Salviamo “open data” dalla rottamazione, il concetto è sotto attacco

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Si sente in giro già qualcuno che vuole rottamare la parola, sostenendo
che il processo di apertura dei dati geografici si sia ormai consolidato. Ma finché non si sarà creata veramente la cultura dei dati aperti – sia nel pubblico (che deve rendere disponibili i dati e deve farlo nel modo corretto), sia nel privato che li può riutilizzare – il termine “open data” non possiamo e non dobbiamo mandarlo in soffitta

28 Gennaio 2016

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Giovanni Biallo, Presidente Associazione OpenGeoData Italia

Negli ultimi anni, soprattutto nei settori delle tecnologie, della comunicazione e dell’economia, sono entrate nel linguaggio corrente una serie di nuove parole di derivazione angloamericana. Penso ad esempio a termini quali open data, big data, smart city e così via. Ma ho anche notato che queste espressioni hanno una durata relativamente breve. Dopo quattro o cinque anni un movimento di esperti, evangelizzatori, comunicatori, inizia un processo di demolizione per eliminare il termine dall’uso corrente, magari in funzione di neologismi orientati alle novità emergenti. La conseguenza di questo processo è il graduale abbandono di tutto quello che è stato generato dietro quel termine nel tempo.

Prendiamo per esempio il termine “open data”. Si sente in giro già qualcuno che vuole rottamare la parola, sostenendo che il processo di apertura dei dati geografici si sia ormai consolidato. Personalmente ho qualche dubbio in proposito.

Vogliamo parlare degli Open Data dei Comuni, che sono gli enti locali per eccellenza? Vogliamo contare quanti enti centrali dello Stato pubblicano dati significativi per il mercato? Vogliamo analizzare quanto realmente possono essere utili questi dati e quanto sono aggiornati? E questo è solo il lato visibile del processo, cioè la pubblicazione in modalità aperta dei dati della Pubblica Amministrazione. Ma c’è anche l’altro versante della questione, che è ancora tutto da verificare: il reale riutilizzo di questi dati!

Quanto sono utilizzati gli Open Data e da chi? Per quali usi ed applicazioni? Tutti gli enti che hanno pubblicato dati aperti, hanno anche tentato di monitorarne il riuso, ma con scarsissimi risultati. Hanno aperto forum e richiesto agli utenti di segnalare che tipo di uso fanno dei dataset pubblicati, ma quasi inutilmente. Hanno anche affidato questa analisi a ricchi progetti finanziati dalla Comunità Europea, con risultati ancora più scarsi e conclusioni a volte veramente deludenti. Ad un convegno ho sentito raccontare da un responsabile di uno di questi progetti che il vero riuso dell’Open Data lo si vede negli hackathon. Certo gli hackathon o i concorsi per le App sviluppate con gli Open Data, sono facili strumenti per toccare con mano il riuso, ma si tratta in genere di eventi costruiti ad hoc per promuovere il riutilizzo dei dati aperti. Dunque non si possono considerare attendibili strumenti di monitoraggio del reale riuso, ma piuttosto delle potenzialità applicative.

Il vero utente degli Open Data si nasconde nell’anonimato perché ha capito che mettersi in mostra non aggiunge valore a quello che sta facendo, anzi può generare concorrenza alle sue idee. Ha capito che la grande innovazione dell’Open Data è proprio nel poter utilizzare i dati della Pubblica Amministrazione senza dover chiedere il permesso a nessuno e tanto gli basta.

L’entità attuale dell’effettivo riuso lo si può dedurre dalle statistiche pubblicate da alcuni enti (purtroppo solo alcuni) sui loro portali Open Data. Se li andiamo ad analizzare scopriamo che gli utenti scaricano di più: dataset turistici (musei, beni culturali, eventi, alberghi); dati geografici (che sono anche i più apprezzati); dataset sul trasporto pubblico (sia quelli statici che dinamici); dati sull’inquinamento. Le quantità di dataset scaricati non superano, per quelli più richiesti, i 2.000 download. Solo alcuni dataset nazionali arrivano a cifre importanti, come gli oltre 44.000 download del dataset delle farmacie esposto in open dal Ministero della Salute.

Fuori dai portali Open Data degli enti abbiamo il mondo dei social network. Nel tentativo di capire il profilo dell’utente e il tipo di applicazioni, sono andato ad analizzare i gruppi Facebook nati più o meno spontaneamente sull’Open Data. In Italia sono poco più di una diecina, ma quelli realmente animati con diverse centinaia di aderenti si possono contare sulle dita di una mano. Mi aspettavo frenetici scambi di post sull’uso di quello o quell’altro dataset, ma in realtà la stragrande maggioranza dei post è dedicato a notizie di eventi, a link di siti stranieri, a news su nuovi dataset pubblicati in open. Molto pochi, ma sicuramente interessanti, i dialoghi sull’uso concreto dei dati. Si parla – più che di App – di dati derivati e rappresentati in modo efficace. I temi più ricorrenti sono: trasporti, statistica, escursionismo a piedi ed in bici. Probabilmente a questi gruppi Facebook sono iscritti sviluppatori di dati e non sviluppatori di software; questi ultimi evidentemente prediligono altri canali di comunicazione che personalmente non conosco e non frequento.

Comunque non vedo qui rappresentati (ma neanche in altri gruppi più tematici) la moltitudine di professionisti che, per il mestiere che svolgono, hanno bisogno molto spesso di dati di diverso tipo. Intendo giornalisti, architetti, ingegneri, geometri, agronomi, biologi, medici, esperti di marketing. Ho cercato quindi una via di analisi di questo comparto di potenziali utilizzatori ed ho pensato all’obbligo formativo imposto per legge ai professionisti. Oggi infatti tutti gli iscritti ad un ordine professionale devono maturare un certo numero di crediti formativi annuali seguendo corsi, seminari e convegni svolti da strutture certificate. Quindi ho esaminato il calendario offerto da alcuni di questi ordini locali e consigli nazionali ed ho appurato che della formazione sull’Open Data non c’è neanche l’ombra. Non penso che tutti i professionisti siano già esperti nel riuso di dati aperti. Ho avuto modo di appurarlo chiacchierando con alcuni presidenti di ordini professionali, in occasione di interventi a convegni e seminari in giro per l’Italia. Vista la numerosità dei professionisti, questo è sicuramente un comparto su cui puntare in modo determinato, con la formazione all’uso dei dataset aperti.

Finché non si sarà creata veramente la cultura dei dati aperti – sia nel pubblico (che deve rendere disponibili i dati e deve farlo nel modo corretto), sia nel privato che li può riutilizzare – il termine “open data” non possiamo e non dobbiamo mandarlo in soffitta.

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