Gli open data faticano a decollare: per la PA sono un “dovere morale”

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19 Novembre 2015

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Maurizio Napolitano, Fondazione Bruno Kessler

Open Data e pubblica amministrazione spesso sembrano “andare a braccetto”, tant’è che, quando si parla di open data, si pensa solo ed esclusivamente a quelli della pubblica amministrazione, senza farsi tante altre domande. In realtà, chiunque può offrire open data visto che, in qualsiasi definizione data sia da organizzazioni no-profit che da governi, si parla di definire regole che ne permettono il più alto riuso.

Il concetto di riuso si esprime di fatto su tre variabili: permesso di uso, uso di standard che garantiscano interoperabilità e neutralità tecnologica e documentazione necessaria per comprendere i dati.

Il permesso d’uso deve essere il più libero possibile e, in particolare, offrire la possibilità di usare i dati anche a fini commerciali, applicando una licenza.

L’interoperabilità è un passaggio cruciale e la neutralità tecnologica deve essere il volano di questo. Da ormai molti anni si parla di formati aperti, e della necessità di fare uso di standard per favorire il riuso al massimo. Gli esempi si moltiplicano anche al di fuori dal mondo del digitale: basta pensare alle lampadine o alle prese di corrente che quando non sono (appunto) “standard” creano non pochi problemi.


Questo articolo è uno degli approfondimenti raccolti nel FPA Annual Report 2016. La pubblicazione è gratuita, ma per scaricarla è necessario essere iscritti alla community di FPA. Scarica FPA Annual Report 2016.


Infine, l’aspetto più importante e spesso dimenticato, è quello della documentazione. Documentare è ancora più cruciale dei due casi sopra esposti e, spesso, si pensa che il nome di un campo sia più che sufficiente a capire il significato del suo contenuto. Per quanto possa sembrare banale, invece, è opportuno spiegarlo e spiegare, anche, quali sono i valori attesi. Ad esempio, un campo come “nome” potrebbe contenere il nome di battesimo di una persona, ma forse potrebbe al suo interno anche il cognome, senza poi entrare nei dettagli di quale va prima e quale va dopo e quando è poi sono composti da più parole.

Celebre è il caso “Chi è Giancarlo?” segnalato nel 2013 dagli amici del blog Tanto. L’articolo riportava un dataset open data rilasciato da un comune italiano dove, sulla etichetta di una colonna, compariva la voce “Giancarlo”. Tutt’ora rimane un mistero da scoprire, ma la metafora usata da Andrea Borruso (autore dell’articolo in quel caso) era particolarmente azzeccata: è come quando non metto l’etichetta sul vasetto che contiene lo zucchero e in quello che contiene il sale e poi si fa l’errore di scambiare l’uno per l’altro.

Una ricca documentazione che sia in grado di evidenziare da subito le caratteristiche di una tabella spiegando il significato di ciascuna colonna, i valori attesi in esse, il motivo per cui quella tabella nasce, la frequenza di aggiornamento, i referenti a cui rivolgersi e quant’altro (quello che in gergo sono più comunemente chiamati metadati) sono un lavoro che richiede molta attenzione. Ancora di più quando la tabella diventa un oggetto ancora più complesso come file xml, rdf o servizi online di distribuzione dati.

L’open data, per come lo stiamo interpretando attualmente, sta facendo molta fatica a decollare. Il ruolo della PA è cruciale, perché, fra i vari attori che possono offrire open data è quella a cui spetta un dovere morale. La pubblica amministrazione gestisce molti beni comuni e lo fa anche attraverso i dati, di conseguenza i dati sono a loro volta beni comuni a cui tutti dovrebbero poter accedere.

Si tratta del ruolo sociale che questo attore ricopre, ruolo sociale che in altri casi è interprato anche da grandi aziende o enti no profit che usano gli open data come mezzo per evidenziarlo.

Questa però appare una visione corretta ma, a tratti, un po’ miope in quanto l’apertura dei dati entra nel merito dei processi di produzione e gestione del dato. Quindi, oltre al dovere che un attore ha nel suo ecosistema, le motivazioni dell’apertura dei dati devono essere accompagnate da vantaggi.

Un “open data di qualità” è quello che mette al centro il riuso. Un riuso che a sua volta deve essere guidato dalla sostenibilità e percepito come un momento di crescita. Aprire dati non può essere visto come un semplice atto normativo se poi questo non viene incontro a delle reali opportunità.

L’articolo A calculus for open data” scritto da Anrandu Sahueget e David Sangokoya del GovLab di New York semplifica in una formula quelle che sono le variabili che chiunque possa aprire dati deve mettere in considerazione.

La formula non è altro che un confronto fra benefici e costi, ma è il modo con cui questi vengono considerati che è affascinante e aiuta a riflettere. In particolare, l’aspetto dei benefici non è guidato esclusivamente dal “dovere”, che nel caso di una pubblica amministrazione può essere morale, per quello che le spetta come ruolo nell’ecosistema, o di rispetto nelle norme (si pensi al caso degli obblighi di trasparenza). La formula parla in particolare di opportunità.

Ed è sulle opportunità che una PA deve realmente riflettere. L’open data deve essere visto, prima di tutto, come un momento importante di crescita e di vantaggio per la stessa pubblica amministrazione. Il semplice motivo di avere un unico punto di accesso (i cataloghi open data) per i dati in possesso ad una PA è una ottima soluzione per gli uffici stessi che, a loro volta, possono informarsi di cosa è disponibile e confrontarsi con gli altri.

Spesso poi ci sono dati (come quelli statistici) che vengono sovente richiesti agli uffici. In molti hanno optato per metterli online, onde evitare le continue richieste per telefono o email. E già qui si ha un primo beneficio. Ma il beneficio di avere i dati della pubblica amministrazione disponibili, per rendere efficiente il lavoro stesso di una PA, non è assolutamente una novità.

Nel dicembre del 1965, lo statistico italiano Bruno De Finetti, al decennale della fondazione Aldo della Rocca, mostrava una lavagna.

Su quella lavagna era rappresentato uno schema di come le varie banche dati delle pubbliche amministrazioni dovevano cooperare fra di loro. Si tratta di una immagine che ha 50 anni. Una esigenza del XX secolo che ora, nel XXI, appare realizzabile. La stessa AgID attualmente sta lavorando su quello schema.

Sicuramente c’è molto da lavorare, e, comunque, dovendo l’open data confrontarsi anche con i vincoli di leggi quali privacy, segreto statistico, flora e fauna protetta ecc… il lavoro diventa ancora più complesso. Ma quella immagine, quello schema, tocca nel cuore qualsiasi funzionario pubblico.

Chiunque lavora nella PA, ogni giorno si trova davanti a queste esigenze. Sfruttare l’open data, pertanto, vuol dire cominciare a fare ordine, guardare quello che si ha in casa, risistemare i processi che raccolgono e gestiscono dati. Ragionare in un’ottica di interoperabilità che non si fermi solo allo scambio di dati, ma che entri anche nei contenuti. Non c’è ombra di dubbio che le tecnologie più di avanguardia come i Linked Data offrano soluzioni incredibili, ma necessitano anche di molta conoscenza.

È da chi lavora ogni giorno in trincea che questa rivoluzione può partire, nel confronto con gli altri e nello scambio di buone pratiche. Questo è quello che accade all’interno di OpenSIPA: la comunità e l’associazione dei Sistemisti Informatici della Pubblica Amministrazione dove, ogni giorno, oltre 1.000 operatori pubblici si confrontano su questioni tecniche.

Il codice dell’amministrazione digitale, anche se criticabile, ha delle norme importanti per implementare l’open data. L’articolo 52 offre delle grandissime opportunità. Si tratta solo di coglierle, di implementarle partendo prima di tutto dalle azioni che possono essere realizzate della singola pubblica amministrazione. Per ora ci sono tante promesse, e troppe sono state annunciate senza arrivare a dei risultati.

Le linee guida per la valorizzazione del patrimonio informativo pubblico offrono moltissimi spunti da elaborare. In particolare, offrono anche una categorizzazione su formati di dati accompagnati da metadati che, se rispettata, potrebbe permettere piccoli salti di qualità. Purtroppo, però, siamo ancora fermi. Siamo ancora fermi alle promesse dell’agenda open data 2014 e al suo monitoraggio.

Si vedono piccoli passi, ma ancora non bastano. Serve che la rivoluzione parti dall’interno delle PA, cogliendo prima di tutto l’enorme vantaggio che l’open data può offrire a loro stesse. Piccoli passi per grandi risultati. Cerchiamo di avere fiducia e di non gettare alle ortiche questa opportunità.

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