Siamo oltre l’Open Data Charter?

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Gli open data sono ormai una realtà, almeno
nei concetti, un po’ meno nei fatti. Ma c’è qualcuno che si preoccupa ancora di
scrivere principi che, tra l’altro sono già insiti nel concetto di open data. Le riflessioni di giovanni Biallo sulla nuova versione dell’Open data charter approvata ad Ottawa a fine ottobre.

11 Novembre 2015

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Giovanni Biallo*

Nel 2013 su iniziativa del forum G8 (Stati Uniti, Giappone, Germania, Francia, Regno Unito, Italia, Canada e Russia), nasceva l’Open Data Charter, un documento che aveva l’obiettivo di condividere principi comuni sulle politiche di apertura dei dati della pubblica amministrazione. In realtà il documento giunse con due tre anni di ritardo rispetto al boom dell’open data. All’Open Data Charter seguirono poi i Piani di azione nazionale in cui i singoli Paesi del G8 indicarono come intendevano attuare la promozione dei dati aperti nel proprio contesto nazionale. Il documento italiano, la cui redazione è stata coordinata dalla Funzione Pubblica, era in realtà abbastanza deludente, in quanto i dataset individuati come prioritari (statistiche nazionali, mappe nazionali in scala 1:250.000, dati elettorali, bilanci pubblici) erano a carattere molto generale. La loro individuazione seguì senza ombra di dubbio il volere degli enti pubblici coinvolti e non di certo dei potenziali riutilizzatori.

L’Open Data Charter cadde poi nell’oblio e non se ne sentì più parlare per più di un anno. Intanto il movimento open data è andato avanti a spron battuto. Il testo è stato decisamente superato dagli eventi sia di livello nazionale che internazionale.

Nel maggio del 2015, alla Conferenza Open Data Internazionale di Ottawa, l’Open Data Charter è resuscitata. Il Canada, il Messico, l’International Development Research Centre, l’Open Data for Development, la World Wide Web Foundation e l’Omidyar Network ed altre illustri organizzazioni internazionali, hanno rilanciato l’Open Data Charter, promuovendo la redazione condivisa via web di una nuova versione del documento, che è giunta a compimento nell’agosto del 2015. Per l’Italia l’operazione è stata coordinata dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID).

La nuova versione della carta si basa su sei principi: l’open by default, dati tempestivi e completi, dati accessibili e usabili, dati comparabili e interoperabili, dati atti a migliorare la governance e il coinvolgimento dei cittadini, dati volti allo sviluppo inclusivo e all’innovazione.

Il gruppo di lavoro internazionale, che ha coordinato la stesura della nuova carta, è ora impegnato nel coinvolgimento di tutti i soggetti interessati a impegnarsi nel processo di adozione.

In tutto questo processo si evidenzia un paradosso: ancora una volta produciamo “carta” in un mondo ormai tutto digitale. Il solo titolo del documento mi dà la sensazione di antico. Il mondo invece scorre velocemente scandito dalle tecnologie digitali, gli open data sono ormai una realtà, almeno nei concetti, un pò meno nei fatti. Ma c’è qualcuno che si preoccupa ancora di scrivere principi che, tra l’altro sono già insiti nel concetto di open data.

Sento in questo processo ancora puzza di burocrati che cercano di vestire un concetto che ormai parla da solo. Mi piacerebbe invece sentire l’odore di chi vuole riutilizzare i dati ed ancora non li trova disponibili. Questo è il momento in cui l’impegno dei Paesi deve essere massimo nell’imporre l’open data a tutti gli enti pubblici. Quanti professionisti oggi in Italia devono elemosinare dati, come ad esempio piani regolatori e vincoli, che gli stessi produttori (i comuni) richiedono loro nei progetti? Quanti enti centrali dello Stato sono inadempienti e non rendono disponibili dati basilari come ad esempio le mappe catastali dell’Agenzia delle Entrate, la rete stradale nazionale, gli orari di tutti i mezzi pubblici, o le aree CAP? Quando questi dati avranno gli stessi formati e saranno compatibili anche se prodotti da enti diversi? Questi sono i veri problemi dell’Open Data.

E’ necessario perseguire una applicazione concreta ed esaustiva dell’open data, con regole e non principi. Regole che in Italia sono ancora poco definite. L’obbligatorietà di pubblicazione in open dei dataset di uso corrente non è stata mai definita ed imposta dallo Stato. I modelli standard di dati sono pochi e spesso non utilizzati. I metadati sono scarsamente esaustivi. L’aggiornamento costante soprattutto per talune tipologie di dati molto variabili nel tempo, non è quasi per niente preso in considerazione. I servizi di interoperabilità, soprattutto per i dati dinamici e i big data, sono applicati ancora molto poco.

A confronto con questi problemi, i principi della nuova Open Data Charter sono ovvi e scontati. Certo che vogliamo dati tempestivi e completi, accessibili e usabili, comparabili e interoperabili. Ma questi principi sono insiti nelle regole pratiche di pubblicazione e quest’ultime sono ancora in gran parte disattese.

La ricetta? L’imposizione da parte del Governo a tutti gli enti pubblici centrali e locali, di regole definite e condivise con i potenziali riutilizzatori. Non vogliamo documenti complessi composti da centinaia di pagine ma regole semplici, elenchi di dataset, riferimenti a formati e modelli standard. Cose che non impegnano ore ed ore per essere analizzate ma “brevi, succinte e compendiose”, come diceva un mio professore di liceo.


* Giovanni Biallo Presidente dell’Associazione OpenGeoData Italia

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