circolazione delle buone pratiche e l’introduzione di rilevazioni sulla effettiva implementazione». In questo ambito ci corre l’obbligo di sottolineare che, se qualcosa si muove, siamo ancora lontani dagli obiettivi in qualche modo attesi dal Codice appalti.

Una delle ricerche più recenti, quella di Legambiente e Fondazione Ecosistemi, si concentra sugli enti locali e restituisce un quadro non ancora maturo. I CAM più applicati sono quelli relativi ai rifiuti e alla carta (con percentuali comunque intorno al 30%), seguono quelli relativi ai prodotti elettronici e agli arredi. Un dato significativo è il numero di Comuni che dichiarano di non applicare mai i CAM: il 61,4% al Nord e il 50,9% al Sud. Tra i Comuni capoluogo, solo nel 7% dei casi vengono applicati i CAM nelle gare d’appalto per una percentuale superiore all’80% e solo una città – Bergamo – dichiara di utilizzarli sempre.

Conclusioni

In conclusione, lo scorso anno chiudemmo queste note introduttive a commento del 2018 evidenziando due aspetti fondamentali per attivare finalmente processi di innovazione nel nostro Paese, in grado di garantire uno sviluppo sostenibile dal punto di vista ambientale, sociale ed economico: la forte domanda di razionalizzazione dei processi di innovazione; la necessità di condividere una visione di futuro con i diversi attori nazionali e locali. Due aspetti che nel corso degli ultimi dodici mesi, come abbiamo visto, hanno trovato una maggiore definizione, insieme anche a una maggiore centralità dell’importanza del fattore umano, andando a prefigurare un contesto abilitante per la diffusione dell’innovazione nella PA e nel Paese.

Siamo consapevoli che, come sempre accade in Italia, si tratta di un equilibrio instabile. Basta uno scossone, che sia politico, istituzionale o economico, perché la bella e armonica immagine del nostro caleidoscopio si frammenti, di nuovo isolando quella moltitudine di innovatori che da sempre porta avanti, molto spesso dal basso, processi di innovazione, in un Paese che, appunto, non fa sistema. Siamo però convinti che, anche in un contesto che potrebbe cambiare da un giorno all’altro, non si possa tornare indietro rispetto a degli obiettivi che sono diventati oramai bene comune. Ci si dovrebbe, invece, confrontare sui metodi e sulle singole scelte, ma non sugli orizzonti che dovrebbero delineare la rotta per la costruzione di una politica industriale dell’innovazione della quale l’amministrazione pubblica può e deve essere promotrice e protagonista attraverso il paradigma dello Stato Innovatore. Solo così potremmo soddisfare la domanda di certezza e di normalità di chi in questo Paese vuole continuare a vivere, a lavorare, a investire. Non abbiamo bisogno, infatti, di champions, siano essi analogici o digitali ma di normal people che ci chiedono, però, di poter essere messi in condizione di fare cose straordinarie dentro e fuori le istituzioni (abbiamo usato il termine in inglese per riferirci, omaggiandolo, al libro uscito nel 2019 con cui la millennial irlandese Sally Rooney ha rinforzato il suo successo mondiale).

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