Perché l’incompetenza è il requisito più importante per un bravo animatore digitale

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Non deve essere il docente “più bravo con il computer” che insegna agli
altri quanto piuttosto un soggetto in grado di agire trasversalmente e
stimolare la contaminazione di idee e la collaborazione
interdisciplinare. Compreso il ruolo del digitale nel proprio modello
del mondo

17 Marzo 2016

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Paolo Russo, direttivo Stati Generali dell'Innovazione, coordinatore gdl Comunicazione DiCultHer

Mi è stato chiesto di spiegare su queste pagine perché sostengo con entusiasmo l’iniziativa a rete della Digital Cultural Heritage, Arts & Humanities School – @diculther per brevità da ora in poi – e in particolare i suoi sforzi rivolti verso il mondo della scuola. Ho accettato volentieri perché ritengo di essere la persona più adatta, dato che non ho assolutamente le competenze per farlo. Non è una figura retorica: sono veramente incompetente. Ho tanti testimoni pronti a giurarlo. Sia chiaro: non me ne vergogno.

L’incompetenza è una risorsa troppo importante per lasciarla agli incompetenti

Personalmente, faccio ogni sforzo per accrescere la mia incompetenza e quella altrui riguardo al digitale. E @diculther si sta rivelando ogni giorno di più l’ambiente ideale a questo scopo. Perché? Perché è una rete costruita convintamente intorno al concetto di interdisciplinarietà. Quella vera. Per capirsi, la vera interdisciplinarietà non è quella cosa che si traduce nel partecipare a una iniziativa per prenderne una fetta e tornarsene alla base con un po’ di finanziamenti in più per sviluppare in splendido isolamento i propri progetti. L’interdisciplinarietà, invece, è quella cosa per la quale ci si rende conto che le proprie competenze sono per definizione limitate e in quanto tali prima piuttosto che poi diventano un problema. Al contrario, la propria incompetenza è virtualmente illimitata e in quanto tale offre infinite opportunità di scoperta attraverso l’interazione continua con altri soggetti altrettanto consapevolmente incompetenti. Si può chiamare in termini contemporanei Open Innovation, ma in fondo è un concetto che era stato già enunciato da Socrate.

Naturalmente, coltivare l’incompetenza ha un prezzo da pagare rispetto a un approccio più specialistico sulle competenze: la cultura digitale non è un optional. Un chirurgo competente può salvare una vita rimuovendo un tumore senza scambiare una parola col paziente, mentre uno psicoterapeuta di gruppo ha bisogno di una base culturale condivisa con i pazienti per capirli, comunicare e interagire.

Questo elogio dell’incompetenza può sembrare una astratta divagazione, ma in realtà ha dettato una serie di scelte operative nelle prime iniziative targate @diculther per il mondo della scuola. Prima di spiegarlo, però, è necessario presentare brevemente @diculther e cosa ha fatto nel suo primo intenso anno di vita.

Solo in rete si può insegnare alla Rete

L’accordo di rete per la Digital Cultural Heritage, Arts and Humanities School è sottoscritto da oltre 60 istituzioni culturali italiane, tra le quali 25 università, altrettanti istituti culturali, i principali enti di ricerca tra cui CNR ed Enea, nonché alcune associazioni di imprese e scientifiche. Partecipano anche associazioni rappresentanti di saperi più informali come gli Stati Generali dell’Innovazione e Invasioni Digitali nel tentativo riuscito di un coinvolgimento a 360° dei soggetti operanti nel settore. L’obiettivo comune è di far nascere un ‘campus diffuso’ in grado di attivare l’elaborazione di un’offerta formativa coordinata con il sistema nazionale per costruire il complesso delle competenze digitali indispensabile al confronto sempre più articolato ed eterogeneo con la società dell’era digitale, nel quadro di un modello scalabile a livello europeo.

La Scuola è organizzata con un modello reticolare, che precede un’ampia distribuzione sul territorio nazionale di Poli formativi centrati sulle Università che la costituiscono. Le realtà che hanno aderito condivideranno funzioni, compiti e competenze tali da assicurare elevati standard di qualità, innovazione e flessibilità formativa in risposta alle richieste di cultura e competenze digitali per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio culturale. I risultati più rilevanti del primo anno di vita – la rete è stata costituita nel Febbraio 2015 – sono stati senz’altro l’attivazione del primo polo a Bari, la stipula del protocollo d’intesa con il MiBACT per la realizzazione di attività per il piano nazionale per l’educazione al patrimonio culturale e l’organizzazione della I Settimana delle Culture Digitali con l’annesso concorso Crowddreaming: i giovani co-creano cultura digitale, entrambi proposti alle scuole di ogni ordine e grado attraverso una circolare del MIUR. Proprio il concorso ci consente di ricollegarci al discorso iniziale.

La cultura innanzitutto

Si sarebbe potuto incentrare il concorso sul coding, sulla creazione di video digitali, sulla navigazione sul Web, sul making o su tante altre competenze digitali indubbiamente utili. Invece, si è scelto di partire dalla cultura digitale per segnalare che oggi è questo il concetto fondamentale. Si è scelto di parlare di crowddreaming, non crowdsourcing o crowdfunding, per sottolineare che in questo momento storico la cosa indispensabile da fare è immaginare insieme il futuro, per trovare quali siano le domande giuste che i ragazzi devono porsi riguardo a come costruirlo. Un esempio può aiutare a chiarire il concetto. Abbiamo incentrato il concorso sulla sfida per i ragazzi a contribuire alla creazione del primo monumento digitale. Sarà un percorso pluriennale. Cosa devono insegnare i docenti ai loro studenti per metterli in grado di costruire un monumento digitale? Come usare un programma di CAD per progettare una statua di Garibaldi a cavallo? Perché no, ma è solo un compiere in maniera più pratica ciò che già si faceva prima dell’invenzione dei processi digitali. Come usare un software di modellazione per costruire una replica digitale del Colosseo? Perché no, ma si sta solo facendo in maniera più efficiente ciò che già si faceva con la creta. Aiutare i ragazzi a crearsi una cultura digitale vuol dire farli riflettere sul significato di monumento e aiutarli a immaginare come si può reinventarlo nell’era digitale. Per esempio, un monumento è sempre stato uno strumento di trasmissione generazionale di un messaggio avente valore per una comunità. Ma prima le comunità erano localizzate geograficamente, ora nell’era digitale questo non è più necessariamente vero. Prima era la leadership della comunità a commissionare il monumento. Ora potrebbe essere la comunità stessa. Una statua una volta scolpita non si poteva più cambiare. Ora questo vincolo non esiste più. Cambiando tutte queste condizioni al contorno nell’era digitale, siamo sicuri che un monumento digitale non possa e debba essere qualcosa di completamente diverso?

Aiutare a far crescere la generazione che avrà la risposta a queste domande è, a mio avviso, il compito degli educatori di oggi. Noi non siamo in grado di fornire le risposte, perché non le abbiamo. Ci mancano ancora le categorie mentali per comprendere il digitale. Se si vuol mettere in imbarazzo un insegnante – e non solo un insegnante – basta incalzarlo sulla definizione del concetto di digitale. Ci proverà, ma si renderà conto di non saperlo davvero, pur intuendo con certezza che è una dimensione concreta e importante della propria vita. Non è colpa sua. È una dimensione della realtà nata da pochissimi anni e della quale comprendiamo le implicazioni e le potenzialità ancora molto limitatamente. Non possiamo trasferire ai ragazzi una cultura digitale che ancora noi stessi non abbiamo. Questa da quasi profano del mondo della scuola è la spiegazione che mi do per il senso di disagio e di inadeguatezza percepibile nella maggior parte degli insegnanti. Allora, l’alternativa è combattere individualmente una battaglia impossibile per cercare di acquisire tutte le competenze necessarie a dare risposte che in larga parte ancora non esistono oppure confrontarsi come gruppo sulle reciproche incompetenze per far emergere le domande “giuste” con le quali stimolare gli studenti. In questo secondo modo è particolarmente importante che venga interpretato l’animatore digitale, figura-chiave del PNSD. Non deve essere il docente “più bravo con il computer” che insegna agli altri quanto piuttosto un soggetto in grado di agire trasversalmente e stimolare la contaminazione di idee e la collaborazione interdisciplinare. Compreso il ruolo del digitale nel proprio modello del mondo, poi diventa più semplice effettuare scelte motivate e selettive sulle competenze da acquisire.

È l’unica via? Sicuramente no, ma è un sentiero da provare a percorrere per contribuire al pieno sviluppo dell’elevato potenziale del PNSD. Quanto meno perché all’interno di @diculther sta producendo risultati.

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