Il Regolamento per la cura condivisa dei beni comuni e il contesto valoriale entro il quale si inserisce

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A tre anni e mezzo dal 22 febbraio del 2014, giorno in cui è stato presentato a Bologna il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni di Labsus, ci sembra doveroso comunicare un dato numerico positivo: oltre 130 comuni italiani, di tutte le dimensioni, hanno adottato il Regolamento. Accanto al dato numerico, sorprende anche il dato sociologico, antropologico, politico. Ce ne parla Gregorio Arena, Presidente di Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà

11 Ottobre 2017

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Patrizia Fortunato

A tre anni e mezzo dal 22 febbraio del 2014, giorno in cui è stato presentato a Bologna il Regolamento per l’amministrazione condivisa dei beni comuni di Labsus, ci sembra doveroso mettere in luce il contesto valoriale entro il quale il Regolamento si inserisce. Abbiamo un dato numerico positivo: oltre 130 comuni italiani, di tutte le dimensioni, hanno adottato il Regolamento. Parliamo del comune di Torino, Genova, Bari, Verona, Pisa. E ancora, Milano entro l’anno porterà il Regolamento in Giunta, Palermo lo adotterà nei prossimi mesi, Firenze è in dirittura di arrivo. E il fenomeno è ancora più ampio se si pensa al fatto che molte città, come Reggio Calabria, lo hanno adottato, senza averlo comunicato.

Un dato che ha sorpreso persino Labsus, il Laboratorio per la sussidiarietà, che lo ha elaborato. Quello che più sorprende è il dato sociologico, antropologico, politico, o meglio il fatto che questo Regolamento si è rivelato essere lo strumento di cui cittadini e amministrazioni locali avevano bisogno. Ricordiamoci che quando parliamo di amministrazione condivisa parliamo di legami sociali, di identità spaziale, di modi di vivere, di riappropriazione del territorio da parte dei cittadini, lo ha evidenziato in modo particolare Gregorio Arena, Presidente dell’associazione Labsus.

“Un primo dato importante è che il Regolamento è uno strumento che ha intercettato un bisogno che c’era in Italia. È uno di quei rari e fortunati casi che a volte si verificano nella storia, per cui c’era un bisogno e noi senza sapere che questo bisogno fosse così forte – afferma il prof. Arena – abbiamo creato lo strumento. Abbiamo redatto questo Regolamento con il Comune di Bologna, ci abbiamo messo due anni, da gennaio 2012 a febbraio 2014 e quando lo abbiamo pubblicato sul sito di Labsus, il sito è come se fosse andato in tilt, il Regolamento l’hanno scaricato migliaia di persone, hanno cominciato a chiederci consulenza”.

Il primo punto fondamentale è che il Regolamento è solo uno strumento, “crea il quadro giuridico al cui interno i funzionari e i cittadini si possono muovere tranquillamente, senza correre rischi dal punto di vista della responsabilità. Il problema – precisa Arena – è che in Italia il nostro diritto amministrativo non consente ai cittadini di essere protagonisti nella cura dei beni comuni; l’interesse pubblico è competenza dell’amministrazione”. È questo l’aspetto che rende unico il Regolamento, innesta dal punto di vista collettivo un fenomeno sociale.

“Secondo i calcoli di un importante istituto di ricerca, sono oltre mezzo milione i cittadini attivi nel senso in cui lo definiamo noi di labsus – continua Arena -, persone che si prendono cura dei beni comuni, come piazze, strade, scuole, verde pubblico. Mezzo milione di persone possono non sembrare tante su scala di 60 milioni di abitanti, ma lo sono ove si consideri che in Italia, ancora oggi, la logica è che i beni di tutti sono i beni di nessuno, sono lì per essere saccheggiati. Quei 500mila sono persone che nella loro comunità trainano gli altri, che spesso sono attive su più fronti; sono degli influencer, ognuno di queste persone potenzialmente parla con almeno altre 10 persone”.

Dunque, esiste lo strumento, esiste il fenomeno collettivo, quali altri aspetti vincenti si mascherano dietro il Regolamento? “È stata vincente l’idea di tradurre il principio costituzionale, regolato dall’articolo 118 della Costituzione, in un Regolamento comunale, piuttosto che in una legge che avrebbe imposto un vincolo perché la legge può essere modificata soltanto da un’altra legge. Se avessimo adottato una legge regionale – continua Arena – sarebbe stata una legge di quella determinata regione, invece così il Regolamento si diffonde a macchia d’olio in tutta Italia ed è adattabile, quindi migliorabile”.

Il presidente di Labsus indica il Regolamento come una specie di Wiki Regolamento che tutti possono aggiustare come vogliono, anche se la struttura base rimane la stessa. Quindi, afferma Arena “i regolamenti che stiamo proponendo a Milano e a Palermo sono più semplici, più brevi (contengono 24 articoli, anziché 36) e più facili da applicare rispetto a quello di Bologna del 2014”.

Un altro aspetto vincente è avere immaginato come motore del Regolamento degli atti amministrativi, chiamati “Patti di collaborazione”.

Questi Patti sono stati immaginati come se fossero la tavolozza del pittore, nel senso che i beni di cui i cittadini si prendono cura più o meno sono sempre gli stessi – il verde pubblico, le scuole, le strade -, quelli che cambiano sono i soggetti: in alcuni si trovano gli abitanti del quartiere, l’impresa artigiana e l’associazione di immigrati; in altri, nella stessa città, in un altro quartiere, si trovano gli scout, la diocesi.

“Il patto – continua Arena – uno può confezionarlo come vuole, su misura, settoriale e a seconda delle situazioni, di quali sono i soggetti attivi, entrano in campo energie diverse. Questo è cruciale perché consente di liberare energie di cui dispongono le nostre comunità. In questo senso il Regolamento risponde a un bisogno perché i Patti consentono a chiunque di partecipare”.

Non serve che il cittadino venga eletto, basta che stipuli con altri cittadini un Patto col Comune, che ha già adottato il Regolamento.

“Un assessore presenta in Giunta una bozza di Regolamento, la giunta adotta un atto di buona delibera. In genere consigliamo sempre – precisa Arena – di fare degli incontri con la cittadinanza e poi la “memoria” va in consiglio comunale dove normalmente viene approvata in pochi mesi all’unanimità o quasi”.

In questi ultimi anni sono nate nuove forme partecipative, compresi i bilanci partecipativi, dai quali i Patti di collaborazione si distinguono.

“Il bilancio partecipativo è uno strumento di partecipazione alle decisioni su come utilizzare le risorse, messe a disposizione dal comune. Rimaniamo pur sempre dentro lo schema tradizionale, è l’amministrazione che apre il processo decisionale ai cittadini, mentre qui – precisa il presidente – parliamo non di partecipazione al processo decisionale, ma partecipazione alla soluzione del problema, mettendo in campo risorse aggiuntive rispetto a quelle che l’amministrazione ha.

Non si tratta, dunque, di democrazia deliberativa. Gli abitanti del quartiere, ad esempio, sistemano la piazza della città, dipingono le panchine, puliscono, il tutto con l’appoggio e l’intervento dell’amministrazione pubblica. Non stiamo parlando di un accordo tacito tra le parti, non stiamo parlando di un doversi arrangiare perché lo Stato non c’è.

Infatti il modello teorizzato dal prof. Arena in un saggio di vent’anni fa si chiama “amministrazione condivisa”, quindi non partecipata. “Partecipare vuol dire che io partecipò a qualcosa a cui tu mi fai partecipare, invece qui i cittadini condividono risorse e responsabilità con altri cittadini e con l’amministrazione per la cura di beni condivisi”. Esiste anche una differenza rispetto alla sharing economy che nella sua definizione più pura è la condivisione di un bene privato per un interesse privato. “Nell’amministrazione condivisa invece – sottolinea Arena – i cittadini e l’amministrazione insieme convergono nella cura di un bene che è di tutti, di cui nessuno si può appropriare”.

Quali sono stati i principali problemi emersi dalle esperienze sul campo?

“Quando i cittadini si prendono cura dei beni comuni – sottolinea il Presidente di Labsus – producono un valore aggiunto straordinario che è il capitale sociale, perché tutto questo produce senso di appartenenza, facilita l’integrazione, crea coesione sociale. Ha tutta una serie di effetti positivi che non si vedono e che sono molto più importanti degli effetti materiali, tutto questo libera energia”.

Infatti, lo slogan di un progetto biennale che Labsus ha fatto, con il sostegno di Fondazione Cariplo, negli ultimi tempi in Lombardia è “Costruire comunità, liberare energie”.

“Il Regolamento è solo uno strumento, quello che è veramente importante è che le persone ricostruiscono solidarietà e questo è fondamentale per la tenuta del paese, questo ci dà resilienza perché tante comunità solide, tutte insieme, aiutano l’Italia a sostenere la crisi. Su questo si può impostare – precisa Arena – tutto un discorso riguardante il welfare promozionale, generativo, per coinvolgere in queste attività le persone con difficoltà motorie o che non hanno un lavoro, gli stranieri, i detenuti, non con i lavori socialmente utili, ma facendole partecipare alla cura dei beni comuni con le proprie capacità”.

Anche se esiste un problema principale che è la paura di assumersi delle responsabilità da parte delle burocrazie locali, infatti afferma Arena “le risposte che il funzionario medio dice al politico che gli chiede di fare qualcosa sono di due tipi: non si può fare; si è sempre fatto così, non c’è una legge che prevede diversamente”.

Questo bisogno di partecipazione, intesa come prendersi cura dei luoghi dove si vive, c’è ovunque nei piccoli posti, come nelle grandi città. C’è un modo di stare nella città che ha un effetto pedagogico, l’identità individuale si costruisce in relazione all’altro ed è espressione dei comportamenti collettivi.

A ICity Lab 2017, una riflessione di tipo giuridico procedurale sul Regolamento per la cura condivisa dei beni comuni, tre anni dopo.

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