Enabling city. L’innovazione sociale (spesso) succede dove meno te lo aspetti

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“Enabling” con un termine un po’ evocativo di manuali di pedagogia può tradursi in italiano con “abilitante”. Ma è un po’ il contrario di quel che sembra, perché l’enabling city è in realtà una città che sa imparare. Dai cittadini e dalle comunità che la abitano, la animano, la migliorano, risolvendo i problemi che la attraversano. Spesso in modi imprevisti e nei luoghi su cui meno si scommetterebbe. “Enabling City” è il progetto di Chiara Camponeschi che si occupa di innovazione sociale nell’ambito della sostenibilità urbana e della governance partecipativa. “Per me – ci spiega Chiara – una città è veramente “enabling” quando lascia spazio alla collaborazione, alla sperimentazione, alla trasparenza. Quando mette cioé a disposizione fondi, infrastrutture e un progetto politico per stimolare l’empowerment di comunità locali che si attivino per contribuire al cambiamento”.

8 Marzo 2012

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Chiara Buongiovanni

“Enabling” con un termine un po’ evocativo di manuali di pedagogia può tradursi in italiano con “abilitante”. Ma è un po’ il contrario di quel che sembra, perché l’enabling city è in realtà una città che sa imparare. Dai cittadini e dalle comunità che la abitano, la animano, la migliorano, risolvendo i problemi che la attraversano. Spesso in modi imprevisti e nei luoghi su cui meno si scommetterebbe. “Enabling City” è il progetto di Chiara Camponeschi che si occupa di innovazione sociale nell’ambito della sostenibilità urbana e della governance partecipativa. “Per me – ci spiega Chiara – una città è veramente “enabling” quando lascia spazio alla collaborazione, alla sperimentazione, alla trasparenza. Quando mette cioé a disposizione fondi, infrastrutture e un progetto politico per stimolare l’empowerment di comunità locali che si attivino per contribuire al cambiamento”.

Chiara, ti presenti brevemente?
Mi chiamo Chiara Camponeschi e sono la fondatrice e direttrice di "The Enabling City,", un progetto che si occupa di innovazione sociale nell’ambito della sostenibilità urbana e della governance partecipativa.

Ci spieghi che cosa e come è la “enabling city”?
The Enabling City nasce dalla ricerca che ho condotto nel corso del mio Master of Environmental Studies (MES) alla York University di Toronto, in Canada. Mi interessava il concetto di cittadinanza attiva così ho cominciato a occuparmi degli innumerevoli modi in cui i cittadini possono essere parte attiva di soluzioni concrete ai tanti problemi che oggi influenzano la qualità della vita nei centri urbani. In particolare mi interessava presentare alternative valide all’idea della “partecipazione-consumo”, così ho cominciato a raccogliere prove che dimostrassero il valore del dialogo e della riscoperta della quotidianità allo scopo di stimolare le capacità creative dei singoli individui  come contributo di idee e soluzioni per una migliore e sostenibile fruibilità delle città. Per me una città è veramente “enabling” quando lascia spazio alla collaborazione, alla sperimentazione, alla trasparenza; quando mette cioé a disposizione fondi, infrastrutture e un progetto politico per stimolare l’empowerment di comunità locali che si attivino per contribuire al cambiamento.

Quale è il rapporto tra innovazione sociale e “enabling city”?
Trovo che l’innovazione venga spesso ridotta a formule ripetitive. Non sono necessariamente innovativi gli investimenti a sei zeri o la distribuzione di gadget elettronici di ultima generazione, lo sono piuttosto i meno ‘ovvi’ avvenimenti che riguardino strade, giardini e piazze che reinventano il modo di vivere gli spazi pubblici. Nel mio libro documento oltre quaranta esempi ripartiti in sei diverse grandi linee per testimoniare dove tutto questo sta già accadendo. Attraverso quello che io definisco il “place-based creative problem-solving”, l’immaginazione e l’inventiva di cittadini, esperti ed attivisti, vengono messe al servizio di iniziative collaborative che rendono le città più aperte, innovative e interattive. E’ in questi luoghi “nascosti” o poco celebrati che il rapporto tra l’innovazione sociale e l’“enabling city” esprime tutte le sue potenzialità.

Chi o cosa rende la città "enabling"?
Credo che la collaborazione sia efficace quando vi è diversità di utenti, competenze, e contesti. Per questa ragione non c’é una "formula" da seguire ma piuttosto dei principi e dei valori da condividere. Confido nel fatto che presentando una serie di iniziative creative e di strumenti emergenti, a mezzo del mio toolkit e del mio feed di Twitter, chiunque possa sentirsi pronto a sperimentare i metodi e gli approcci che meglio agevolano il cambiamento necessario nelle proprie comunità. E’ proprio questa flessibilità che nel lungo termine fortifica i progetti di collaborazione purché ci sia da parte di tutti un interesse genuino nel perseguirli condividendo risorse, idee e ruoli in modo equo.

Ci fai degli esempi di città enabling?
L’innovazione può scaturire da frustrazione, da esigenze concrete, dalla voglia di sperimentare e migliorare le cose. Per questi motivi l’innovazione può prosperare dove la sperimentazione sociale è già in fase avanzata – in città come Toronto o New York, per esempio – o può emergere in luoghi dove l’innovazione é una sorta di infrastruttura a sé come, ad esempio, in città come Roma o Buenos Aires. Quello che mi affascina e dove ritengo ci sia più da cui imparare non è necessariamente il ‘dove’ si fa innovazione ma il ‘perché’ e il ‘chi’ ne è protagonista.

Che intendi quando dici che "in città come Roma o Buones Aires l’innovazione è come una infrastruttura a sé"?
Spesso, quando non ci sono programmi "ufficiali" in supporto dell’innovazione sociale nelle città – programmi di crowdsourcing o crowdfunding, di open data o open government, per esempio – si tendono a formare dei network in e tra comunità già attive nel campo che rafforzano legami tra chi la pensa allo stesso modo, favorendo così il brainstorming e/o il lancio di un prodotto o un servizio che possa contribuire al cambiamento. Lo vedo sopratutto tra gruppi di cittadini che si auto-organizzano per portare avanti iniziative di quartiere come un gruppo d’acquisto solidale o un mercato dello scambio, oppure in nuove iniziative come le Global Sustainability Jam o Crisis Camp che si svolgono anche in Italia. Da questi incontri nascono dei network che attivano tutto un meccanismo di scambio d’informazioni e di supporto che diventa una risorsa inestimabile, una sorta di infrastruttura alla quale si fa riferimento e ci si appoggia per favorire la crescita e la riproducibilità di un progetto. Di fatto, vanno a sostituire quelle infrastrutture "ufficiali" che mancano in alcuni contesti e ne catalizzano spesso la creazione.

Il modello della enabling city è esportabile da una città all’altra?
Assolutamente si, ma é un modello che viene adottato e adattato a seconda delle singole esigenze e diversità. Il modello non viene mai imposto dall’alto e per intero, ha sempre delle caratteristiche uniche relative al contesto dove deve essere applicato.

Le città italiane sono pronte per diventare “enabling”?
C’é ancora molto da fare, ma società civile e imprenditoria sociale in Italia stanno facendo molto per stabilire le condizioni ideali favorevoli ad un clima “enabling.” A livello istutizionale si può fare tanto per sostenere questo tipo d’iniziative, sopratutto attraverso modelli trasparenti, interattivi, decentrati di partecipazione e design collaborativo. In Italia non manca di certo la creatività e c’é già una cultura per la fruizione degli spazi pubblici; é in questa direzione che bisogna lavorare per tramutare questa cultura in concreta innovazione e rigenerazione sociale, senza dare nulla per scontato.

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