EDITORIALE

La sfida dell’attuazione: competenze, semplificazione, accompagnamento

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Lo scorso anno nel riferirci all’evento imprevisto, alla pandemia, come al Cigno Nero sottolineammo l’importanza che la nuova fase fosse improntata sul principio, sempre di Taleb, di “antifragilità”. Non si trattava, infatti, semplicemente di essere resilienti, ma di uscirne migliori, di non tornare alla normalità, perché la normalità era il problema. Ora, se guardiamo al 2021, vediamo un anno di transizione, in cui ci sono stati importanti segnali di ripresa, ma con cambiamenti solo in parte realizzati e non sempre nella direzione prevista e auspicata. E, allora, andiamo a vedere i segnali da interpretare che ci restituisce quest’anno appena trascorso

28 Gennaio 2022

Gianni Dominici

Amministratore Delegato FPA

Photo by Braden Collum on Unsplash - https://unsplash.com/photos/9HI8UJMSdZA

Questo articolo è l’introduzione all’Annual Report 2021 di FPA (disponibile online gratuitamente, previa registrazione)

Il 2021 si è caratterizzato sin dall’inizio come un anno di transizione, di passaggio, per alcuni aspetti di attesa verso una nuova fase per il paese intero, lontano dalla pandemia e in corsa verso un nuovo sviluppo. Passaggi e cambiamenti solo in parte realizzati e non sempre nella direzione prevista e auspicata. La pandemia, si sa, è ancora una realtà a livello mondiale con la quale dovremo convivere, probabilmente, ancora per diverso tempo. Segnali di ripresa, invece, ce ne sono e anche importanti anche se, appunto, non sempre dalle caratteristiche auspicate.

Lo scorso anno nel riferirci all’evento imprevisto, alla pandemia, come al Cigno Nero (in verità anche in maniera un po’ impropria perché una pandemia virale era tutto, fuorché imprevedibile) sottolineammo l’importanza che la nuova fase fosse improntata sul principio, sempre di Taleb, di “antifragilità”. Non si trattava, infatti, semplicemente di essere resilienti e cioè «di resistere e di reagire di fronte a difficoltà, avversità, eventi negativi» (Garzanti linguistica.it), ma di uscirne migliori, di non tornare alla normalità, perché la normalità era il problema. Frasi ascoltate centinaia di volte e lette anche sui muri delle diverse città e che denunciavano la messa in discussione di un modello economico e sociale la cui fragilità a fronte dell’emergenza evidenziava anche una crisi strutturale.

Basti pensare alle nostre città, le istituzioni più prossime e vicine ai cittadini, e alle imprese che hanno svolto un ruolo centrale e fondamentale nella fase più acuta della pandemia, riuscendo, nella maggioranza dei casi, ad assicurare i servizi fondamentali per il territorio così come a gestire le politiche calate dal governo (ad esempio il bonus spesa). Ma proprio le città più avanzate, quelle tradizionalmente ai vertici per attrattività economica e sociale, quelle al centro di flussi materiali ed immateriali, sono risultate le realtà più colpite soprattutto nella prima fase della pandemia: Milano, Bergamo, Cremona, Modena. Come abbiamo scritto nel testo, le opportunità di nuovi equilibri territoriali, di nuove geografie insediative (con scenari di rinascita e rivitalizzazione dei piccoli centri, delle economie del Mezzogiorno e dei territori interni) e di nuovi stili di vita urbani (con la riduzione degli spostamenti casa-lavoro e la rimodulazione degli orari della città) possibili grazie alle opportunità occupazionali dedotte dal lavoro agile e dall’erogazione diffusa di beni e servizi, soprattutto a livello politico e decisionale, non sembrano essere state, finora, sufficientemente indagate, comprese e sostenute.

La sensazione che ci troviamo davanti ad un’occasione perduta emerge con chiarezza anche dalle risposte della nostra demoscopica realizzata lo scorso novembre e rappresentativa della popolazione italiana, svolta nell’ambito del nostro Osservatorio annuale. Alla domanda se la propria città fosse cambiata in questi anni di emergenza, il 44% ha risposto di no, che è tornata esattamente alla situazione di partenza, il 31% che è cambiata in peggio e solo il 18% che è migliorata.

E, allora, andiamo a vedere i segnali da interpretare che ci restituisce quest’anno appena trascorso.

In termini di opportunità, se sommiamo le risorse del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ai Fondi strutturali 2021-2027 arriviamo ad una dotazione di oltre 300 miliardi di euro che dovrà essere gestita non soltanto da poche strutture centrali ma anche e soprattutto dal sistema articolato delle amministrazioni territoriali. La nostra macchina pubblica è nelle condizioni di spendere tutte le risorse in maniera efficace e nei tempi richiesti? Come dettagliato nel capitolo dedicato di questo Annuario, una prima risposta viene dalla Corte dei conti europea che nella relazione annuale sul bilancio 2020, indica l’Italia come il paese con la peggiore performance nel periodo 2014-2020, con una percentuale di fondi assorbiti pari al 44% rispetto al 55% della media degli altri Stati. Se l’obiettivo è sfruttare tutte le risorse a disposizione il dato diventa ancora più preoccupante visto che il nostro paese sarà chiamato ad investire circa 30 miliardi l’anno nei prossimi nove anni: una capacità di spesa dieci volte superiore rispetto a quella che abbiamo dimostrato negli ultimi sette anni nei quali abbiamo assorbito non più di 3 miliardi l’anno di Fondi strutturali.

È evidente l’assoluta necessità di muoversi sul fronte del potenziamento della capacità amministrativa delle nostre pubbliche amministrazioni puntando su quelli che sono precondizione e, allo stesso momento, fattori abilitanti per delle PA in grado di gestire il futuro, e cioè la crescita di competenze interne alla PA, necessarie ad abilitarne la trasformazione digitale, nonché a un deciso cambio di passo in materia di semplificazione amministrativa, considerata una vera e propria condicio sine qua non, senza la quale qualsiasi sforzo focalizzato esclusivamente sulla dimensione tecnologica finirebbe per rivelarsi inutile. Un’assoluta necessità che scaturisce dall’evidente grande ritardo ed impreparazione con le quali siamo arrivati a questo importante appuntamento.

Sulle condizioni di salute nella nostra macchina pubblica valgono le considerazioni a fronte della radiografia annuale che noi di FPA svolgiamo ogni anno: il numero totale di dipendenti pubblici all’inizio del 2021 è di 3.212.450. La PA ha dunque toccato a fine 2020 il suo minimo storico degli ultimi 10 anni. Inoltre, la PA continua ad invecchiare: gli over 60 nelle nostre pubbliche amministrazioni rappresentano il 16,3% del personale complessivo, mentre gli under 30 appena il 4,2%, dovuto alla loro presenza nei Corpi di polizia e nelle Forze armate. Sono oltre 500.000 quelli che ad oggi hanno oltre 62 anni e superano i 183mila quelli che hanno oltre 38 anni di anzianità maturata in servizio nella sola PA. Sulla formazione dei dipendenti pubblici l’Italia continua a investire poco. Nel 2019, l’ultimo anno fotografato dalla Ragioneria Generale dello Stato, l’investimento complessivo è stato di 163,7 milioni di euro, 110 milioni in meno rispetto a dieci anni fa, che corrispondono a una media di 1,2 giorni di formazione l’anno. I laureati nella PA sono il 41,5%, cresciuti del 21,5% negli ultimi 10 anni, ma con un predominio di giuristi: tre su dieci sono laureati in giurisprudenza, il 17% in economia, il 16% in scienze politiche o sociologia. Secondo i dati Istat la formazione è soprattutto su competenze tecnico specialistiche (45,2% dei partecipanti) e giuridiconormativa (30,9%), mentre solo una minoranza ha svolto corsi per accrescere competenze digitali (5%) o di project management (2,3%). Il tema della formazione non è solo quantitativo. È urgente un cambio di rotta in termini di investimenti (peraltro previsti nel PNRR) e di metodi per offrire formazione di qualità, basata sui reali fabbisogni attuali e futuri degli enti e in grado di essere valutata in termini di impatti sulle persone e sulle organizzazioni.

Una situazione inevitabile conseguenza degli anni di indebolimento del settore pubblico e dei mancati investimenti in persone, competenze e innovazione organizzativa. In tali condizioni, sono pronte le amministrazioni per questa sfida? Le strategie delineate dal PNRR, sostenute da risorse economiche imponenti e da una consapevolezza politica chiara circa l’importanza della digitalizzazione, costituiscono le basi su cui costruire la PA del futuro, a patto di tenere in considerazione una serie di elementi necessari a garantire una maggiore velocità di implementazione rispetto al passato e una maggiore omogeneità nei processi di innovazione.

Il 2021 non è passato invano, perché molte sono state le politiche, le iniziative, i processi volti a rendere la macchina pubblica in grado di adempiere al difficile compito che le è stato affidato.

Già dopo poche settimane dal loro insediamento, il Governo Draghi e il Ministro Renato Brunetta hanno dimostrato di prendere molto sul serio l’emergenza dell’amministrazione pubblica. Uno dei primi atti del Governo, la cui importanza fu sancita dalla presenza dello stesso Presidente del Consiglio, è stato infatti il “Patto per l’innovazione del lavoro pubblico e la coesione sociale”: un accordo tra Governo e parti sociali che ha stabilito dei principi, niente affatto scontati, che poi hanno improntato tutta la successiva azione e che possono essere riassunti nel riconoscere alla pubblica amministrazione il ruolo centrale di motore di sviluppo e catalizzatore della ripresa.

Quasi in contemporanea con il Patto, il Ministro Brunetta nell’audizione al Parlamento ha presentato le sue linee programmatiche. In queste linee c’è «la definizione del nuovo alfabeto della PA: “A” come accesso, “B” come buona amministrazione, “C” come capitale umano, “D” come digitalizzazione. Significa ripensare i percorsi di reclutamento e di selezione del personale per favorire il ricambio generazionale e l’innesto delle competenze adeguate a costruire l’avvenire, ben oltre il Recovery». Come si vede quindi alla ‘desertificazione’ dell’amministrazione il Governo risponde con la prima delle sue azioni per una nuova PA: un nuovo modo di normare e gestire l’accesso alle amministrazioni. In pratica una ripartenza e un rinnovamento del processo delle assunzioni. Questa politica si è articolata soprattutto in due importanti decreti-legge, il dl 44/21 (che porta importanti novità sui concorsi pubblici) e il dl 80/21 (il cosiddetto decreto “reclutamento”).

Passi importanti anche nel campo dello snellimento delle procedure. Al decreto “semplificazioni” del 2020, nato per rispondere all’emergenza per incidere su tematiche strategiche come edilizia, appalti, green economy, ha fatto seguito, nel corso del 2021 un secondo provvedimento, il decreto “Governance e semplificazioni” (noto anche come “Semplificazioni-bis”), che rappresenta un pacchetto di misure che il Ministro per la pubblica amministrazione, Renato Brunetta ha definito «prima milestone del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza». Un’iniziativa che mira a: dimezzare i tempi delle valutazioni ambientali; ridurre di più della metà le attese per le autorizzazioni per la banda ultra-larga per portare la fibra a tutte le famiglie; sbloccare il “superbonus 110%”; rafforzare il silenzio assenso e i poteri sostitutivi; accelerare gli appalti e la realizzazione di importanti opere strategiche. A queste iniziative si sommano le attività che le diverse amministrazioni stanno portando avanti e che troverete descritte dagli stessi protagonisti all’interno dell’annuario.

Un altro passo decisivo verso una dimensione di maggiore efficienza, efficacia, produttività, misurazione della performance, è dato dal PIAO (Piano Integrato di Attività e Organizzazione). Obiettivo del Piano integrato, assorbire e razionalizzare molti degli atti di pianificazione cui sono tenute le amministrazioni, in un’ottica di massima semplificazione. Il PIAO consente alle amministrazioni con più di 50 dipendenti di racchiudere in un solo atto tutta la programmazione relativa alla gestione delle risorse umane, alla valutazione di performance, all’organizzazione e allocazione dei dipendenti, alla loro formazione e alle modalità di prevenzione della corruzione.

Altro importante passo registrato nel 2021 è stato l’avvio al rinnovo dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro (CCNL) 2019-2021 del pubblico impiego, trattative che interessano il personale dei comparti Funzioni centrali (Ministeri, agenzie fiscali, enti pubblici non economici nazionali), Funzioni locali (Regioni, Città metropolitane, Province, Comuni, camere di commercio), Sanità (aziende ed enti del servizio sanitario nazionale), Istruzione e ricerca (istituti scolastici, accademie e conservatori, Università, enti di ricerca). Come descritto da Antonio Naddeo nel suo contributo, complessivamente, sono interessati dai rinnovi negoziati dall’Aran circa 2.600.000 addetti cui vanno aggiunti i 600.000 dipendenti pubblici non contrattualizzati (per i quali gli accordi sono negoziati direttamente dal Dipartimento della funzione pubblica). Da questo punto di vista, gli ultimi giorni dell’anno appena trascorso hanno finalmente registrato la firma dell’accordo quadro per la definizione delle aree di contrattazione della dirigenza pubblica. Quella dei contratti pubblici è una partita importante, perché volta a regolare non solo il trattamento economico ma anche il rapporto di lavoro, andandosi così a prefigurare come una sorta di riforma dal basso.

Ma è difficile parlare di PA del futuro senza dare sufficiente spazio al tema della trasformazione digitale. Sicuramente il 2021 è da salutare per la centralità finalmente assunta dal digitale nella definizione di un nuovo modello di sviluppo. Già nel commentare gli avvenimenti dello scorso anno avevamo evidenziato come la digitalizzazione della PA fosse stata ormai assunta come uno dei motori delle strategie di ripresa, nonché uno dei principali banchi di prova per la capacità del nostro paese di ‘fare rete’ e disegnare una visione condivisa di futuro. Una convinzione riaffermata con forza dalle scelte strategiche del Governo, che della rivoluzione in chiave digitale del settore pubblico – e più in generale del sistema-paese – ha fatto una delle principali missioni nel quadro del PNRR. Piano attraverso cui l’Italia mira a colmare il gap ancora evidente con i paesi leader a livello europeo e mondiale in materia di innovazione. Al di là degli indicatori internazionali (primo fra tutti il famigerato DESI) che ci descrivono ancora come inseguitori degli altri paesi, il 2021 ha confermato il trend positivo dell’anno precedente, in termini di maturazione della domanda di servizi pubblici. Infatti, in base ai dati disponibili al 31 dicembre 2021: le identità digitali SPID attivate hanno superato i 27,4 milioni (erano 15,5 milioni a fine 2020); l’app IO ha raggiunto i 24,5 milioni di download (erano poco più di 9 milioni a fine 2020); le transazioni registrate su pagoPA sono pari a 182 milioni (+80% rispetto all’anno precedente), per un controvalore economico di oltre 33,7 miliardi di euro.

Sia rispetto al lavoro pubblico che alla trasformazione digitale, quindi, segnali importanti di reazione ma non di trasformazione, anche radicale, come era auspicabile. Nei singoli capitoli, i diversi ambiti vengono approfonditi mettendo anche in evidenza non solo le luci, ma anche le ombre di questo anno di transizione che abbiamo appena chiuso.

Ad esempio, in termini di lavoro pubblico, non si può non sottolineare la difficoltà di coniugare annunci ed effettive realizzazioni. Come abbiamo evidenziato nel testo: a dicembre 2021, nessuno dei concorsi sbloccati dal dl 44/21 si è ancora concluso con le assunzioni previste. Non il concorso per i 2.800 tecnici per il Sud che è rimasto impantanato nella difficoltà di trovare candidati idonei, non il concorso per i 2.736 funzionari amministrativi della PA centrale, per cui si attende la pubblicazione delle graduatorie così come per il concorso per 1.541 profili professionali per l’Ispettorato del lavoro. Non il concorso per 1.502 assistenti alla fruizione museale, per cui, a fine anno 2021, ancora non si sono svolti gli orali, nonostante siano passati oltre due anni dalla pubblicazione del bando. Un altro elemento di perplessità scaturisce dall’appiattimento del confronto sul tema dello smart working. Nella seconda metà del 2021, il tema ha diviso l’opinione pubblica in fazioni contrapposte, favorevoli e contrarie a quella rischiava di diventare un’etichetta, tradendone o mortificandone i principi originari, attribuendogli la responsabilità di problemi atavici della nostra PA e schiacciandolo sempre più sul mero lavoro da remoto, sugli strumenti-adempimenti e su questioni di quote.

Nel campo della trasformazione digitale la crescita della domanda non corrisponde ancora a una maturità dell’offerta: dopo che è saltata la scadenza dello Switch off del 28 febbraio le amministrazioni italiane sono ancora lontane dai livelli ottimali necessari ad abilitare la rivoluzione tanto attesa. A metà dicembre 2021, le PA che consentivano l’accesso ai servizi online attraverso SPID erano poco più di 9.200. Nonostante la crescita registrata nel corso di quest’anno (erano poco meno di 6.000 a dicembre 2020), occorre ricordare che tale dato non tiene in considerazione il numero effettivo di servizi SPID erogati dai diversi enti, per cui tra le amministrazioni ‘attive’ vengono ricomprese anche quelle che hanno attivato un solo servizio, con il solo obiettivo di rispondere all’adempimento minimo. Analogo discorso può essere fatto per l’app IO. Gli enti attivi al momento della realizzazione di questo contributo sono poco meno di 6.900 (il 95% dei quali Comuni), per un considerevole numero complessivo di servizi esposti sull’app pari a circa 77.000 (di questi, oltre il 60% sono stati aggiunti negli ultimi tre mesi del 2021). Tuttavia, anche in questo caso, molte amministrazioni hanno semplicemente esposto uno o due servizi sull’app, approcciando la scadenza prima citata secondo la tradizionale logica del mero adempimento. A ciò si aggiunge il fatto che la qualità di molti dei servizi esposti è spesso lontana da livelli accettabili in termini di usabilità, accessibilità, semplicità e sicurezza.

Dal lavoro di indagine, di ascolto, di confronto con i diversi attori nazionali svolto nel corso dell’anno emerge con ragionevole chiarezza quali siano gli elementi di criticità che riguardano le contraddizioni di questo periodo di reazione.

Il primo è di natura quasi esistenziale e riguarda la forma e la sostanza stessa della missione delle nostre pubbliche amministrazioni. Citiamo spesso una frase che Obama utilizzò, quando era presidente, rivolgendosi alla nazione: «Non si può governare il futuro con una pubblica amministrazione del passato». Una frase valida per gli Stati Uniti ma ancor di più per l’Italia di questo periodo. Per poter gestire il futuro abbiamo bisogno di una PA agile, snella, da costruire sì attraverso i decreti ma anche e soprattutto attraverso un radicale cambiamento culturale in grado di emancipare persone e organizzazioni e creare valore pubblico. Interessanti, da questo punto di vista le risposte che abbiamo raccolto con la nostra campionaria. Secondo la grande maggioranza degli italiani (il 49%) lo Smart Working nella PA è stata un’opportunità per avere un’amministrazione più efficiente e moderna, secondo il 19% è stato ininfluente e non porterà alcun cambiamento sostanziale nell’amministrazione mentre per il 32% degli italiani viene percepito come un rischio perché potrebbe facilitare l’assenteismo e i comportamenti opportunistici. Troppo spesso, invece, anche in questo ultimo anno di grande esposizione delle diverse istituzioni impegnate in prima fila a combattere l’emergenza, l’immagine riproposta della nostra PA, dai media, dai commentatori, da alcuni parti della politica è quella del “corpaccione inerme” in cui l’opportunismo individuale prevale ancora sull’etica della missione. È difficile pensare ad una PA in grado di attrarre talenti senza investire per creare un’organizzazione abilitante, meritocratica, inclusiva e impostata sui risultati invece che sugli adempimenti. Interessanti i risultati di un’indagine che abbiamo svolto sui partecipanti ai corsi di preparazione ai concorsi pubblici realizzati da FP-CGIL. Alla domanda, perché si decide di partecipare a un concorso pubblico? la maggioranza (il 46%) risponde per l’aderenza al percorso di studi e/o alla propria formazione professionale e personale, il 42% per la percezione di stabilità e sicurezza associata al posto di lavoro pubblico e solo il 17% fa questa scelta perché si riconosce nel senso di ‘missione’ verso il pubblico servizio che la PA e i suoi dipendenti sono chiamati a svolgere. Un dato interessante perché evidenzia come gli stessi dipendenti della PA, o coloro che dipendenti pubblici vogliono diventare, sottostimino spesso il valore del lavoro pubblico e il ruolo di civil servant che sono chiamati a svolgere. Un cambiamento culturale che passa anche da una completa ridefinizione del ruolo e delle finalità delle politiche del personale. Valorizzazione delle competenze, massimizzazione del benessere organizzativo, misurazione della performance e collegamento ad obiettivi concreti e misurabili, rinnovamento del senso di appartenenza, motivazione e partecipazione alla creazione di valore pubblico, passa in primo luogo da una nuova Direzione HR nella PA, non più mera ‘amministrazione del personale’, ma funzione attiva nella progettazione e gestione del cambiamento.

L’altro elemento di riflessione, emerso nel corso dell’anno appena trascorso riguarda le modalità di implementazione delle diverse misure adottate che tradiscono molto spesso la cultura dell’emergenza che le ha generate. Inoltre, per quanto riguarda il PNRR, l’approccio dall’alto, finora seguito nella definizione del Piano comprensibile per le strette scadenze poste dalla Commissione ha, di fatto, esautorato le diverse istituzioni del ruolo che a loro compete. Questo approccio genera un rischio per l’attuazione, lì dove non favorisce il confronto e dialogo informale su obiettivi, buone pratiche e strumenti tra i soggetti con funzioni di programmazione e controllo – Presidenza del Consiglio, Ragioneria Generale dello Stato, strutture dirigenziali dei Ministeri – ed enti pubblici – Regioni, enti locali, strutture territoriali del Sistema Sanitario Nazionale, autorità portuali, aziende pubbliche – cui sono affidati importanti risorse come soggetti attuatori. A fronte di questi rischi, è sicuramente necessario valorizzare la lezione a lieto fine dell’Anagrafe Nazionale della Popolazione Residente che, nell’arco del 2021 ha, di fatto, coinvolto la totalità dei Comuni italiani (a fine dicembre ne mancava all’appello solo uno). Alla base del successo del progetto ANPR vi è una strategia basata su elementi quali collaborazione e dialogo tra diversi soggetti (enti centrali e locali, PA e fornitori tecnologici), accompagnamento (canali diretti con i Comuni, assistenza, creazione di community) e una governance chiara ed efficace del progetto (ruolo di PMO dell’ex Team per la trasformazione digitale).

Dopo anni di indebolimento del settore pubblico e mancati investimenti in persone, competenze e innovazione organizzativa, sono pronte le amministrazioni, e in particolar modo gli enti territoriali, per questa sfida? È certamente necessario non lasciare sole le amministrazioni ma anzi sostenerle, favorendo il dialogo continuo tra centro e periferia: supportare i territori nell’attuazione, connettersi ai bisogni delle comunità locali, mettere a sistema le migliori esperienze, rappresentano una priorità. Questo è quanto noi cerchiamo di fare da anni e che continueremo a fare ancora di più in questo periodo così sfidante per il paese. Come abbiamo scritto nel nostro Almanacco presentato qualche giorno fa, frutto di un lungo percorso di ascolto e di confronto con gli innovatori della PA, se vogliamo scaricare a terra al meglio gli obiettivi e le scadenze del PNRR, dobbiamo essere consapevoli che la stesura dei piani dall’alto non è necessariamente garanzia del loro successo. Mai come in questo momento è fondamentale restituire valore alle persone che lavorano dentro la PA e per la PA, dando voce a progetti, iniziative, proposte, considerazioni e proposizioni di coloro che dovranno essere i veri protagonisti del cambiamento.

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