Il processo amministrativo telematico parte azzoppato: ecco i punti critici
Il PAT pur mutuando più di qualcosa dal processo civile telematico non ne ricalca fedelmente la struttura e le metodiche, ma se ne discosta significativamente in più d’un aspetto; in altre parole, l’infrastruttura informatica del PAT sarà decisamente differente e altra da quella che sostiene il PCT. E già ciò si pone in contrasto con quanto dispone il CAD
7 Marzo 2016
Emanuele M. Forner, avvocato
Dopo la giurisdizione civile, anche quella amministrativa si appresta a fare il suo ingresso nell’era digitale: la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha predisposto lo schema di decreto concernente “Regolamento recante le regole tecnico-operative per l’attuazione del processo amministrativo telematico”, comunicando la relativa bozza alle principali istituzioni e associazioni forensi di settore nonché acquisendo il parere favorevole della sezione consultiva per gli atti normativi del Consiglio di Stato (parere del 20/01/2016 n. 66).
La giustizia amministrativa entra quindi nella fase sperimentale che prelude all’entrata a regime del PAT, fissata allo stato per l’1 luglio 2016; l’informatizzazione del processo dovrebbe, nelle intenzioni, consentire un significativo recupero di efficienza e di economicità della giustizia amministrativa, con ovvia soddisfazione generale.
Tutto bene dunque? Anche no, a ben vedere. Perché tanto scetticismo e tanta sfiducia, soprattutto da parte di un fautore dichiarato ed entusiasta dell’informatizzazione? Perché, a meno che non sussistano ragioni tecniche che non sono state evidenziate e/o esplicitate, lo schema di D.P.C.M. disegna un sistema di processo telematico che presenta non poche incongruità e controsensi.
Vediamo di essere più chiari.
In primo luogo, il PAT, pur mutuando più di qualcosa dal processo civile telematico, non ne ricalca fedelmente la struttura e le metodiche, ma se ne discosta significativamente in più d’un aspetto; in altre parole, par di comprendere che l’infrastruttura informatica del PAT sarà decisamente differente e altra da quella che sostiene il PCT.
E già ciò si pone in contrasto con quanto pur dispone, e chiaramente, il Capo VI (rubricato “Sviluppo, acquisizione e riuso di sistemi informatici nelle pubbliche amministrazioni”) del Codice dell’amministrazione digitale (D.Lgs. 82/2005): «Le pubbliche amministrazioni acquisiscono programmi informatici o parti di essi nel rispetto dei princìpi di economicità e di efficienza, tutela degli investimenti, riuso e neutralità tecnologica» (art. 68, comma 1, C.A.D.).
Il più elementare buonsenso avrebbe richiesto, quindi, che venisse innanzitutto valutata la possibilità di adottare — con gli opportuni adattamenti — l’infrastruttura informatica realizzata per il processo civile, sulla scorta delle seguenti considerazioni:
- il sistema dei registri della giustizia civile è alquanto più complesso e articolato di quello della giustizia amministrativa, pertanto non si sarebbe trattato di implementare nuove funzionalità nel software bensì, al massimo, di semplificare l’esistente in ragione delle specifiche esigenze della giustizia amministrativa;
- l’infrastruttura del PCT, con tutti gli inconvenienti sin qui manifestati, si è comunque dimostrata sufficientemente affidabile ed efficiente, e il suo prolungato e diffuso utilizzo ha consentito di individuarne (e rimediarne) i principali punti critici;
- una buona parte degli avvocati amministrativisti tratta anche questioni civilistiche, di talché ha già (faticosamente, per la maggioranza) appreso le metodiche del PCT: costringerla adesso a imparare qualcosa di nuovo non farà che aumentare la confusione e incrementare il rischio di errori meramente formali (che i giudici amministrativi vedono assai di buon occhio, offrendo il destro a pronunce di rigetto basate unicamente sul rito: ciò si traduce in minor fatica per loro, ma costituisce altresì il lato più odioso della giurisdizione, prossimo assai se non addirittura da identificarsi con la denegata giustizia).
Questa, in linea generale, la principale critica che ci sentiamo di muovere al PAT che si prospetta. Ma anche nei dettagli del D.P.C.M. è dato rinvenire prescrizioni che definire antipatiche è davvero il minimo sindacale.
Su tutte (Cicero pro domo sua), vorremmo richiamare l’attenzione sull’art. 16 dello schema di D.P.C.M., rubricato “Richiesta delle copie di atti e documenti del fascicolo processuale”: diversamente dal PCT, nel PAT le copie conformi degli atti contenuti nel fascicolo informatico sono rilasciate dalla segreteria dell’ufficio e dietro pagamento dei relativi diritti (bontà sua, l’ultimo comma dell’art. 16 esenta i soggetti abilitati ad accedere al fascicolo informatico dal versamento del diritto di copia senza certificazione di conformità).
Ora, a parte l’implicita manifestazione di sfiducia nei confronti degli avvocati (e della specifica deminutio sofferta dagli amministrativisti rispetto ai loro colleghi civilisti), così facendo si rinuncia a uno dei più importanti conseguimenti del processo telematico, cioè lo sgravio degli uffici dall’attività di rilascio di copie (nel processo civile il rilascio di copie a cura della cancelleria è ormai un’ipotesi residuale e riservata solo a specifiche, delicate occorrenze). E pure sotto il profilo della normativa tecnica gli assurdi si sprecano: su tutti, il meccanismo del deposito telematico, che non prevede l’utilizzo di un software redattore (come avviene nel PCT) bensì di una serie di moduli PDF da compilare a cura del depositante.
Non è dato comprendere se anche questo diverso sistema consentirà l’acquisizione automatica dei dati nei registri ovvero se sarà ulteriore incombenza manuale da parte degli addetti di segreteria; in ogni caso, è un’autentica sciocchezza, perché:
- se è previsto un automatismo, sarà pur sempre stato necessario sviluppare un nuovo software dedicato, quando invece era già pronto all’uso il sistema adottato nel PCT (ma tanto, paga Pantalone…);
- se, invece, la segreteria dovrà acquisire i dati mediante operatori umani, l’insensatezza di una tale soluzione è di tanto palmare evidenza da non richiedere ulteriori parole.
Altre minori incongruità sono da riconoscere nell’indicazione di software e formati proprietari (WinZIP, WinRAR, RTF), non proprio la “neutralità tecnologica” di cui al citato art. 68 CAD.
Come abbiamo premesso in esordio di questo scritto, rimarrebbe — a questo punto — la speranza che il PAT sia stato così concepito e disegnato in forza di insuperabili particolarità strutturali della giustizia amministrativa ( incidenter tantum: un altro buon motivo per la sua abolizione, da tempo e da più parti invocata); così fosse, è mancata un’importante comunicazione, vieppiù fondamentale se si vuole — come si dice di volere — l’attiva collaborazione dell’avvocatura per la miglior riuscita del processo telematico.