Organizzazione del lavoro nella PA: prove tecniche di smart working

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Nell’ultimo anno ben il 30% delle grandi imprese ha realizzato progetti strutturati di smart working, con una crescita significativa rispetto al 17% dell’anno precedente. Assai meno positivo è lo scenario all’interno della Pubblica Amministrazione nella quale, pur a fronte di un interesse crescente e di alcuni lodevoli esperienze, lo smart working è nei fatti assente

2 Febbraio 2017

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Mariano Corso, Responsabile scientifico Osservatorio Smart Working, School of Management del Politecnico di Milano

Nel settore privato il modello dello smart working si sta diffondendo rapidamente, conquistando sempre più consensi tra imprese, lavoratori e sindacati. Gli smart workers in Italia – ossia quei lavoratori che godono di discrezionalità nella definizione delle modalità di lavoro in termini di luogo, orario e strumenti utilizzati – sono già oggi oltre 250 mila e sono cresciuti del 40% rispetto al 2013.

Nell’ultimo anno ben il 30% delle grandi imprese ha realizzato progetti strutturati di smart working, con una crescita significativa rispetto al 17% dell’anno precedente. Assai meno positivo, purtroppo, è lo scenario all’interno della Pubblica Amministrazione nella quale, pur a fronte di un interesse crescente e di alcuni lodevoli esperienze, lo smart working è nei fatti assente.

Eppure lo stesso disegno di legge sul “lavoro agile”, inizialmente proposto dal Governo e poi ulteriormente ampliato e migliorato dalla Commissione Lavoro del Senato, fa esplicito riferimento alla possibilità di applicazione ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche. La stessa riforma “Madia” della Pubblica Amministrazione all’art. 14, nel quadro della “Promozione della conciliazione dei tempi di vita e di lavoro nelle amministrazioni pubbliche”, chiede di adottare misure organizzative “per la sperimentazione … di nuove modalità spazio-temporali di svolgimento della prestazione lavorativa che permettano, entro tre anni, ad almeno il 10 per cento dei dipendenti, ove lo richiedano, di avvalersi di tali modalità, garantendo che i dipendenti che se ne avvalgono non subiscano penalizzazioni ai fini del riconoscimento di professionalità e della progressione di carriera.” Per rinforzare l’indicazione il testo precisa che l’adozione delle misure organizzative e il raggiungimento degli obiettivi devono costituire “oggetto di valutazione nell’ambito dei percorsi di misurazione della performance organizzativa e individuale” attraverso l’utilizzo di “specifici indicatori per la verifica dell’impatto sull’efficacia e sull’efficienza dell’azione amministrativa, nonché sulla qualità dei servizi erogati, delle misure organizzative adottate…”.

A dispetto della scarsissima diffusione attuale nel settore pubblico, dunque, lo smart working nella PA da oggi non solo è possibile, ma diventa un obiettivo da raggiungere. Niente più vincoli né alibi normativi, ma una chiara volontà del legislatore a spingere l’adozione di un’organizzazione del lavoro che coniughi anche nel pubblico impiego stabilità e tutela nei contratti, con una maggiore flessibilità e responsabilizzazione nella gestione del rapporto di lavoro.

Tutto bene dunque? Abbiamo una PA pronta alla rivoluzione copernicana del lavoro senza più vincoli di luogo ed orario? Non proprio. Denigratori del sistema pubblico e pessimisti avranno buon gioco nel ricordare come già in passato sono stati fatti proclami ed indicati obiettivi relativi all’adozione di misure di flessibilità e responsabilizzazione nella PA, obiettivi che poi, alla prova dei fatti, si sono dimostrati irraggiungibili quando non velleitari. Lo stesso recentissimo pronunciamento della Consulta che, accogliendo parzialmente il ricorso della Regione Veneto, boccia alcuni dei principali decreti attuativi tra cui quello sulla dirigenza, sembra dimostrare una sostanziale impossibilità di introdurre cambiamenti rilevanti nell’organizzazione del lavoro all’interno del pubblico impiego.

Del resto non è certo la prima volta che gli entusiasmi riformisti finiscono per infrangersi sul muro di gomma del pubblico impiego: già con la riforma Bassanini, il legislatore aveva provato a introdurre misure di flessibilità e responsabilizzazione coerenti con la disponibilità della “rete” e delle nuove tecnologie. Gli obiettivi posti erano ambiziosi, i risultati conseguiti sono stati drammaticamente scarsi. Tante le cause del fallimento tra cui una scarsa propensione all’innovazione e alla assunzione di responsabilità, una cultura manageriale povera, un conformismo consolidato dal pregiudizio e dal sospetto di una cultura burocratica e legalista in cui ciò che importa non è davvero il risultato, né il servizio al cittadino, ma l’adempimento prudente e formale della norma.


Questo articolo è uno degli approfondimenti raccolti nel FPA Annual Report 2016. La pubblicazione è gratuita, ma per scaricarla è necessario essere iscritti alla community di FPA. Scarica FPA Annual Report 2016.


Lo smart working non è il telelavoro, ma per quale motivo dovrebbe funzionare? Perché non dovrebbe confermarsi l’opinione di chi, per ideologia o per interesse, insiste a dipingere la PA Italiana come ipertrofica e irriformabile?

A dispetto di ogni pessimismo, noi pensiamo che il cambiamento dei modelli organizzativi all’interno della Pubblica Amministrazione si possa e si debba fare. Pensiamo anche che quello attuale sia proprio il momento migliore e questo proprio a causa della difficile situazione in cui la nostra PA oggi versa. Per rendersi conto di quanto pesante sia la realtà del pubblico impiego oggi e di come, dopo anni di tagli acritici, sia necessaria una svolta organizzativa e culturale, bastano pochi dati oggettivi. Sebbene l’opinione pubblica continui a pensare che i dipendenti della PA in Italia siano troppi, il loro numero è oggi sceso a 3.300.000, circa 58 ogni 1.000 abitanti contro i 94 della Francia i 92 del Regno Unito e addirittura i 135 della Svezia. Complice il lungo blocco del turnover, la loro anzianità è preoccupante: gli under 35 sono solo il 10% contro il 30% della Francia e il 35% del Regno Unito; nonostante la seniority elevata, le retribuzioni sono basse sia in assoluto che in rapporto al nostro PIL: pesano oggi l’11,1% del PIL contro il 13,4% della Francia e il 19,4% della efficientissima Danimarca.

Oggi dunque, a dispetto dei tanti falsi miti, i dipendenti della PA in Italia sono pochi, anziani e mal pagati. In questa situazione ci sono per lo meno tre buoni motivi per prendere sul serio questo nuovo impulso normativo e puntare sullo smart working per dare una scossa culturale ed organizzativa alla Pubblica Amministrazione.

In primo luogo, lo smart working nella PA sarebbe un buon affare per i conti pubblici. L’esempio delle imprese che l’hanno attuato mostra come la sua applicazione consenta di risparmiare costi e aumentare la produttività. I soli risparmi alla riduzione dei costi di mantenimento degli spazi potrebbero portare un risparmio per i conti dello stato stimabile tra 1 e 3 miliardi di euro. Con lo smart working, dunque, si può creare efficienza senza incidere ulteriormente sull’occupazione, creando le premesse di un miglioramento della produttività che si traduca in un aumento della qualità dei servizi.

In secondo luogo, estendendo lo smart working ai lavoratori del pubblico impiego si evita di creare nei loro confronti una forma di discriminazione, riducendo quel clima di sospetto e pregiudizio che sta avvelenando i rapporti tra politica, opinione pubblica e parti sociali. Nella PA gli effetti positivi dello smart working in termini di conciliazione tra lavoro e vita privata, miglioramento del clima organizzativo, diffusione di competenze digitali e valorizzazione dei talenti, potrebbero far riscoprire giacimenti di entusiasmo ed energia sopiti da decenni di gestione manageriale burocratica e svogliata, contribuendo a dare alle tante persone valide e volenterose che operano nella PA l’occasione di ritrovare il senso di orgoglio e responsabilità legato all’essere al servizio della collettività.

Infine con lo smart working è possibile introdurre anche nella PA il principio della meritocrazia e della valutazione basata sui risultati e sui livelli di servizio più che sul presenzialismo o sull’adempimento di procedure burocratiche. Questa cultura nuova, molto più dei tornelli e dei controlli ossessivi sulla presenza, può scardinare comportamenti scorretti e irresponsabili tristemente diffusi tra manager e dipendenti della PA e recentemente venuti alla ribalta in casi eclatanti come quello del comune di Sanremo. Puntando sulla fiducia e la responsabilizzazione si può fermare la logica del pregiudizio e del sospetto ed iniziare a scrivere le regole per chi le vuole seguire e non per chi intende comunque aggirarle. Resteremo allora stupiti da quanto i primi, le persone di buona volontà, siano più numerosi e potenzialmente influenti degli altri. Solo allora, con il supporto della coesione sociale e dello stesso sindacato, sarà più facile isolare e sanzionare furbetti e fannulloni.

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