Teenager e social: cosa succede tra presunti divieti UE e dati reali
Nelle scorse settimane si è acceso in rete il dibattito su “teenager e social media”, a fronte di presunte indicazioni da Bruxelles di limitarne l’uso per gli under 16. Cosa c’è di vero, su cosa occorre chiedere di più alle autorità legislative e su cosa dobbiamo rimboccarci le maniche, ognuno per il suo? Con piacere pubblichiamo il contributo di Sonia Montegiove e Emma Pietrafesa, della rete Wister, esperte e attiviste sul tema.
7 Gennaio 2016
Sonia Montegiove e Emma Pietrafesa
I titoli “urlati” in questi giorni da alcuni magazine facevano pensare ad un divieto d’uso di email e social da parte degli under 16.
Ciò che di vero c’è nei titoli è che la Commissione Europea ha avviato, nel gennaio 2012, una riforma globale delle norme sulla protezione dei dati personali nell’UE. Il completamento di questa riforma è stato indubbiamente una priorità politica nel corso di tutto il 2015. Scopo della nuova normativa è quello di riconsegnare ai cittadini il controllo diretto e consapevole dei propri dati personali, di semplificare il contesto normativo per le aziende terze che erogano servizi online stimolandone la concorrenza nel mercato digitale. Prima di Natale la Commissione del Parlamento europeo sulle libertà civili ed affari interni ha approvato un emendamento per l’aggiornamento del regolamento al fine di innalzare la protezione e la sicurezza degli utenti dei servizi online in particolare per la fascia di età al di sotto dei 16 anni. L’articolo 8 del regolamento infatti prevede che, in relazione all’offerta di servizi della società dell’informazione direttamente ad un minore, per il trattamento dei dati personali di un bambino di età inferiore ai 16 anni, o laddove previsto dalla legge dello Stato membro di un minore qualsiasi di età non inferiore a 13 anni, il consenso deve essere dato e autorizzato dal titolare della potestà genitoriale. Quindi, quale che sia il limite scelto dai Paesi membri, le aziende che desiderano consentire ai minori under 16 di utilizzare i loro servizi, tra cui Facebook, Snapchat, WhatsApp e Instagram, dovranno ottenere il consenso esplicito del loro tutore legale per permettere il trattamento dei dati personali.
Indubbiamente l’aver posto una tale questione non modifica la ben nota situazione per cui già attualmente milioni di under 13 sono presenti sulle più svariate piattaforme social attraverso la creazione di profili con false informazioni e generalità. Lo evidenziano diversi studi e inchieste che dimostrano come anche una gran parte dei genitori sia a conoscenza che i propri figli minori di 13 anni abbiano già attivato un profilo malgrado il regolamento sulle condizioni d’uso delle varie piattaforme (legato a una legge statunitense, il Children’s Online Privacy Protection Act del 1998) che impone appunto il limite d’età a 13 anni. Con il nuovo orientamento gli Stati membri europei saranno ora liberi di fissare il limite della propria soglia tra i 13 e i 16 anni.
Janice Richardson, ex coordinatore della rete europea Internet Safer, e consulente sulle tecnologie dell’informazione per le Nazioni Unite ha dichiarato: “Spostare l’età di accesso a questi servizi da 13 a 16 rappresenta un importante cambiamento nella politica europea di settore sulla quale sembra che non vi sia stata alcuna consultazione pubblica. Inoltre tale nuovo requisito per il consenso dei genitori priverebbe i giovani di opportunità educative e sociali in diversi modi, fornendo non maggiore ma addirittura minore protezione”.
Indubbiamente un tale cambiamento non fermerà l’accesso ai social da parte degli adolescenti a prescindere o meno dal consenso dei genitori, questo poiché sebbene la maggior parte delle piattaforme richieda una data di nascita per la registrazione dell’account non vi è modo certo di verificare le informazioni, come invece accade spesso per i servizi per adulti in cui la verifica viene effettuata attraverso l’identificazione dell’utilizzo di una carta di credito.
Ma siamo davvero convinti che il proibizionismo, i divieti (sulla carta), le false chiusure di Facebook, Twitter, Instagram aiutino a preservare i ragazzi dai rischi senza privarli di grandi opportunità? Siamo così sicuri di aver bisogno di nuove leggi che vadano a regolamentare quanto è già regolamentato, visto che non stiamo parlando del far west? Oggi, fortunatamente, si sente parlare oltre che di divieti anche di consapevolezza, formazione e informazione. Di conoscenza unita a buon senso nell’uso di uno strumento che, inutile rimetterlo in discussione, è parte delle vite degli adulti come di quelle dei ragazzi. Uno strumento che ha cambiato profondamente le dinamiche sociali e che non è più soltanto mezzo di comunicazione ma nuovo modi di rapportarsi agli altri. La domanda a questo punto potrebbe essere: cosa fare per “elargire” consapevolezza a piene mani? Una pubblicità progresso che nessuno guarderà? Un manifesto in ogni angolo di città lasciato a marcire sotto la pioggia? Un messaggio radiofonico a reti unificate che in pochi sentiranno? Della ricetta sono noti probabilmente gli ingredienti (che abbiamo citato prima) ma non si conoscono le modalità di preparazione.
Buone pratiche italiane ci sono sicuramente. Partiamo da una iniziativa interessante organizzata dall’associazione di volontariato Zanshintech, che propone vere e proprie palestre dove si insegna ai ragazzi a difendersi dalle aggressioni digitali. Perché, come nelle arti marziali orientali, la violenza nel mondo non si sconfigge ma si può sempre imparare a parare un colpo per non permettere ad altri di farci del male. Il principio di fondo di questa iniziativa torna ad un concetto ripetuto più volte: è solo dalla conoscenza degli strumenti a disposizione che si può arrivare ad un uso intelligente degli stessi. Altre iniziative meritorie sono sicuramente quelle organizzate dalle forze di polizia nelle scuole o i seminari gratuiti promossi da associazioni di volontariato come LibreItalia o dai Coderdojo rivolti non solo a ragazzi ma anche a genitori e insegnanti (quindi educatori) che devono per primi riassumere il ruolo di guide senza scaricare la responsabilità individuale con la scusa di avere “nativi digitali” ai quali non è necessario insegnare nulla.
Ma cosa manca allora se non è una
Legge o un diffuso parlare di competenze digitali? Mancano azioni unitarie.
Manca un progetto di lungo termine che possa supportare lo sviluppo delle
competenze digitali non solo per i nativi digitali ma anche per i migranti
digitali. Manca un coordinamento delle tante iniziative volontarie che sono una
grande risorsa ma che hanno bisogno di sostenibilità nel tempo.
Basterebbe ripartire dalla educazione degli educatori, dalla formazione delle
persone che devono fare da guida e che poi possono indirizzare la strada giusta
a figli e studenti, abbandonando l’idea di avere in casa e in aula piccoli geni
del digitale. E’ indicativo a tal proposito che nel nostro Paese oltre l’86%
dei genitori non abbia idea delle attività online fatte dai propri figli.
Basterebbe riscoprire e far riscoprire il valore della libertà digitale, alla quale stiamo gradualmente rinunciando celebrando matrimoni con grandi multinazionali che detengono dati, impongono condizioni d’uso e modalità operative e ci portano alla beata inconsapevolezza che tanto aiuta chi ha tutto l’interesse ad avere utenti poco attenti al proprio diritto di scegliere liberamente.