Certificati sì, certificati no

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“Entro massimo due anni spariranno certificati e anche autocertificazioni, a tutto vantaggio del tempo e delle tasche di cittadini e imprese”. “E’ vietato per tutte le amministrazioni chiedere ai cittadini ed alle imprese dati già in loro possesso”. “I certificati richiesti dalle amministrazioni ai cittadini certificano solo la loro incapacità di scambiarsi i dati”. “Basta ai cittadini-fattorini”.
Non si tratta di dichiarazioni di Brunetta a margine del suo discusso intervento sull’abolizione dell’obbligo di presentazione dei certificati antimafia (non si è mai trattato dell’abolizione dei certificati stessi beninteso): si tratta invece di titoli e di virgolettati di Bassanini sulla stampa della primavera del 2001…

27 Settembre 2011

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Carlo Mochi Sismondi

Articolo FPA

“Entro massimo due anni spariranno certificati e anche autocertificazioni, a tutto vantaggio del tempo e delle tasche di cittadini e imprese”. “E’ vietato per tutte le amministrazioni chiedere ai cittadini ed alle imprese dati già in loro possesso”. “I certificati richiesti dalle amministrazioni ai cittadini certificano solo la loro incapacità di scambiarsi i dati”. “Basta ai cittadini-fattorini”.
Non si tratta di dichiarazioni di Brunetta a margine del suo discusso intervento sull’abolizione dell’obbligo di presentazione dei certificati antimafia (non si è mai trattato dell’abolizione dei certificati stessi beninteso): si tratta invece di titoli e di virgolettati di Bassanini sulla stampa della primavera del 2001, dopo l’entrata in vigore del testo unico sul documento amministrativo (DPR 445/00). Oltre dieci anni fa quindi. Prima di mettermi a piangere mi torna alla mente un piccolo raccontino del 1999 di Andrea Camilleri, sconosciuto ai più perché pressoché inedito,   che si intitolava “La rivolta dei topi d’ufficio” e che ci può insegnare qualcosa sulla tenacia della cultura del pezzo di carta. L’ho ritrovato e ve lo segnalo.

Ma prima dell’amena lettura (caldamente raccomandata per sorrisi amari) colgo l’occasione dell’ennesima querelle, basata sul nulla, che in queste ore si sta infiammando sul tema dei certificati antimafia, per ripercorrere a volo d’uccello questi dieci anni e constatare che, ahimè, non solo il risultato che allora sembrava così vicino è ancora da raggiungere ma, molto peggio, ci sono voluti reiterati interventi legislativi, continui inascoltati divieti (cito solo il suddetto Testo Unico e le sue modificazioni, il primo e il secondo Codice dell’Amministrazione Digitale, oltre al recente provvedimento di questa estate –L.106/2011-) e infinite dichiarazioni per ritrovarci con la stessa cultura del certificato che non demorde, anzi trova qualsiasi occasione per rialzare la testa.

Perché questo fallimento? Credo che siamo stati sconfitti (sino ad ora… la speranza è l’ultima a morire e magari questa è la volta buona!) nella lotta alla “burocrazia dei certificati” da due diverse e avventate speranze: la prima, la più facile a raccontare, è quella che immaginava che l’innovazione, una volta innescata, avrebbe prodotto da sola il consenso all’interno delle amministrazioni (un errore simile all’esportazione della democrazia in Iraq per intenderci). Non è stato così, né così poteva essere: l’innovazione tecnologica, quella che allora chiamavamo “la rivoluzione digitale”, avrebbe avuto bisogno di robuste iniezioni di organizzazione, di cure da cavallo di meritocrazia, di abbondanti aggiunte di personale specializzato e qualificato, di solidi accompagnamenti di “vademecum” e provvedimenti attuativi. In una parola di “cura” e di attenzione. Non ci sono state e la controffensiva l’ha avuta vinta quasi dappertutto, lasciando qua e là sacche di resistenza capeggiate da testardi innovatori, ormai un po’ sfiduciati anch’essi.

La seconda illusione era che si potesse decertificare senza una efficiente e affidabile rete per lo scambio dei dati tra le amministrazioni. Non che non si sia fatto nulla: alla Rupa (Rete Unitaria della PA) è succeduto l’SPC (Sistema pubblico di connettività), ma in realtà pochi se ne sono accorti e la tensione fattiva che ne aveva accompagnato i primi passi si è spenta da tempo. Il più è ancora da fare e lo dimostra l’insistenza con cui le leggi anche degli ultimi anni impongono (grida manzoniane!) di aprire le grandi basi di dati: gridando sempre più forte ad amministrazioni sorde. Che non sia un problema tecnologico ormai lo sanno anche i bambini, che invece sia qualcosa che riguarda potere, privilegi, rendite di posizione e non bit è qualcosa di cui spesso, più o meno ingenuamente, ci dimentichiamo.

Ma ora veniamo al racconto di Camilleri (le illustrazioni sono di Luciano Vandelli): lo trovate, gratis e aperto a tutti, in pura ottica free-knowledge, nel sito vigata.org, ma ve ne riporto l’incipit, per farvi venire voglia di andarvelo a leggere.

Al civico 32 di Via Antonio Palliatore («insigne matematico» spiegava la targa, ma sparato se c’era uno in paìsi che conoscesse un’opera di Antonio Palliatore, manco una spiegazione delle tabelline) la prima convocazione della riunione di condominio era stabilita per le ore 20 e 30, la seconda per le 21 e in genere alla seconda convocazione si principiava. 
(……..)
Quella sera convennero tutti puntualissimi, ma non con quell’ariata battagliera che spesso contraddistingue i partecipanti a una riunione di condominio in genere l’un contro l’altro armati, no, anzi, l’improbabile viaggiatore che si fosse trovato a passare a quell’ora da quelle parti sarebbe certamente stato indotto in errore dalla comune espressione della faccia dei partecipanti, amaramente dolente oppure cristianamente rassegnata, e avrebbe pensato che stava per cominciare una qualche veglia funebre. L’improbabile viaggiatore avrebbe sbagliato e indovinato nello stesso tempo: quella riunione di condominio era la prima che si teneva dopo lo sciagurato avvento della legge sull’autocertificazione. In un certo senso, quindi, i partecipanti a quella riunione di condominio erano idealmente a lutto stretto, era il virtuale trigesimo, o quasi, della morte della burocrazia… (continua)

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