I rischi di un cittadino connesso senza cultura

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L’innovazione tecnologica è da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni, ma senza una cultura della comunicazione, una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, politiche sociali in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale, diventa un’innovazione mancata

27 Aprile 2016

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Piero Dominici

Nella consapevolezza della complessità e della interdipendenza dei fenomeni trattati, l’analisi delle attuali sfide della cittadinanza (globale) e, nello specifico, della cittadinanza digitale, deve fare i conti con alcuni presupposti riguardanti il nuovo ecosistema (1996) e le mille implicazioni della cd. società/economia della conoscenza. Proviamo a partire da una possibile definizione:

«La società interconnessa è una società ipercomplessa, in cui il trattamento e l’elaborazione delle informazioni e della conoscenza sono ormai divenute le risorse principali; un tipo di società in cui alla crescita esponenziale delle opportunità di connessione e di trasmissione delle informazioni, che costituiscono dei fattori fondamentali di sviluppo economico e sociale, non corrisponde ancora un analogo aumento delle opportunità di comunicazione, da noi intesa come processo sociale di condivisione della conoscenza che implica pariteticità e reciprocità (inclusione). La tecnologia, i social networks e, più in generale, la rivoluzione digitale, pur avendo determinato un cambio di paradigma, creando le condizioni strutturali per l’interdipendenza (e l’efficienza) dei sistemi e delle organizzazioni e intensificando i flussi immateriali tra gli attori sociali, non sono tuttora in grado di garantire che le reti di interazione create generino relazioni, fino in fondo, comunicative, basate cioè su rapporti simmetrici e di reale condivisione. In altre parole, la Rete crea un nuovo ecosistema della comunicazione ma, pur ridefinendo lo spazio del sapere, non può garantire, in sé e per sé, orizzontalità o relazioni più simmetriche. La differenza, ancora una volta, è nelle persone e negli utilizzi che si fanno della tecnologia, al di là dei tanti interessi in gioco».

Viviamo oltretutto, all’interno di un orizzonte socioculturale, di prospettive – di discorso e azione – ma, soprattutto, di strategie (di breve periodo) tuttora fondate su una consapevolezza assolutamente parziale della multidimensionalità, dell’ambiguità e dell’imprevedibilità che contraddistinguono i processi di innovazione e cambiamento. Una consapevolezza, spesso soltanto dichiarata, che porta a ridurre, talvolta banalizzare, gli stessi concetti di comunicazione, condivisione, inclusione, cittadinanza, democrazia. Con il rischio, tra i tanti, di determinare, in maniera irrecuperabile, le condizioni strutturali di un’innovazione tecnologica senza cultura. Anche su questo aspetto siamo tornati a più riprese. Ci limitiamo a ribadire che parlare di inclusione, cittadinanza, democrazia digitale senza tentare almeno di contrastare fenomeni e processi che le rendono difficilmente realizzabili (ostacolando l’innovazione aperta e inclusiva), equivale al legittimare i meccanismi di un contesto storico sociale sempre più segnato da disuguaglianze di carattere conoscitivo e culturale che definiscono in maniera netta la stratificazione sociale, anche a livello globale. In fondo lo stesso discorso può essere fatto per la questione – assolutamente importante – del “merito” che, nella sua centralità, se non viene incrociato con altre variabili rischia di essere e di riguardare il merito di coloro che hanno più opportunità in partenza di accesso all’istruzione, alla conoscenza, alla cultura. Si pensi, in tal senso, a variabili complesse come la “povertà educativa” e/o l’analfabetismo funzionale, per troppo tempo sottovalutate e poco “narrate”, oltre che poco visibili mediaticamente. Finché non sarà garantita l’eguaglianza delle condizioni di partenza, parlare di “merito”, di “meritocrazia”, ma anche di “cittadinanza” e “inclusione” rischia di diventare un esercizio puramente retorico. In tempi non sospetti, abbiamo proposto la definizione di “società asimmetrica”(2003), proprio in una fase estremamente delicata di mutamento, in cui le narrazioni egemoni sulla Rete e sulla rivoluzione digitale presentavano, quasi in termini di nesso di causalità, la relazione tra digitale e partecipazione, tra digitale e fiducia – tuttora confusa, non soltanto in politica, sia con la popolarità on line che con una certa idea/visione di “immagine” e “reputazione” – tra digitale e inclusione; infine, tra digitale e cittadinanza.

E, nel prendere atto di questo ritardo culturale, non possiamo non ribadire con forza una nostra vecchia formula: non bastano “cittadini connessi”, servono cittadini criticamente formati e informati, educati al pensiero critico ed alla complessità, educati alla cittadinanza e non alla sudditanza. Educati ad una cittadinanza (stesso discorso vale per la costruzione sociale di una cultura della legalità e/o di una cultura della prevenzione: si costruiscono a scuola!) che – bene esser chiari – è fatta di diritti, che devono essere conosciuti (-> ruolo strategico della comunicazione – sempre confusa con il marketing – intesa come semplificazione, condivisione, accesso, trasparenza, servizio, inclusione etc.), ma anche di doveri. In ogni caso, occorre agire e intervenire, con una certa urgenza, là dove si definiscono le condizioni strutturali di questa società diseguale (scuola e università); là dove si producono, elaborano, distribuiscono informazioni e conoscenza, le “vere” risorse strategiche del nuovo ecosistema. Con la centralità posta sui processi educativi e formativi. La libertà comporta responsabilità significative di cui non dobbiamo avere paura. E per (almeno) tentare di realizzare tutto ciò, solo e soltanto nel lungo periodo, istruzione ed educazione devono preoccuparsi di formare Persone e Cittadini in grado di sfruttare le opportunità determinate dall’innovazione tecnologica ma anche, e soprattutto, di contribuire ad un cambiamento sociale e culturale che non può non fare i conti con la famosa “questione culturale” e l’assenza di un’etica pubblica condivisa.

D’altra parte, una cittadinanza “vera”, attiva e partecipe del bene comune e, più in generale, il cambiamento culturale sono sempre il “prodotto” complesso, da un lato, di processi e meccanismi sociali che devono partire “dal basso”, dall’altro, dell’azione di quella società civile e di quella sfera pubblica, attualmente assorbite e fagocitate dalla politica, che ha tolto loro autonomia. Servono politiche (lungo periodo) progettate e realizzate con una prospettiva sistemica (dimensione assente). Altrimenti, serviranno a poco anche processi inclusivi, piattaforme e dinamiche attivate e (concretamente) costruite nella logica della partecipazione, attivate da una Pubblica Amministrazione – questa la speranza e l’auspicio – divenuta, nel frattempo, sempre più trasparente ed efficiente. Il rischio – lo ripetiamo – è quello di costruire una cittadinanza/democrazia senza cittadini che è in grado di includere solo chi ha strumenti ed è capace di produrre/elaborare/condividere conoscenza.

L’innovazione tecnologica è da sempre un fattore strategico di cambiamento dei sistemi sociali e delle organizzazioni ma se non supportata da una cultura della comunicazione, da una visione sistemica della complessità e, a livello di decisore politico, da politiche sociali in grado di innescare e supportare il cambiamento culturale, si riveli sempre un’innovazione mancata. La società della conoscenza e il nuovo ecosistema globale sono destinati a diventare sempre più esclusivi e chiusi, anche in quei “luoghi” in cui non è ancora possibile erigere muri e barriere per gestire (?) la diversità, le disuguaglianze e i conflitti. La “società asimmetrica”, apparentemente aperta e inclusiva, in realtà garantisce opportunità di inclusione e mobilità solo in linea teorica e a livello di quadro giuridico di riferimento.

Parafrasando (e forzando) alcune parole, particolarmente significative, di Adriano Olivetti, il quale affermava “Io penso la fabbrica per l’uomo, non l’uomo per la fabbrica”, dobbiamo iniziare veramente a pensare (progettare) le città, i territori, gli ecosistemi, le reti, le pubbliche amministrazioni, i servizi etc. per (e con) il Cittadino e non viceversa; servizi, ambienti, spazi sociali che pongano concretamente, al di là degli slogans, “il cittadino al centro” (da sempre, preferisco parlare di “Persona al centro”, per tutta una serie di motivi su cui ritorneremo), mentre spesso l’impressione è che al centro ci sia ben altro…e mi riferisco non soltanto alla stessa tecnologia (opportunità), a logiche di potere e/o interessi particolari, ma anche ad una visione ideale, e lontana dalla realtà, proprio dei cittadini destinatari di politiche e servizi; cittadini che, una volta educati e “preparati” alla cittadinanza, potranno anche essere (concretamente!) sempre più coinvolti nei processi decisionali. Per ora siamo fermi all’illusione di una relazione meno asimmetrica con il potere.

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